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Scultore di sé

di Daniele Muriano

 

Quanto gli piaceva scolpire nel giardino, mentre in estate gli uccelli svolazzavano attorno senza posarsi sul marmo, o mentre in diverse stagioni, se il tempo era calmo, la natura sembrava trattenere il respiro intorno a lui per guardare. Aveva scolpito una volta, d’inverno, con tutta la neve sparsa per i prati e sui tetti: dopo cena, gli era parso davvero che il busto si fosse deformato, ma poi guardando meglio aveva notato i nuovi fiocchi nel vento, di là dalla finestra. La natura era sempre viva, e tutti i giorni il cielo era un testimone ingombrante che reagiva ai colpi di scalpello incurvandosi come un ventre che testimonia il respiro.

Lo scultore, che si chiamava Fëdor, era figlio di un panettiere e aveva appreso da pochissimo l’arte di scolpire, tramite Youtube, fattosi follower di un certo signor Varsa, mentore della rete. Con questo nome il vecchio si presentava, nascosto dietro barba e capelli di nevischio, in questi filmati traballanti – ripresi sempre a mano morta da un assistente spettrale che mai s’era mostrato.

Fëdor si contentava dei propri sessantasei anni. In una virata, tre anni fa, alla morte del padre aveva venduto tutto: forno, negozio, furgoncino con il quale per anni aveva distribuito il pane in compagnia del vecchio, tutto quel che aveva avuto per entrambi valore. Gli restava la bella casa, circondata da erba alta e selvaggia, messa al sicuro da una staccionata oltre la quale raramente Fëdor si inoltrava. A sessantasei anni, Fëdor era felice; non faceva altro Fëdor che essere felice.

La mattina lo scultore si svegliava all’alba e rimaneva in compagnia delle poche ombre oltre il finestrone del soggiorno, poiché dormiva senza eccezioni ogni notte su quel divano. Qui, dal morbido, come un’onda gli rovinava sulla testa il vissuto, marea di briociole di francesini che seppellivano il loro ex panificatore per un dispetto o meglio vendetta, a causa di quel vigliacco abbandono. Una volta innescato il ricordo delle singole operazioni, come aprire forte la saracinesca nel buio, disinnescare meccanicamente l’allarme, dirigersi stracco da morire ai sacchi gonfi di farina, il pensionato voleva subito obliare la luminosa memoria convocando a sé le azioni svolte ogni mattina, in quella ricca esistenza di marmo ch’era appunto la pensione, come ad esempio interrogare le poche ombre fuori dal finestrone, ovviamente, e ricordarsi subito del proprio passato, e dimenticarsi subito del proprio passato attraverso il ricordo delle azioni svolte ogni mattina, adesso che si era fatto un pensionato, azioni tra cui c’era comprensibilmente il riavvolgere all’infinito il presente, nel tempo infinito che è la memoria, e nel seguire la routine, onde evitare che il presente s’eternasse, il nostro Fëdor si alzava e subito sgambettava verso il bagno dove, fatta la pisciata che lo svuotava di qualsiasi cognizione, adesso fortissimamente dichiarava allo specchio: sono pronto, io sono pronto a scolpirmi.

La felicità riprendeva fiato, e lo scultore nei suoi gesti vedeva in controluce quelli secchi e professionalissimi del vecchio, il mentore Varsa, l’uomo dalla barba e dai capelli di nevischio, da cui aveva appreso l’arte dello scalpellare, diciamo, la felicità della vita. Ma Varsa poi era scomparso in un lampo, e lui ci era rimasto tanto male.

Un brutto giorno che non avrebbe saputo collocare nel cerchio del tempo, Fëdor aveva acceso lo scalcagnato computer e, non badando alle pubblicità precipitate a schermo, era andato a cercare il vecchio mentore (vecchio più di lui di vent’anni, giudicando dalla voce carsica e dagli occhi tutti tremuli) per trovare ora al posto del filmato quotidiano, appuntamento certo che da troppo tempo rappresentava un accadimento naturale come lo scorrere delle ore sul quadrante di un orologio, uno strano o addirittura stranissimo filmato: la solita mano tremolante del cameraman trasparente riprendeva con semplicità un prato fiorito, in cui saltavano allo sguardo certe margherite gigantesche, fiori che sembravano cresciuti in un giardino manutenuto da giganti, e anch’essi giganti che non lasciavano intendere nelle proprie ombre nulla di buono.

