Radiodays: Abissi
L’abisso
racconto di Mirco Salvadori
Nero, spumante denso catrame, spalanca le fauci e ingoia, spezza, annichilisce, ghermisce il respiro e lo accartoccia nel sibilo atroce della resa alla morte.
Piegato in due, raggrinzito su sé stesso, i timpani che urlano bisogno di silenzio mentre l’atroce sibilo penetra oltre la barriera delle palpebre un attimo prima che si spalanchino permettendo alla vista di oltrepassare il lento scivolare del sangue che vela lo sguardo. Una frazione di secondo, la stessa frazione di tempo usata per premere l’acceleratore e innescare un meccanismo capace di amplificare la devastazione. BOMBA! BOMBA! Le uniche e ultime parole udite prima che il vento furioso creato dalla deflagrazione lo colpisse allo stomaco con la stessa potenza di un bisonte lanciato a testa bassa verso il cuore della tempesta. Piegato in due, raggrinzito su sé stesso, immerso nella nuvola di detriti, coperto dalla pioggia di brandelli di carne, pezzi di arti, interiora strappate, Deepesh pensava al mare, quel lontanissimo e sconosciuto mare oltre il quale avrebbe finalmente trovato pace. Via da Peshawar, incontro ad una nuova vita in una nuova terra che i racconti e il passaparola descrivevano come un vero paradiso.
Le corsie dell’ospedale erano gremite all’inverosimile, le pareti chiazzate di sangue e vomito imprigionavano le urla di bambini a cui erano state amputate braccia e gambe, la disperazione di madri che avevano perduto i loro figli, il tormento dei mariti che cercavano mogli di cui nulla era rimasto se non un grumo di ossa e sangue ormai indurito. Deepesh vagava di letto in letto alla ricerca di suo fratello mentre l’angoscia saliva e saliva. Il pugno stretto allo spasimo nella tasca che conteneva il piccolo tesoro sufficiente a farli fuggire, arrancava di respiro in respiro. Nel momento dello scoppio lui si trovava relativamente lontano, mentre suo fratello lo attendeva sotto le arcate del mercato, erano pronti per andarsene, partire, abbandonare quella città che aveva loro insegnato i mille modi nei quali è possibile morire.
Dove sei fratello, dove?!
Lo trovò con gli occhi chiusi, dormiva. Un pezzo di motore gli aveva oltrepassato lo stomaco portandolo via di netto. Mansoor ora dormiva, il suo lungo viaggio era iniziato.
Il polmoni di Deepesh cessarono di inalare ossigeno, degluitiva a fatica ingoiando tutto quel sangue, l’orrenda vista delle piccole ossa che squarciavano la carne e quegli occhi per sempre chiusi nel sonno senza fine. Povere esistenze le loro, segnate dalla miseria e dalla mancanza di genitori che li tenessero per mano accompagnandoli lungo sentieri privi di mine anti-vita. Una sventagliata di mitra li aveva uccisi entrambi, lì sugli altipiani del Kashmir. Un vecchio amico di famiglia li aveva portati lontano dalla guerra, nella grande città dove tutto è più facile, dove si impara a scrivere e leggere, dove si lavora e ci si sposa. Finalmente una nuova possibilità subito interrotta dal rumore secco di una cinghia che vibrava nell’aria e colpiva dura, tagliente, cattiva come lo sguardo di quell’uomo che li obbligava a rubare per guadagnarsi del pane. Deepesh e Mansoor, due fratelli, due anime che si accompagnavano alla morte, la sfioravano continuamente odorandone l’acre effluvio, l’accarezzavano sfilando veloci i portafogli dalle tasche e gli orologi dai polsi. Erano cresciuti così, giocando con essa, imparando a conoscerla bene, tanto da usarla con dovizia, appoggiata alla lama di un coltello che una notte affondò nella gola di quel vecchio amico di famiglia trasformatosi in un feroce maestro di terrore.
