Mistica cannibale/ ॐ – una sillaba per mondo scritto e mondo non scritto Intervista ad Aldo Nove
di Marco Zonch
Questa intervista si colloca all’interno di un più ampio progetto di ricerca che ha lo scopo di indagare la produzione letteraria italiana, in prosa, del periodo che va dalla metà degli anni Novanta del secolo scorso a oggi. Il tentativo è quello di affrontare i problemi connessi al cosiddetto “ritorno alla realtà” e, più in generale, le trasformazioni avvenute in questi vent’anni da una prospettiva ontologica.
In questo senso, centrale appare essere la questione della spiritualità, pensata all’incrocio tra la riflessione di Michel Foucault e i risultati della riflessione sociologica contemporanea a proposito delle trasformazioni del panorama religioso occidentale. L’impressione, che questa intervista sembra supportare, è che molti dei più noti scrittori oggi attivi non si pongano problemi nell’ordine della possibile (o impossibile) corrispondenza tra parole e cose, tra mondo scritto e mondo non scritto, ma al contrario riflettano sulla possibilità di entrare in possesso di una verità di ordine spirituale.
Aldo Nove (1967), pseudonimo di Antonio Centanin[1], esordisce con le poesie di Tornando nel tuo sangue nel 1989. A qualche anno più tardi, invece, risale la sua prima opera in prosa, Woobinda (1996), una raccolta di brevi racconti dalle tinte pulp. Woobinda e la partecipazione a Gioventù Cannibale (1996), fortunata antologia curata da Daniele Brolli, gli varranno il “titolo” di cannibale.
Nove proseguirà la sua carriera alternando la pubblicazione di raccolte poetiche e opere di narrativa, a cui andranno ad aggiungersi alcune non fiction. Tra queste ultime si segnalano, in particolare, lo spesso citato Mi chiamo Roberta, ho 40 anni, guadagno 450 euro al mese (2006), il personal essay All’inizio era il profumo (2016) – una storia del profumo divisa tra autobiografia e saggio – e l’autofiction La vita oscena (2010). In questa intervista si parlerà in particolare di Tutta la luce del mondo. Il romanzo di San Francesco (2014) e di Il professore di Viggiù (2018).
L’intervista si è svolta attraverso uno scambio di mail che ha avuto luogo tra il 5 febbraio e il 23 aprile 2019. L’autore non è stato messo a parte della prospettiva di lavoro nella quale l’intervista si sarebbe inserita al fine di evitare l’influenza di questa sulle sue risposte. Ho tuttavia premesso che l’oggetto del mio interesse sarebbe stato “mistica e letteratura”, e che l’intervista avrebbe avuto l’obbiettivo di chiarire alcuni punti problematici del lavoro che sto svolgendo.
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Qualche tempo fa mi è capitato di leggere una sua intervista, condotta da Iacopo Barison per Minima&Moralia (http://www.minimaetmoralia.it/wp/siamo-adolescenti-di-cinquantanni-che-bazzicano-nel-caos-intervista-a-aldo-nove/), in cui le veniva posta una domanda sulla fede, su quale fosse il suo rapporto la fede. Affermava di non averne, intendendo così dire di essere lontano dal cattolicesimo istituzionale, da credenze di maniera ecc… Proseguiva dicendo di averne uno con la spiritualità. La pensa ancora allo stesso modo? E ammesso sia questa la parola giusta, che cos’è ‘spiritualità’?
