Abitare le lingue

di Lisa Ginzburg

“Succede così anche per le lingue. Quando si è costretti a parlarne un’altra per molti mesi, come a me è accaduto, quando ritorni alla tua ti accorgi che la lontananza ti è servita per riscoprirla nella sua essenza più profonda. Si potrebbe coniare uno slogan divertente: ‘Studiate l’inglese, il francese, il tedesco per … imparare l’italiano’”. Goliarda Sapienza così scrive ne L’arte della gioia. Ben prima, Goethe aveva affermato qualcosa di simile parlando del suo amore per la lingua italiana: sposando stesso assioma secondo cui, un po’ come quando per conoscere qualcuno per davvero devi anche darti lo spazio e la distanza fisica e interiore per potere pensarlo da lontano, lo stesso accade con la propria lingua.   Distanziarsi in senso fisico e interiore aiuta a comprendere: affina i sensi, fa guardare e riflettere con maggiore attenzione. La lontananza è lente focale, il silenzio acuisce l’udito. Lontani, capiamo e apprezziamo tutto di più. Anche il nostro idioma.
Da quando vivo all’estero in pianta stabile, cioè da una decina d’anni, i miei rapporti con l’italiano mia lingua madre si sono intensificati e sentimentalizzati. Quest’anno a Parigi ho tenuto un ciclo di brevi conferenze dal titolo “Sillabario italiano”, riflessioni su particolari lemmi ai miei occhi particolarmente rappresentativi della peculiarità linguistica del nostro idioma. Nel preparare ogni intervento mi scoprivo a entusiasmarmi, commuovermi persino, per etimologie e curiosi percorsi glottologici delle parole – io abitata da moti d’animo partecipi ai limiti del patriottico, sommovimenti interiori che mai nel mio passato esterofilo avrei potuto nemmeno solo immaginare possibili in me. Emigrare, allontanarmi insomma sì, ha aumentato l’amore. Ma cosa succede con le altre lingue? Perché con ognuna ho il senso di intrattenere un rapporto diverso. E come il tutto si riverbera sul rapporto con la mia lingua?
Sui curricula scrivo di sapere cinque lingue e sono onesta quando lo affermo, non millanto. È vero, alla mia lingua madre se ne aggiungono altre quattro che parlo, alcune meglio altre peggio, tutte – è quel che conta – con l’orgoglio e la temerarietà un po’ incosciente dell’autodidatta. Non proclamo dunque un falso poliglottismo, né credo di vantarlo o sbandierarlo mai. Ne conosco tutta l’imperfezione: sono realista, tormentata da un senso di costante incompiutezza, perché avendo imparato da sola, l’apprendimento è lacunoso. Le sottigliezze della grammatica mi sfuggono, e scrivere mi è quasi impossibile. Il modo strampalato e raffazzonato con cui ho appreso a comunicare e parlare si traduce sulla pagina in maldestri tentativi, prove di un arbitrio compositivo troppo anarchico e del tutto fallimentare. La libertà audace di cui do prova nello scambio verbale, trasposta sulla pagina, è puro disastro.
Anche nelle due lingue che parlo meglio, il francese e il portoghese, lo scarto tra parlare e scrivere è abissale. E questo mi azzoppa, mi imbarazza, mai mi dà quella sicurezza “secchiona” di chi una lingua straniera invece la possiede perfettamente, forte di corsi e frequentazioni regolari di scuole e corsi avanzati con relativi diplomi finali. E il rammarico crea in me un inestirpabile senso di inferiorità. Altro che i poliglotti “veri”. Ormai a scrivere in altre lingue dalla mia non provo nemmeno.
Eppure del mio metodo di autodidatta vado fiera. Fatta eccezione per lo spagnolo, l’ultima lingua in termini cronologici che ho appreso, facilitata dal portoghese già acquisito e grazie a un biennio di rapporti di lavoro quotidiani con una équipe di ispano-parlanti, gli altri idiomi li ho imparati tutti nello stesso modo, usando lo stesso metodo. Leggendo romanzi e ascoltando musica.
Leggendo: ho ricordi di me attonita e incuriositissima davanti a pagine di Middlemarch di George Eliot. È estate, sono in campagna, il caldo mi ottunde mentre osservo quei fogli fitti di una prosa composta di periodi molto lunghi, pochi punti e tante parole incomprensibili. Il più vivido è proprio il ricordo dell’impressione visiva: quei blocchi di frasi sconosciute ma la cui sequenza anche graficamente già di per sé mi affascina, mi ipnotizza. Termini ignoti che si avvicendano, seguo il filo delle parole, leggo e rileggo, mano a mano colgo il senso di un paragrafo, poi un altro, ma mi distraggo continuamente, troppi lemmi mi sfuggono. Annaspo. Eppure è proprio da quella ignoranza sovrana, dominante, che la voglia di capire si farà strada. Una voglia testarda, tenace: di decriptare, non aiutata da vocabolari e dizionari, ma per comparativo / deduttivo procedere della mia piccola testolina, lei da sola.