Il pugno stretto nella tasca a trattenere il piccolo tesoro, Deepesh cercava di non addormentarsi a bordo del camion che lo trasportava verso la costa assieme a decine di altre anime vaganti. Aveva viaggiato per mesi, attraversato deserti, montagne e mari. Aveva sopportato la fame e la violenza delle guide che chiedevano denaro ad ogni cambio mezzo e per ogni indicazione. Aveva assistito a violenze, stupri, abusi, omicidi, risse per un tozzo di pane ma proseguiva imperterrito con la consapevolezza di esser solo in quello strano mondo nel quale il sorriso è negato e un coltello può risolvere tutto in un solo istante. Quello era l’ultimo tratto, gli avevano detto. Preparate la somma stabilita che stasera vi imbarcheremo per la Sicilia. Deepesh non sapeva dove si trovava, né sapeva che fosse quel nome che avevano pronunciato gli esseri che nulla avevano di umano. Il loro sguardo passava oltre la persona, non ti vedevano ma annusavano l’odore dei soldi che serbavi nascosti e questo gli bastava per tenerti in vita. Ne aveva già conosciuto uno così, gli facevano paura.
Il fetore delle 500 anime richiuse nella stiva della nave che vagava da giorni lungo le mille rotte del Mediterraneo era insopportabile. Deepesh, vomitando per il mar di mare, si chiedeva se fosse quella la distesa accogliente che da anni sognava. Il rollio aumentava di ora in ora, la tempesta si stava avvicinando quando i boccaporti si aprirono e fu dato l’ordine di salire. Una volta sul ponte crollò in ginocchio, stremato. L’urlo di quel mare in tumulto gli ricordava lo stesso grido disumano del mostro carico di dinamite esploso davanti agli occhi increduli di suo fratello. La stessa violenza, voracità, furia. Presto imbarcarsi nell’altra imbarcazione, fate veloci! Affacciandosi sul nero inchiostro la vide. Era una vecchia malandata imbarcazione in legno di 18 metri tenuta assieme da corde che la reggevano in bilico sul baratro dello sfascio. Fece per voltarsi e tornare indietro, ma la canna di una pistola fermò la sua corsa, o salti o t’ammazzo dove sei! Era il capitano della nave, completamente ubriaco. Avanti salite a bordo, avanti bastardi! Quasi 400 anime si allontanarono su quel battello infilandosi nella bufera che non perdona, un piccolo puntino di assi marcite perduto nell’immensità di un mare in delirio. Deepesh si rifugiò nella stiva, mentre le immagini che coloravano di nero la sua vita sfilarono davanti ai suoi occhi. Follia, soprusi, fame, violenza, sangue, morte. Via via portatemi via, dai dai avanti, avanti!
Lo schianto, quel fragore che ovunque lo insegue al pari di un mostro assetato di sangue, giunge improvviso. Ferito a morte, il piccolo scafo si sfascia mentre l’acqua inizia a penetrare nella stiva dove in molti, troppi, hanno cercato rifugio. Il buio inizia a ghermire l’anima e l’acqua i polmoni. Trattieni il respiro, Deepesh, trattienilo all’infinito, dai che ce la fai, in fin dei conti tu hai una lunga frequentazione con la morte. Non cedere trattieni, non badare agli altri, non guardare il bianco dei loro occhi che esplode nel nero della notte. Trattieni la vita piccolo uomo, non aprire i tuoi polmoni, no non tentare di respirare! NO! Ed il nero, spumante e denso catrame, spalanca le fauci e ingoia, spezza, annichilisce, ghermisce il respiro e lo accartoccia nel sibilo atroce della resa alla morte.
Che la piú piccola parte di pelle sia protetta.
Che nulla possa sfiorare il bozzolo nel quale cerchi rifugio e calore.
Il silenzio ti sia amico e plachi il battito veloce, annienti le visioni e ti ripari.
Che anche la piú piccola parte di pelle sia protetta,
tenuta a miglia di distanza dall’abisso della perdita.