Dunque. Il contesto di quell’intervista non era adatto a “mettere in piedi” un discorso articolato e ho preferito dirottare su una “provocazione” in senso etimologico. L’ambito religioso e spirituale è quanto di più linguisticamente logoro ci sia, in modo inversamente proporzionale al bisogno che ne abbiamo. “Non ho fede” significa “non chiudere” il discorso, ma lasciarlo aperto, come deve essere. Il linguaggio del cuore è delicato quanto l’organo che lo rappresenta, eppure è lì che serbiamo le nostre emozioni più profonde e che ci mettono in contatto con la trascendenza, lontano dunque dai “religiosi da pasticceria” (Sua Santità Francesco). Non a caso qualunque religione è per forza di cose “esoterica” e “essoterica” … Il linguaggio religioso regge inoltre le contraddizioni, e lo fa attraverso i simboli o i “fuori-rotta” linguistici. Prenda la mistica orientale “l’ateismo” buddista o il paradosso della Trimurti (da noi, della Trinità) … Ecco, partirei da qui.
Se ho ben capito, si tratta di respingere quello che potremmo chiamare dogmatismo, o forse obbedienza. Per non lasciare che la propria ricerca interiore – dell’intimità, del sentimento della trascendenza – sia chiusa in un orizzonte di razionalità (senza contraddizioni), e nell’alveo di una sola tradizione religiosa. Interpreto così il richiamo alla mistica orientale, ma non so se in modo condivisibile.
Come scriveva Raimon Panikkar, gesuita e al contempo monaco induista, nessuna religione può dire di essere al di sopra di tutte le “religioni”, in quanto esprimenti in forme diverse lo stesso anelito verso il sacro. Panikkar (di cui è in corso la pubblicazione dell’opera completa presso Jaca Book) parla di visione “Cosmoteoandrica”, e in questo neologismo (universo-Dio-Uomo”) c’è tutto quanto è (ir)risolto (ma sempre riproposto, sempre attuale) al cuore della mistica. Parimenti, nella vita dei Sufi, la matrice islamica è al contempo superata e conservata dalla “via del cuore”: non importa quale Dio preghi (Dio è ineffabile), ma come e quanto lo senti. Questo sentimento universale possiamo chiamarlo, tecnicamente, ecumenismo. Ma è qualcosa che va oltre…
Quali sono i suoi punti di riferimento spirituali? Ci sono dei pensatori, degli uomini di Chiesa, degli artisti che l’hanno influenzata? Vista Tutta la luce del mondo, mi azzardo a fare il nome di Francesco d’Assisi…
Francesco, indubbiamente, e tutto quanto intorno a lui si muove e si è mosso. Quella di Francesco d’Assisi è stata la prima “Imitatio Christi”, e nella sua vicenda sono coinvolti ovviamente Chiara ma anche Frate Elia e tutti coloro che ne hanno vissuto lo spirito originario, fino all’addomesticamento, mi verrebbe da dire, di San Bonaventura che, con la sua “legenda Maior”, lo ha in qualche modo “normalizzato” … Papa Francesco vorrebbe riproporre quello “scandalo” che è stata la vita di San Francesco come “ripetizione” (liturgia incarnata) di Cristo, ma i tempi sono durissimi, e la Chiesa come istituzione è al suo minimo storico. Comunque, nella tradizione della Chiesa, è imprescindibile Sant’Agostino, ovviamente (di cui negli anni ho acquistato e quasi integralmente letto l’Opera completa), mentre, pur essendo mente acutissima, trovo San Tommaso e la Scolastica come l’espressione della massima “cristallizzazione” del pensiero cristiano, il suo impoverimento “dogmatista” quanto il rafforzamento del suo potere “argomentativo”. Così ho preferito rivolgermi alla sapienza ebraica, alla Qabbalah e in particolare allo Zohar, ma anche alla sapienza induista nei suoi ultimi massimi esponenti: Ramana Marshi e il supercitato, ne “Il professore di Viggiù, Sri Nisargadatta Maharaj. Poi ci sono i teologi contemporanei, e su tutti Joseph Ratzinger e Romano Guardini… Ratzinger, in particolare, è una figura molto più complessa di quello che comunemente si pensa. Mi piacciono i suoi scritti sullo Spirito della liturgia.
E chi è Il professore di Viggiù?