Una voce fuori campo, molto maschile, come roccia che frana, riassumeva. E attraverso di lei il maestro Varsa stava ringraziando dall’alto dei cieli tutti quelli che lo avevano seguito con tanta passione, circa 6000 anime, scultori e non, uomini e donne, vecchi e ragazzi. Sì, Varsa era morto quella mattina. Oh sì, i fiori, loro avevano visto un ultimo sorriso di Varsa che invece lui, cameraman, oggi speaker necessariamente, non era davvero riuscito a riprendere e se ne dispiaceva così tanto, ma pensava, questo cameraman, a torto o a ragione, che quei fiori grandi, ripresi così da vicino, avrebbero potuto sostituire il volto del mentore Varsa, il suo sorriso.

Fëdor ricordava il giorno vagante lungo l’asse temporale: aveva ordinato un nuovo blocco di marmo, e lavorato tutta la mattina e anche di pomeriggio, per terminare la statuina da consegnare il giorno dopo al committente – la taccagna agenzia funeraria dei dintorni – e poi si era trovato del tempo in cui figurarsi la nuova opera: il pesantissimo busto dell’amato mentore.

Non era mai stato tanto triste in vita sua, quasi. Quando era morto il padre, per alcuni momenti che si erano susseguiti in ordine sparso nella giornata del funerale, aveva provato un’infelicità tanto scricchiolante. Ma poi, più niente.

Tuttora era concentratissimo sulla scultura del maestro e non ricordava neppure da quanto tempo, avrebbero potuto essere anni come ere condensate in istanti, o qualunque frammento brillante del tempo trascorso. Sì, dopo la pensione, il concetto di tempo aveva escluso sé stesso lasciando il posto alla versicolore eternità rilassante. Ecco!

Il lungo naso, l’occhio sinistro più grande, il mento maestoso, le palpebre ringofie, i capelli indiavolati, l’accenno di ruvidezza invece della barba, i sopraccigli da scolpire che nell’uomo erano stati folti e biancheggianti: ecco Varsa comparire dai recessi del marmo, ma non ancora!

Le commissioni dell’agenzia funeraria si accumulavano come rane in uno stagno per gracidare in ogni momento, eppure Fëdor ignorava tutto. Squillava il telefono in questi mattini, e lo scultore rimandava la consegna dei piccoli monumenti, le belle statuine, scarse opere per i morti della valle.

Lui no, non aveva il tempo per dei morti qualsiasi, anche se non l’avrebbe mai ammesso con l’agenzia, ma solo parlando tra sé. A che accidenti sarebbe servita l’opera? Dove l’avrebbe portato quel busto pesantissimo, se mai un oggetto può portare altrove il suo creatore? Ma soprattutto, che senso aveva per lui quel tale, Varsa? Si poneva simili domande durante le rare passeggiate alla vetta, guardando nello zero lancinante di quell’alta nuvolaglia.

Quando ritornava dallo sconfinamento, Fëdor che raramente oltrepassava il confine della brutta staccionata, si guardava allo specchio e vedeva trasformarsi, come in un’allucinazione, nei tratti del maestro Varsa. Si spaventava, ma subito ritornava con la sua immaginazione tridimensionale sull’opera. Salutava quell’ombra dal finestrone del soggiorno, tirava a sé la leggerissima copertina di nylon e si addormentava. A questo punto l’inverno non era più lontano, e d’inverno sarebbe stato parecchio più difficile lavorare all’aperto.

La casa riusciva a contenerlo durante la notte, ma durante il giorno Fëdor, che sentiva la propria anima espandersi all’infinito, non poteva in nessun modo essere contenuto da quelle mura. Lavorare in casa avrebbe determinato certo la perdita dell’ispirazione. Il vento, l’aria gelida o bollente, il rumore dell’erba in lontananza, la pioggia non ancora evaporata dalla magica staccionata che circondava quel giardino (un giardino che non era affatto un giardino, ma che in raffronto al chiuso delle mura domestiche lo diventava senz’altro con quella brulla, deserta, bastevole aridità: gli alberi erano morti, gli arbusti si erano estinti, le siepi non avevano lasciato nemmeno il ricordo, e tuttavia quello spazio conservava l’aura naturalistica di un tempo, quando suo padre aveva tenuto in ordine le cose. Il giardino come il negozio, il pane come il piccolo orto retrostante, il cespuglio di rose quanto le ceste dei pani dietro al bancone già disposti dai più piccoli ai più grandi, dalle michette al filone). Tutte cose a cui non poteva rinunciare.