Mode d’emploi del progetto
a cura di Gianni Maroccolo
ABISSI
Il naufragio della F174, conosciuto anche come “la tragedia di Portopalo”, fu un sinistro marittimo avvenuto in acque internazionali, la notte di Natale del 1996. Circa 30 km al largo di Portopalo di Capo Passero (SR), affondò una vecchia barca di legno, gravemente sovraccarica di clandestini provenienti da India, Pakistan e Sri Lanka. Morirono almeno 283 persone. L’incidente rappresentò all’epoca la più grande tragedia navale del Mediterraneo dai tempi della Seconda Guerra Mondiale. La storia di questo naufragio è stata già narrata in diversi libri, spettacoli teatrali, fiction e altro.
Il Volume II di Alone non intende tanto ri-raccontare in musica quella tragedia, quanto narrare cosa viva e possa provare un essere umano che decide di lasciare il suo paese per costruirsi una nuova vita altrove.
Intende narrare, al “tu” in ascolto, cosa significhi venire privati di ogni diritto e della dignità. Cosa avvenga quando ti rendi conto che la tua vita vale meno di niente. Quando rimpiangi di essere nato e la disperazione lascia spazio a qualcosa che non avevi mai considerato. La tua vita terrena che sta per finire mentre vedi e senti l’acqua entrare nella barca, e non puoi fare nulla perché sei chiuso in una stiva senza alcuna via di uscita.
I minuti diventano eterni, l’acqua sale e ti rendi conto che la tua vita sta finendo. Soffochi lentamente mentre il liquido ti invade i polmoni. È atroce: peggio di una pallottola, della sedia elettrica, di un tumore che consuma. Soprattutto, a nessuno frega un cazzo di te. Prima, durante, dopo.
Questo è disumano, e purtroppo pochi lo comprendono. Forse solo una situazione affine potrebbe farlo intuire, e far capire quanto la logica del profitto, la dualità inculcata con ogni mezzo lecito e illecito ci abbia resi simili a belve insensibili a tutto. Far capire quanto poco valore questa logica dia al nostro passaggio terreno in questo universo ben più grande e ricco (grazie al Cielo) di noi, piccoli esseri umanoidi presuntuosi e incompleti. Siamo sì e no l’uno per cento degli esseri viventi su questo pianeta, e tuttavia pretendiamo di gestirlo come fosse cosa nostra. Come se non bastasse, esercitiamo il potere attraverso convenzioni che ci ingabbiano e ci pongono in una condizione costante di conflittualità in cui l’unico scopo è quello di assomigliare il più possibile a chi sta meglio di noi.
Poi c’è la paura di perdere qualcosa. Qualcosa di nostra esclusiva proprietà: agio virtuale, sicurezze, soldi, lavoro. Sono la paura e la non-conoscenza a trasformarci in belve.
Perdere cosa, poi? Potremmo distribuire più equamente le risorse disponibili, evitare di acquistare cose inutili, senza renderci conto che mentre lo facciamo altri muoiono di fame e di guerre al punto di tentare la fuga su un barcone. Non finirà: appena il surriscaldamento del pianeta ne renderà incoltivabili certe parti, e non vi sarà più cibo, altro che barconi, altro che fenomeno migratorio. Leggi, leggine, frontiere, parlamenti: ma nemmeno le armi potranno impedire un grande esodo di masse umane. Dualità appunto: uno contro l’altro.
Alcuni giorni dopo il naufragio, i pescatori iniziarono a recuperare nelle loro reti resti umani e del relitto, ma non dissero nulla. Temevano che un’eventuale inchiesta avrebbe potuto causare l’interruzione della pesca, unica loro fonte di sostentamento. Solo cinque anni più tardi, un pescatore rivelò a un giornalista sardo il punto dove giaceva il relitto, a 108 metri di profondità.
