L’ossessione dei “Fiori estinti” di Mattia Tarantino
di Daniele Ventre
L’opera seconda, o se si vuole ancora quasi prima, di Mattia Tarantino, Fiori estinti, ed. Terra d’Ulivi 2019, seguita a Tra l’angelo e la sillaba, per i tipi del medesimo editore (e risalente al 2017), segna il secondo tempo del momento di esordio di un autore giovanissimo (nato a Napoli nel 2001). In Fiori estinti di Tarantino, due connotati generici, che in parte si ravvisavano già nel libro d’origine, tendenza fortemente centripeta dei testi della raccolta attorno a ben precisi nuclei tematici, e pronunciata inclinazione all’asperitas verbale e concettuale, con il semiconscio rifiuto di ogni tentazione d’equilibrio, si ripresentano rafforzati, con le loro luci e con le loro ombre, e sono spia e documento testimoniale di una nuova fase, che si viene annunciando, della contro-storia di una certa area della contemporanea produzione in versi nostrana.
La piccola opera di Mattia Tarantino si contraddistingue anzitutto, e l’abbiamo accennato, come un sistema lontano dall’equilibrio, o che da ogni equilibrio si mantiene più o meno accortamente remoto, in un’omeostasi capovolta. Di tale status singolare è primario indizio la strutturale violenza delle immagini e delle scelte lessicali, che non si precludono l’azione perlocutoria, e a tratti persecutoria, di evocare oggetti e dimensioni di realtà posti ben oltre il limite della deiezione, fisica ed esistenziale, quasi che lo scavo nella sostanza della parola debba porsi, anzitutto, come scavo archeologico grufolante nella periferia dell’essere, in quanto di degradato, biodegradato e biodegradabile si rinviene alle radici fecali dell’intima natura delle cose. In mezzo al loess dell’esistenza, di cui Tarantino si fa collettore, emergono occasionali aree di coesione ontologica, piccoli luoghi verbali di non inferno che l’emittente del messaggio deve ancora ostinarsi a far perdurare, calvinianamente, contro l’inferno fluviale che al momento li travolge.
Nel piccolo grande fiume lutulento di esistenza che i versi di Tarantino trasportano, emergono a tratti lo spettro del poeta veggente, l’alone della natura, l’eco del responso oracolare, l’infinito per speculum et enigmate, un assoluto che digrada alla vista come per acqua cupa cosa grave, l’evocazione neo-foscoliana del materno terragno e terreno, quasi immagine locale e ritratto dislocato di una Eterna alla Macedonio Fernandez: frammenti di totem, residui di metafisica, evocazioni in corso, immagine di un universo minimo in espansione, in cui si trova molto più di potenza che d’atto, senza cedimenti all’idolo del controllo.
Di queste “apparizioni senza durata e senza difesa contro la furia marziale del mondo” trascinate e stritolate da un “immaginario convulso”, come scrive Giorgia esposito, brevitate felix, nella sua post-fazione, Mattia Tarantino dichiara l’estinguersi, in una sorta di contro-inno al naufragio dell’ente di jaspersiana memoria. Il tutto si condensa in un’urgenza comunicativa da poète maudit benedicente e in cerca di benedizioni, urgenza che spesso travolge sé stessa, nel suo ritmo battuto di posizioni trocheo-giambiche, con impeto ruvido di creazione primitiva.
[Mattia Tarantino è nato a Napoli nel 2001. Co-dirige Inverso – Giornale di poesia; fa parte della redazione di Menabò – Quadrimestrale internazionale di cultura poetica e letteraria (Terra d’ulivi edizioni) e di Bibbia d’Asfalto – Poesia urbana e autostradale; ha curato la sezione di poesia per Nefele. È presente in diverse riviste e antologie, italiane e internazionali. I suoi versi sono stati tradotti in sei lingue. Ha pubblicato Tra l’angelo e la sillaba (Terra d’ulivi edizioni 2017)]
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Da Fiori estinti, ed. Terra d’Ulivi, 2019
Vigilia d’inverno
Ho offerto i miei voti all’inverno,
alla rosa sbaragliata da una neve
che non cade, non vacilla, ma soltanto
che attendiamo e ci rinnega.
Da domani i bambini torneranno
a inventare nuove storie e nuovi fiori.
* * *
Tutto trema
Non capisco il vento quando annuncia
una catastrofe di tuoni, né il castigo
di questi lampi neri e malaticci.
Ma mia madre è un temporale: lei conosce
il mistero che si scorge
in bocca al cielo, scaraventa
una bufera sulla casa e tutto trema.
* * *
Ossa di latte
Ho ossa di latte: le stacco
a una a una e le chiudo
nelle grotte del cielo.
Se un fiore spunterà
ne rideranno gli angeli.
* * *
Il trucco degli amanti
Mi hai donato fiori morti
da lanciare nella stanza, fiori
già sporcati da una voce, e seppelliti
dove la parola non fa tana.
Ed è questo il trucco degli amanti:
se prendi un fiore puoi legarlo
in fondo al cielo, puoi impiccarlo
a qualche nome e poi morire.
* * *
La legge del mondo
Ho visto corpi aggrovigliati
alla mania dei fiori; ho visto
i morti sudare in bocca
ai vermi. Eppure
conosco la legge del mondo:
ogni giorno il sole è nuovo e noi soffriamo.
* * *
Mio nonno
In autunno i morti gorgogliano,
hanno in gola la rosa
interrotta, le ultime
parole mozzate ammainando
la luna. Strette
queste ossa, stretto
il bacio che li negò al mondo:
c’è qualcosa di sepolto
tra mio nonno e il mio cognome.
* * *
Rima in ottobre
A S. tra i fiori
L’acqua esplode, noi
esplodiamo: nemmeno
le stelle fanno argine al diluvio.
Voglio cantare con la voce
dei morti, regalare
un fiore che non spunta, da intrecciare
alla tua gola e poi tirarlo
forte, poi più forte, poi strapparlo.
* * *
Tempesta
A S. in un lampo freddissimo
Ho conficcato un grande urlo
dentro il cielo; l’ho abbattuto
in fondo alla tua gola, mentre gli angeli
mordevano e azzannavano la prossima
tana delle stelle: ora i fulmini
annunciano riscossa, tutti i corpi
degli uccelli li attraversa
il vento. Svelta,
inchiodami là in alto e poi spalancami.
* * *
Mia madre
Legge di Ponente la discordia
verticale che fu taglio:
mia madre inghiotte cento fiori,
poi rimette dalle vene.