In francese: “toutefois”, “car”, “souhaiter”, “apprivoiser”, “plenitude”, “l’arrosoir”. In inglese: “meanwhile”, “somewhere”, “feeeling”, “worst”, “despite”, “cosy”, “loneliness”. In portoghese: “agora”, “eu não sei”, “tomara que seja”, “leaozinho”, “madrugada”, “nunca mais”, “juba”. In spagnolo: “alma”, “espesura”, “amanecer”, “duerme”, “sin embargo”… Innamoramenti immediati, rapinosi, definitivi: tutti di natura puramente fonetica. Mi innamoro di parole, e la prima fascinazione, proprio come un primo amore, è viscerale, puro istinto, nessun criterio, non il minimo calcolo.
Metodo del tutto empirico e rudimentale che da allora, da quell’estate in compagnia di Middlemarch, uso sempre: a forza di comparare parole, giustapporle, raffrontarle, provare a decifrarle, incomincio a dedurre le lingue, poi a leggerle via via un po’ meglio, infine a parlicchiarle. Prendo insomma ad abitarle. In ogni lingua prendo dimora, e una dimora diversa.
“Abitare le lingue”: intitolai così un convegno che organizzai a Venezia nell’aprile del 2011, in veste di direttrice di cultura di un organismo internazionale oggi non più attivo, l’Unione latina. Si trattava di due giornate dedicate al tradurre poesia, ospiti poeti di diverse nazionalità. Per la brochure scegliemmo con i miei collaboratori una riproduzione del quadro “Storia della Torre di Babele” di Brueghel il Vecchio. Più che la torre, sghemba e massiccia in primo piano, mi colpiscono di quel quadro le figure umane sulla sinistra della tela: un gruppo di persone interdette davanti alla vastità di opzioni linguistiche, ma determinate a intenderle e a intendersi tra di loro. Si lavorava con i colleghi della Unione latina sull’intercomprensione, una forma molto funzionale di comunicazione nonostante ogni locutore si esprima nel suo idioma. Ritrovavo un filo con il mio amore adolescenziale per l’empiria dell’apprendistato linguistico, quell’intelligenza solo intuitiva che può condurre a un abitare personale e personalizzato, perché conquistato grazie a mezzi e strade proprie.
Abitare le lingue. Il tema continua a interpellarmi, mi riguarda da vicino. Abito ognuno di questi idiomi parlati “a modo mio”, ma soprattutto sono loro ad abitare me. Ciascuno risvegliando un lato della mia personalità, ho l’impressione.
Già. Ogni lingua mi vive dentro in una sua maniera, riecheggia toccando determinate corde e non altre. Parlo con me ad alta voce quando devo capire, sviscerare, e qualcosa fa resistenza allo scavo interiore, o quando sento l’urgenza di sdrammatizzare, di prendermi sanamente un po’ in giro. Allora, mentalmente o in più solenni soliloqui ad alta voce, mi servo di volta in volta di una lingua o un’altra a seconda dei frangenti dei miei stati d’animo.
Per capirsi: l’inglese è la lingua di un sentire delicato, poetico. Il portoghese la lingua del cuore per come parla a se stesso nella forma più diretta, non mediata. Lo spagnolo, l’idioma del vigore appassionato ma lucido. Il francese, lingua del ragionamento minuzioso, razionale sino all’esasperazione. E l’italiano… l’italiano, quando “parlo con me”, è in senso letterale lingua madre: lo uso per rimproverarmi o per aiutare me stessa a vedere quel che non voglio vedere, proprio come faceva mia madre la cui voce mi manca ogni giorno.
Anche se imperfetto, conquistato secondo traiettorie troppo personali per poter parlare di autentico poliglottismo, il plurilinguismo supporta e avalla la prismaticità del sé. Aiuta a essere contemporaneamente più nature, non una univoca soltanto. Argomenta la babelica coesistenza (civile) di sfaccettate parti di noi stessi, bisognose ognuna di esserci e di venire ascoltata. E conferma l’idea goethiana, poi di Goliarda Sapienza: che alla propria lingua si “torni” meglio dopo avere viaggiato tra altre.
Quando scrivo, cioè quando il mio rapporto con la lingua è più frontale, e intenso, e per me importante, allora abito esclusivamente l’italiano. Non credo cambierà. Lì è casa mia, e sebbene mi diverta ancora moltissimo a viaggiare, vagabondare tra altre lingue e abitarle, è a casa mia che voglio tornare.

4 COMMENTS

  1. Bellissimo, Lisa, bellissimo pezzo nel quale mi ritrovo tantissimo. Sono contento che tu citi Middlemarch, straordinario romanzo di una donna costretta ad assumere un nome da uomo per firmarlo, ma di una ricchezza travolgente. L’ho scoperto anni fa per caso, leggendo un altro libro di critica linguistica, perché mi pare che in Italia ben pochi lo conoscano. Abitare le lingue è una metafora molto azzeccata; mi piacerebbe conoscere il portoghese e leggere Saramago in diretta, ma al momento sono più alle prese col tedesco, lingua per molti versi più affascinante ma per me più ostica dell’inglese. Stiamo a vedere.
    Benvenutissima in Nazione Indiana, cara Lisa, vai così!

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