È difficile immaginare quanto sia stata atroce e lenta l’agonia di questi esseri umani. I “clandestini”, dopo avere pagato circa 7.000 dollari a testa ai trafficanti (altri 7.000, a saldo, li avrebbero versati all’arrivo in Italia), viaggiarono per quattro mesi attraverso Kurdistan e Turchia. Vennero convogliati verso il porto de Il Cairo, e qui, dopo aver versato altri 1000 dollari a testa agli scafisti, vennero imbarcati sulla “Friendship”. La nave non salpò subito, perché si attendevano altri “clandestini” per partire a pieno carico e ben ammassati: come carne da macello.
Dopo dodici giorni, tutti furono trasbordati su una nave da carico honduregna, la “Yohan”, che prese il mare con circa 500 persone a bordo. I “passeggeri” vennero ammassati nella stiva: condizioni igieniche zero, pane e acqua come cibo. In prossimità delle coste italiane, avrebbero dovuto essere trasferiti su un’altra nave per l’ultimo tratto di navigazione.
La nave era un battello maltese senza nome, identificabile solo dalla sigla “F174”, che incrociò la “Yohan” la notte tra il 25 e il 26 dicembre. La “F174”, era un’imbarcazione in legno lunga 18 metri e larga 4. In pessimo stato e con tutti i sistemi di sicurezza fuori uso, poteva imbarcare al massimo 80 passeggeri.
I “passeggeri” della “Yohan” salirono in massa sulla “F174” fino a farla vacillare pericolosamente per il peso eccessivo. I trafficanti decisero allora di far ritornare sulla “Yohan” un centinaio di persone e di partire lo stesso con oltre 400 “passeggeri”. Il Comandante della “F174” si rese conto quasi subito che non avrebbe mai raggiunto le coste siciliane a causa dell’eccessivo peso, ma soprattutto per una falla apertasi a prua durante i trasbordi. Chiamò quindi la “Yohan” in suo aiuto, ed essa raggiunse in qualche minuto la nave che aveva già iniziato a imbarcare acqua in stiva. In quella barca viaggiavano oltre 300 esseri umani, gran parte dei quali nella stiva, con i boccaporti bloccati dagli altri “passeggeri” stipati sul ponte.
Il mare è in burrasca e il comandante della “Yohan” non riesce a governare la nave: sperona la “F174” che si spacca in tre e inizia ad affondare trascinando negli abissi non meno di 283 persone. Il comandante della “F174” e una manciata di superstiti vengono raccolti dalla “Yohan”, che riparte subito verso la Grecia. Lì scarica 170 sopravvissuti, che vengono segregati in un casolare di campagna per evitare che possano raccontare l’accaduto.
Questo avviene nel 1996, non nel Medioevo. Qualcuno riesce a fuggire, e racconta la storia alla polizia greca. Le testimonianze non vengono ritenute credibili. Tutti vengono arrestati.
Nei giorni a seguire, la “Yohan”, continuò a sbarcare in Italia “passeggeri” fino a che non venne sequestrata dalle autorità italiane. Tuttavia, non fu aperta alcuna inchiesta: mancavano prove e riscontri oggettivi sulla tragedia di Natale. Nessuna testimonianza, niente di niente. Nel frattempo, i cadaveri ripescati dai pescatori di Porto Palo, chiamati in gergo “tonni del Mediterraneo”, venivano gettati nuovamente in mare.
Seguirono cinque anni di silenzio abissale. Poi, grazie alle ricerche del giornalista, il relitto venne finalmente localizzato. Nonostante le proteste dei parenti dei defunti e il ritrovamento del relitto, lo Stato italiano non permise il recupero dei rottami e dei cadaveri, né l’apertura di un’inchiesta. Questa fu una delle tante mattanze di “tonni del Mediterraneo”, e non fu l’ultima.