Negli ultimi giorni d’estate, l’artista completò buona parte del volto, e rifinì il già lavoratissimo collo incordato. Era questa la parte più espressiva dell’opera. Sembravano corde sul punto di spezzarsi, come se la tensione tra le clavicole e la testa fosse destinata a scoppiare un giorno, catapultando il volto chissà dove, era l’impressione dell’artista.

In un giorno nuvoloso Fëdor guardò la bocca del mentore. Aveva proferito parole d’inestimabile valore, gli aveva insegnato a colpire il marmo come se ferisse il suo stesso orgoglio, per poi risollevarsi e ancora colpire, con una precisione che si approssimava via via all’infinito, e in questo modo non scolpiva naturalmente solo il blocco di marmo ma costruiva, sempre per sottrazione, l’essenziale della propria vita. Aveva detto parole inenarrabili il suo mentore, ma niente che potesse essere spiegato da un terzo incomodo: solo chi aveva visto, in questo caso Fëdor, poteva capire quei bei ricordi, e dunque non è il caso di svolgerli in questa sede. Ciò che importa è l’assoluta spoliazione di sé a cui Fëdor era andato felicemente incontro guardando in quei mesi gli interventi di Varsa. Aveva guardato il vecchio scolpire braccia, volti, persino animali (passeri, corvi, pettirossi eccetera) davanti alla fotocamera tremolante. E non una parola su chi lo riprendeva instancabile. Solo lunghi discorsi sullo scolpire la vita, e di conseguenza la felicità, mentre la mano del maestro staccava abilmente microscopiche pietrine dalla forma predestinata. Questo nell’azzurro del cielo lavato dalle parole del maestro. Anche Varsa lavorava rigorosamente all’aperto, il che era uno dei trucchi, o segreti, che rivelava ai suoi follower in quelle lunghe mezz’ore.

Nel frattempo le telefonate dell’agenzia funeraria erano andate spegnendosi. A furia di rinvii e di scuse inconcepibili, i committenti si erano stancati di aspettare. Certo, Fëdor costava molto poco: era un talento fiorito in pochi mesi e il prezzo del suo lavoro rispecchiava quell’improvviso. Gli altri scultori della valle erano più esigenti – talvolta avidi – ma tanto più rispettosi dei termini di consegna. E così intorno a Fëdor si era fatto nuovamente il silenzio, visto che, becchini a parte, congiunti danarosi e taccagni a parte, nessuno rompeva mai la quiete di quella dimora. Qualche cervo nella stagione fredda. I latrati dei cani da punti imprecisati dell’ampia valle. Che altro? Ma a Fëdor non importava. Fëdor si muoveva infatti da casa solo per spese e una corsa alla posta a valle, quando era giorno di pensione.

Poi un pomeriggio venne la pioggia. Fëdor era stanco, aveva dormito su un letto di spine e i sogni – dimenticati e forse altrettanto carichi di spine – lo avevano disordinato dentro. Guardava quella porzione del mentore ora incorniciata dal finestrone: gli sembrava corrispondere all’immagine nei filmati, che certo di tanto in tanto era andato a confrontare e ormai gli si era infissa nell’immaginazione al punto di fornigli un’illusione conoscitiva, come se Fëdor, che non aveva lasciato l’ampia valle in tutta la sua vita se non per qualche inopportuno certificato o altra burocrazia, come se Fëdor avesse conosciuto quell’uomo, ma davvero. Allora, il busto all’ombra dei nuvoloni più che mai pesantissimi gli sembrò quasi vivo, e cominciò a parlargli. La pioggia lavava le forme e l’invisibile sorriso, non ancora del tutto scolpito, gli rimandava una vaga impressione di colpevolezza, o qualcosa per cui valeva la pena immaginare un dialogo.

«Hai davvero scolpito la vita a mia immagine e somiglianza».

Era la voce di Varsa, inconfondibile tra le poche udite.

«Sei davvero felice?»

La voce risuonava nella casa, ma non sembrava provenire dal vetro. Il busto era fuori, in giardino. La voce era qui, nella casa.

«Cosa desideri più di tutto, arrivati a questo punto?»

«Mi piacerebbe poterti incontrare, nonostante tu sia morto» disse Fëdor.