Mi spiego meglio. L’impressione che ho avuto leggendo è che il quaderno del professore –attraverso cui si introducono nel testo una serie di dialoghi “socratici” – risponda al desiderio di mettere in chiaro alcune cose, rendere esplicite alcune concezioni filosofico-spirituali che sono tue e mai comprese. Penso questo per due motivi: 1 – la dichiarata somiglianza tra la posizione esistenziale del professore e quella della voce narrante (e autobiografica; p. 26); 2 – il fastidio che il narratore mostra di provare, a più riprese, nei confronti di tutte quelle letture “pigramente cannibali” in sono state confinate le sue opere (p. 20).
Il Professore è un “risvegliato” e, come tale, si muove su diversi piani di coscienza, comunque superiore a quello in cui siamo tutt’ora immersi, diciamo a tre dimensioni. E proprio per questo il professore è presente e non presente… La sua condizione è quella di chi vive secondo il Tao, di cui metto qua l’inizio, che ne è poi la sintesi:
Il Tao di cui si può parlare non è l’eterno Tao,
il nome che si può pronunciare non è l’eterno nome.
Innominato, è l’origine del cielo e della terra.
Nominato, è la Madre delle miriadi degli esseri.
Eternamente privo di desideri, puoi coglierne l’essenza segreta.
Eternamente immerso nel desiderio, puoi coglierne le manifestazioni.
La Verità (che è altro dalla realtà, assolutamente altro) non è esprimibile a parole se non per approssimazioni del resto pericolose (lo stesso Gesù Cristo – che era consapevole di ciò – ha scatenato indirettamente le peggiori guerre e brutture in suo nome). La Parola (Logos) è ben altro da tutto quanto può essere scritto in qualunque libro. La verità è (uso il lessico induista codificato da Samkara nel 778 d. C.) “neti-neti” (“né questo né quello”), libera dalle costrizioni del principio di non contraddizione. Tornando al Professore, si esprime per metafore e parabole, e infine sprofonda, insieme ai suoi amici, in un Mandala, che è una rappresentazione “attiva” della Verità. Il narratore, invece, è in fondo nient’altro che “uno scrittore” mentre i veri sapienti non hanno scritto nulla.
Questo risveglio “trascina” con sé, implica insomma un mondo (re)incantato, l’esistenza di una qualche forma di anima mundi (si parla di Plotino a p. 110, di analogie tra alchimia e fisica pp. 168-169)? È la stessa concezione ontologica di cui si parla in Tutta la luce del mondo? O meglio: parlando di Francesco d’Assisi alludi a una stessa possibilità di senso – una Verità – che si trova al di là delle teorizzazioni che di essa si possono, razionalmente, produrre?
Direi completamente disincantato. L’incanto contemporaneo è nella prigione idolatrica in cui fluttuiamo: Kali Yuga. Quindi il risveglio è proprio il contrario dell’“incanto”. È consapevolezza. Coscienza. Le analogie tra alchimia e fisica quantistica derivano dal fatto che la teoria dei campi, se non è sorretta dalle ipotesi di “forze altre” (l’universo implicato di Bohm) non regge. O perlomeno, come per Gödel e Heisenberg, resta incompleto. Ma è proprio da questa “falla” (Max Planck, nel discorso di ricevimento del Nobel, disse testualmente che “La materia non esiste”!) a aprirci prospettive uccise da trecento anni di materialismo grossolanamente fideistico.
Dicibile e indicibile. Come affermi, il Professore si esprime «per metafore e parabole», fino a “sparire”, fino al silenzio o, almeno, alla decisione di non scrivere. Scrittore e saggio: in che rapporto stanno? Che rapporto intrattiene la tua scrittura con i risvegli di cui parla?