Pochi anni dopo, vi fu la strage di Lampedusa. Sentirne parlare o vederne le immagini alla televisione non basta: è necessario andare oltre. È opportuno sentire ciò che le vittime hanno vissuto. Provarlo sotto la pelle, vedere i loro occhi nei nostri mentre una morte orrenda e priva di senso li porta via, soffrire quanto loro. Lo scopo è guardarci dentro fino a provare ribrezzo per la nostra cinica indifferenza.
Siamo carnefici quanto i trafficanti: non possiamo continuare a far finta di nulla o limitarci a provare tristezza durante un TG, magari a tavola, tra il primo e il secondo. Né basta mandare qualche offesa ai governanti di turno, le cui colpe sono pari alle nostre. Non possiamo essere così stronzi da permettere ancora mattanze di “tonni”: che siano del Mediterraneo o meno poco importa.
Alone Vol II nasce per descrivere con l’unico mezzo a mia disposizione (la musica) cosa si provi ad affrontare un viaggio simile, per poi morire in maniera atroce. La speranza è che magari, tra il primo e il secondo, qualcuno pianga invece di pensare che “se la sono cercata”. Gli uomini sono fatti per viaggiare, conoscersi, condividere culture, tradizioni e speranze. Inutile costruire muri, confini, barriere… inutile abboccare a chi ci mette gli uni contro gli altri e ci infonde paura fino a tirare fuori la parte peggiore di noi.
Sono consapevole che un disco non abbia il potere di cambiare granché, ma continuo a credere, come diceva Claudio Rocchi, che una canzone possa salvare una vita. Credo che ogni musicista, anche per la fortuna di essere tale, abbia dei doveri oltre che dei privilegi, nei confronti degli altri e del pianeta in cui viviamo. Sarò un sognatore, un visionario del cazzo forse retorico, ma sono fatto così. In questo disco racconto la morte perché amo la vita e amo e rispetto ogni singolo essere vivente del pianeta che abitiamo.
Alone Vol II
Alone Vol II è un LP senza una vera divisione in “lato A” e “lato B”. Al di là della necessità tecnica di avere due lati, gli stessi non saranno identificati, perché l’opera è intesa come unitaria. A maggior ragione questo varrà per la versione in CD.
I due lati fisici dell’LP di Alone Vol II sono occupati da un lungo brano ciascuno: IMUS, suddiviso in sei temi. Un lato conterrà i temi (provvisoriamente chiamati 1-2-3-4-5-6) suonati da me soltanto; l’altro lato, gli stessi temi in ordine inverso (6-5-4-3-2-1) rivisitati liberamente attraverso il contributo compositivo e creativo degli ospiti di questo volume.
La struttura ha un significato metaforico e circolare: i sei movimenti del primo brano rappresentano il viaggio verso la morte dei passeggeri della nave, dalla partenza fino all’affondamento. Il secondo brano, al contrario, rappresenta una ri-emersione e un ritorno alla vita. Il senso finale è positivo: il movimento verso il basso è solitario e claustrofobico, quello verso l’alto non può prescindere dalla presenza di nostri simili con i quali condividiamo idee, energia e bellezza. Si tratta, quindi di un viaggio di andata/ritorno. Il dualismo delle immagini (luce/buio, superficie/abisso, vita/morte, discesa/innalzamento) rappresenta, paradossalmente, proprio ciò che personalmente ritengo essere la causa di molti nostri mali: la dicotomia, la divisione in categorie rigide. Unendo in un tutt’uno armonico questi concetti opposti, si riesce a comprendere che il Tutto è maggiore della somma delle singole parti, e che una moneta ha sempre due facce – ma non sarebbe tale senza di esse, unite tra loro.
Vi ammiro per come riuscite a raccontare la morte: a me non escono le parole.
Si fatica a raccontarla, a starle vicino respirando il suo insopportabile odore ma esistono momenti nei quali si deve farlo, è l’urgenza di vita e di umanità che ti obbliga a farlo, per quanto piccolo o poco importante sia il tuo contributo, devi affrontarla e tentando di descriverla.
Grazie Vincenzo.
mirco salvadori