Chissà perché si ricordò, nel preciso squarcio di tempo provocato dal fulmine, il sorriso lento del padre, un digrignare che s’allentava di attimo in attimo fino a lasciare il vuoto a una parvenza di letizia. Era forse una strategia di marketing, poiché in realtà suo padre non aveva mai sorriso davvero. Fin quando si era trovato a dover accontentare la clientela e aveva potuto starsene dietro il banco senza stramazzare, il padre di Fëdor aveva sorriso dalla lontananza della propria vecchiaia. Ma ai clienti, e con intenzione macchinale. A Fëdor, mai.

L’artista l’indomani, ultimo giorno di sole vero, aveva perciò potuto completare il volto di Varsa innestando nell’opera il sorriso di suo padre, per quanto falso, e si sentiva ora straordinariamente a posto nella coscienza. Se aveva venduto tutto, ma proprio tutto ciò che dal padre aveva ereditato, nell’opera poteva espiare in un modo misterioso quella colpa.

Il giorno dopo bussarono alla porta.

Fëdor si era appena voltato nel letto, come al solito ricordando le operazioni della sua vita anteriore: aprire la saracinesca e disinnescare l’allarme e dirigersi stanco morto contro i sacchi di farina. Le ombre fuori dal finestrone erano davvero strane. Il busto tremolava, come illuminato da una luce in balia del vento: un bagliore cangiante, una fiaccola forse. O erano le ombre di qualche sogno non ancora dissolto? C’era che Fëdor mai poteva raccapezzarsi con i suoi sogni. Non li ricordava o ne ricordava soltanto l’intensità. Dunque lo scultore considerò seriamente quel che di certo stava accadendo.

«Chi è?»

La voce era diversa, le vocali più aperte, la cadenza alterata e sembrava, sembrava…

Bussarono di nuovo, ignorandolo. A un tratto la luce che bagnava e accarezzava il busto fuori dal finestrone non fu più la stessa luce. Era più rossa e diffusa, nel cielo non ancora sbrecciato dall’alba e notturno. Tremava con più lentezza.

«Non apro agli estranei» disse e raccolse l’assurdità di quella provocazione. Poi capì.

«Sono Varsa» disse la voce che era, inconfondibilmente, la voce di Varsa.

«Fa freddo, fuori».

Soltanto un saluto fa, nella rotazione della porta Fëdor aveva ripetuto tante volte quanti erano i gradi di rotazione, nella testa ammattita dal sonno, quanto avrebbe voluto incontrare davvero, e non in un sogno, l’uomo di nome Varsa, finché sulla soglia completamente libera non aveva realizzato che gli uomini dovevano essere reali, così come erano reali i contorni della staccionata alle loro spalle, e reali dovevano essere i rametti e le spoglie rinsecchite a un’ora così vicina al sorgere di un nuovo sole.

«Grazie. Ci scusi per il momento. Siamo arrivati troppo presto».

La voce era quella dell’uomo dalla mano tremolante. Era più alto di Varsa, che invece, al contrario dell’impressione in video, era piuttosto basso e anche un po’ tozzo nelle spalle.

Il volto, e le parti ritratte nel marmo, e anche l’aria generale che ispirava, coincidevano perfettamente. Il cameraman reggeva una sorta di lampada, i cui colori variavano nell’arco di mezzo minuto: dal giallo vivo al rosso cupo. A Fëdor pareva proprio uno di quegli oggetti cinesi che si vendevano giù nel paese durante la fiera di fine anno. C’erano sempre dei cinesi sorridenti che illustravano il funzionamento di quelle lampade temporizzate e cangianti, ideate per tingere l’aria intorno di un’allegria strana.

Ora i due s’erano seduti al tavolo rossiccio del soggiorno, il lampadario era acceso e Fëdor ritornava a grandi passi dall’interruttore per studiare meglio il volto del cameraman. Un uomo insolito. Aveva narici leggermente dilatate, come un’inspirazione perpetua. Qualcosa a che vedere con le froge di certi animali al pascolo, soltanto qualcosa. Per il resto era calvo, sulla settantina, niente da registrare. Varsa, invece, Varsa!

«Siamo venuti per questo» disse il mentore accarezzandosi la mandibola, il dito puntato sul vetro, sul busto.

«Volete l’opera per il mondo dei morti, vi ho capito bene?»

Il cameraman tremolante rise forte, fortissimo, e a un cenno del mentore si arrestò come per un’improvvisa recisione delle corde vocali.

«Non ci sono morti fra di noi. Capisce se parlo la sua lingua?»