Io sono ciò che scrivo e viceversa. Non ho mai mirato al successo. Faccio ricerca. Attraverso la lingua o, meglio, il linguaggio. La mia grande passione, che coltivo da più di quarant’anni, è la poesia: ritmo e “simpatia” (in senso etimologico) di particelle sonore. Collegate al respiro: Paul Celan, forse il più radicale poeta del Novecento, ha scritto in “Der Meridian”, il suo unico testo poetologico, “poesia è una svolta del respiro”. In fondo e sempre, quindi, musica: la terra vive immersa nella vibrazione di Schumann. E anche le cellule emettono vibrazioni/suoni. L’universo è l’eco di un suono ancestrale, che gli indù hanno riconosciuto nell’AUM: espirazione/ intervallo / inspirazione. Di chi sia quel respiro, in fondo, non è importante. Ogni cultura gli dà il suo nome. Ma negarlo significa semplicemente negare ciò che chiunque, a un livello non superficiale, sente e sa.
Posso chiederti di spiegarmi meglio la relazione tra linguaggio, ritmo, simpatia, mondo e respiro? In che modo questa influenza la tua scrittura?
Certo. Ma io non posso che continuare a dare la stessa risposta in termini diversi! Proviamo a rispondere. Ciascuno di questi termini ha ambiti semantici così vasti da costituire una sorta di diffrazione quantistica che, in quanto diffrazione, è una “stortura” di un originario… Ancora, sappiamo sempre dalla fisica delle particelle che la natura della stessa materia, nell’infinitamente piccolo, può essere onda o particella o, meglio, è sia onda che particella. Quindi potrei semplicemente dire che tutta questa fenomenologia dell’apparente non è altro che luce. Linguaggio, ritmo, simpatia (nel senso etimologico di “compassione”, anche e innanzitutto), mondo e respiro non sono che accidenti, direbbero Aristotele e San Tommaso, della Luce (o del Motore Primo). Tutta la luce del mondo, quindi. Stando poi più prossimi al pensiero induista, essendo il Mondo ciclico, il big bang e il big Crunch non sono altro che “respiri” del divino (Brahman, secondo i testi vedici e, in noi, Atman, – vedi il tedesco “Atem”) nella sua ciclicità. Cercare di capire oltre, sul piano razionale, è impossibile. L’influenza che ha tutto ciò con la mia scrittura riguarda innanzitutto la mia coscienza che, quando non è spinta da altro (commissioni, articoli e altra produzione linguistica da sostentamento) si può e deve scrivere con la maiuscola, Coscienza. In quanto tale, è di tutti, e io cerco di scrivere nel senso letterale della parola medium. Lacanianamente, “C’è chi parla”.
Teoria dell’universo oscillante e ciclicità induista, che cosa ne consente la sovrapponibilità?
Non abbiamo “universi oscillanti” se non ne consideriamo la costanza nei cicli d’entropia che portano ad assimilare l’universo a una sequenza di respiri e, da questo punto di vista, pensiero scientifico e induismo sono già, più che sovrapposti, consonanti.
Cambiando un po’ argomento, mi chiedevo se l’idea di una scrittura medianica fosse il punto d’arrivo o quello di partenza della tua ricerca personale. Intendo dire che, cercando tra i miei ricordi, faccio difficoltà a trovarne traccia in Woobinda.
È il punto di partenza come predisposizione e intento. È il punto di arrivo, o meglio ne è l’idea, in un percorso di continuo raffinamento, di “rettificazione” alchemica nelle sue tre fasi più accettate nella complessa tradizione iniziatica di questa scienza: nigredo, albedo, rubedo. Quello che sento come il più grande poeta rock che abbiamo avuto, Lou Reed, chiude il suo album più incisivo, del 1992, con la formula “There is a bit of magic in everything, and then some loss to keep the things out”. Magia e perdita. Ma perdita di cosa? Trasformazione: energia, cambiamento, evoluzione, e liberazione dall’ego. Ritorna così il concetto di entropia, non possiamo liberarcene… Per quanto riguarda Woobinda, è stato un momento del mio percorso in cui “ho giocato (to play: “mettere in scena”, oltre “che giocare”) la realtà” più immediata di quegli anni. La medianicità stava nel raccontare ciò che mi circondava in modo neutro, senza che interferisse il mio pensiero. Lasciavo fluire in me un mondo demente che poi, è sotto gli occhi di tutti, è diventato sempre più tale. Ma non è certo né “tutto” il mondo né il mondo “vero”. Il titolo iniziale del libro, poi cambiato dall’editore, era “La merce che c’è in noi”. Non volevo assolutamente giudicare (e tantomeno deridere o peggio ancora compiacermi), ma semplicemente ho fatto sì che “fossi usato” dal linguaggio e dai contenuti di un mondo preciso (l’Occidente consumistico a cavallo tra due millenni) nelle sue coordinate culturali e nelle sue allucinazioni. Questo lo scrivo ora. Ma nel libro non c’è alcun giudizio. Come si dice, era “specchio dei tempi”, e non sono poi così felice, abbandonate le gratificazioni egotiche, che quel libro fosse stato “profetico”.
Dal racconto del velo di maya, al racconto del suo sollevarsi, a quello di una possibilità iniziatica vera e propria? Penso alla (ri)nascita che chiude la Vita oscena, fino all’accenno conclusivo sulla ciclicità («Inizi e morte. | E poi di nuovo l’inizio.» p. 111), all’attraversamento del fuoco… dal Rosarium philosophorum:
Se ne alzano a volo due aquile e si bruciano le penne
e sulla terra nuda ricadono.
E già hanno riacquistato le penne…[2]
E torniamo così, in circolo (ovviamente), alla prima domanda. La spiritualità è espressa con termini (significanti) che non combaciano (non possono, non devono) con il significato. Questo iato è il sintomo dell’indicibile. Perché Gesù parlava per parabole? Rivelare vuol dire “svelare” ma anche “velare di nuovo”. Il passo da te citato, a sua volta citato da Jung (che di mistica e simbolismo ha capito poco a causa del suo approccio medico, pur avendo dato all’Occidente una spinta quasi unica a una nuova ricezione di questi temi, abbandonati e bistrattati dallo scientismo dell’Ottocento, la più penosa forma di oscurantismo della storia umana e che oggi prosegue nella mentalità dominante), va letto più e più volte: rivela (e cela) una profonda verità. Credo che ogni discorso iniziatico sia innanzitutto orale (né Socrate né Gesù né Buddha hanno scritto mai nulla). La Parola, il Logos, è suono. Ed è proprio il caso di dire che se “verba volant, scripta manent”, gli scritti sono sempre saturi di intrinseca ambiguità. Ermeneutica ed esegesi sono sempre tentativi di “cavare” fuori qualcosa di vero. E ancora “attraversare il fuoco” cosa vuol dire? Non può esserci una risposta univoca perché è profondamente legato all’individuo. E’ esperienza. Paramhansa Yogananda parlava di tre livelli di approccio al sacro: quello del cuore, quello della sapienza e quello che li compenetra e supera con l’esperienza. Che è sempre individuale (ma non per questo “monistica” o isolata). Tornerei al Tao. Mi sembra, dall’attacco che ho citato prima, illuminante. Se non si cerca di “interpretarlo” troppo…
Hai ragione, si arriva al cerchio. Mi piacerebbe parlarne ma non vorrei abusare troppo della tua disponibilità. Provo invece a fare un ultimo passo, di fianco, prima di concludere. Parli di oscurantismo, di scientismo come mentalità dominante, di merci… la tua scrittura ha qualcosa a che fare con il contrasto di questo dominio, con l’impegno? Se non preciso nulla a proposito di ‘impegno’, spero mi scuserai, è per lasciare la domanda la più aperta possibile. Anzi, avessi una parola (o più) che ritieni migliore, ignora pure il mio ‘impegno’.
Il mio disimpegno è totale. Certo, sarebbe giusto ammazzare Mario Draghi. Pure, per quanto schifoso, Mario Draghi è un essere umano, e l’unica tessera che ho preso nella mia vita è quella di “Nessuno tocchi Caino”. Quella tessera e quello che rappresenta sono per me un valore invalicabile. Per quanto riguardo l’impegno nel senso anacronistico del movimentismo, credo che di questi tempi, in cui le parti si contrappongono per finta, sia semplicemente grottesco. Forse potrei fare qualcosa di utile improntando la mia intera esistenza alla cura degli altri, ma non è nella mia indole. Cerco di farlo nel quotidiano, e ho ancora molto da imparare.
E se invece dico illuminazione, trasformazione o conversione dello sguardo (metanoia)? La letteratura, la tua scrittura hanno qualcosa a che fare con questo?
Mi auguro di sì. C’è un libro molto bello, di Alberto Boatto, dal titolo “Lo sguardo dal di fuori”, (Castelvecchi) che è una riflessione profonda su come possiamo guardarci dall’esterno, e cosa questo possa significare. Boatto parte dalla prima fotografia scattata dallo spazio alla Terra, ma si tratta di un’immagine che non può che evocare l’umano e i suoi confini. Credo comunque che la metanoia sia innanzitutto esperienza, e la scrittura ne è riflesso, anche molto ambiguo. Pure, quello so fare. Ed è sempre un’azione.
Che cosa intendi con cura degli altri?
Ho fatto l’università lavorando di giorno come badante per anziani non adatti a essere curati da donne (per attitudini caratteriali loro, diciamo, e facilmente intuibili) e studiando di notte, dopo avere messo a letto i miei dolci maniaci sessuali di 90 e passa anni. Sono stati gli anni più belli della mia vita. Per cura degli altri intendevo proprio questo: da autosufficiente curarmi di chi non lo è, in senso proprio fisico e mentale come nel caso mio di cui ho appena parlato o di fronte a disagi, diciamo etnici, culturali: di integrazione dell’Altro. Io sono gli altri, e nel momento in cui questa correlazione si affievolisce troppo viene quasi a mancare il soggetto, si affievolisce troppo o si ripiega su se stesso fino a perdere senso. Sono profondamente convinto che anche un eremita, penso ad esempio a Henry Le Saux, sia “collegato” al resto dell’umanità attraverso altre forme di comunione indirette e potentissime. Che poi, a seconda del contesto culturale in cui le collochiamo, hanno a fare con l’entaglement, la preghiera, i campi gravitazionali o il sannyasin…
Ci sono secondo te altri scrittori, italiani e non, che oggi si fanno portavoce di idee di letteratura simili alla tua? Un’idea di arte o un’idea-mondo, forse.
Susanna Tamaro. Tiziano Scarpa. Aldo Busi. Franco Buffoni. Antonio Moresco. Chandra Livia Candiani. Erri De Luca. Milo De Angelis. E altri ancora… In realtà si tratta di personalità molto diverse, ma tutte animate da profonde convinzioni interiori.
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[1] Aldo Nove, come ricorda Fulvio Senardi nella sua monografia, è «un sintagma di proveninenza insospettabilmente resistenziale perché ricavato dal messaggio che ha chiamato Milano all’insurrezione nell’aprile 1945: “Aldo dice 26 x 1”». ‘Nove’ non è altro che la somma delle cifre due, sei e uno. F. Senardi, Aldo Nove, Cadmo, Firenze, 2005, p. 13.
[2] Artis auriferae, vol. 2, p. 293, cit. in C. G. Jung, Opere, vol. 14: Mysterium coniunctionis, Bollati Boringhieri, edizione per Kindle.
Mi comunica per Email Rosaria Lo Russo che non l’ho compresa nei nomi citati un po’ alla rinfusa nel’elenco dei miei colleghi che stimo. Si tratta di una svista e rettifico qui con piacere, e dovere, che il lavoro di Rosaria Lo Russo sulla poesia, per quanto possa valere la mia opinione, è attualmente il più intenso è profondo della nostra misera italia. In quanto tale e ovviamente, completamente sottovalutato.
Aldo Nove