«Ma ho visto il video con le margherite, e da allora niente». Quelle margherite gigantesche…

«Ho chiesto al cameraman di mentire, perché non avevo più le forze di portare avanti una fatica simile» spiegò Varsa e continuò dicendo che Youtube aveva allertato la propria divisione interna focalizzata su di loro – in generale su questo tipo d’intrattenimento intelligente ai limiti della spiritualità, divisione che loro, cioè quelli di Youtube, chiamavano internamente My Spiritual Entertainment – dando a tutti precisi ordini, i quali discendevano ovviamente dai vertici d’azienda. E insomma. Cerca di qua e cerca di là, segui le tracce di quello o quell’altro utente, erano finalmente arrivati a lui e intendevano scritturarlo per quel ruolo: le condizioni erano molto buone. E davvero molto.

Fëdor avrebbe voluto sbottare, senza trattenersi la poca polvere del risentimento: ma come diavolo m’avete trovato? E tuttavia loro erano giunti dall’altra parte del loro mondo, apposta per incontrare il suo, e non era proprio un accadimento da tutti i giorni. Anche nell’ignoranza nera attorno ai segreti del computer, lui poteva bene immaginare che i segugi di Youtube avessero metodi d’inseguimento – o come dicevano su internet? tracciamento – che lui, Fëdor, un povero scultore, non poteva neanche lontanamente immaginare. Poi? Be’, erano lì.

«Le scoccia se quest’uomo, il cameraman, viene ad abitare con lei, e si occupa in tutto e per tutto delle riprese video, come anche delle sue strette necessità, ad esempio fare la spesa e pulire questa casa, al momento piuttosto sporca se posso permettermi di giudicare, e insomma se lei prende il posto di Varsa» disse Varsa allungandosi millimetricamente il mento con tre dita.

Fëdor aveva intuito già da qualche minuto dove il vecchio sarebbe andato a parare, aveva dunque rievocato la scena assurda in cui lui, Fëdor, guardandosi allo specchio si era visto mutare, come per un’allucinazione, nei tratti del maestro Varsa, dopo una di quelle rare camminate fino in vetta. Non aveva pensato neppure per un momento di rifiutare. Solo non voleva apparire contrattualmente debole e si preparava a giocare un po’ al rialzo con i compensi.

«Come lei ha immaginato, questo è un sogno. È ovviamente il modo più rapido in cui la My Spiritual Entertainment ha potuto raggiungerla. Ma non si spaventi, non è così complicato capire. Domani, o al più nel primo giorno dopo le prossime vacanze, riceverà la visita del cameraman, in carne e ossa anziché in pulviscolo e sogno, e avrà con sé tutto l’occorrente. Il cameraman è un uomo simpatico, e anche lei, Fëdor, mi è molto simpatico. Andrete sicuramente d’accordo voi due, anche se lei ha l’aria di un burbero solitario».

Varsa prese da terra la lampada cinese, la porse al suo accompagnatore, e i due sparirono non appena superata la onnipresente staccionata. Non erano tanto reali come aveva creduto inizialmente. Erano realistici.

Com’è facile intuire, dall’indomani Fëdor prese ad aspettare. I giorni passavano, larghi come anni e terribili come epoche preistoriche. Poi passarono gli anni, larghi come l’universo dispiegato e il buio che indubbiamente contiene, fino al velocissimo ictus di un mattino.

 

2 COMMENTS

  1. Che bel racconto, l’ho letto ieri mattina e riletto adesso e ogni volta sulle ultime parole un lieve brivido d’emozione.
    Ci sarebbero tante cose da dire anche sulla bella lingua con la quale l’autore ci apre l’universo di Fëdor e lo richiude, in mancanza di tempo dico solo che bel racconto!

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Andrea Inglese (1967) originario di Milano, vive nei pressi di Parigi. È uno scrittore e traduttore. È stato docente di filosofia al liceo e ha insegnato per alcuni anni letteratura e lingua italiana all’Università di Paris III. Ha pubblicato uno studio di teoria del romanzo L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo (2003) e la raccolta di saggi La confusione è ancella della menzogna per l’editore digitale Quintadicopertina (2012). Ha scritto saggi di teoria e critica letteraria, due libri di prose per La Camera Verde (Prati / Pelouses, 2007 e Quando Kubrick inventò la fantascienza, 2011) e sette libri di poesia, l’ultimo dei quali, Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato, è apparso in edizione italiana (Italic Pequod, 2013), francese (NOUS, 2013) e inglese (Patrician Press, 2017). Nel 2016, ha pubblicato per Ponte alle Grazie il suo primo romanzo, Parigi è un desiderio (Premio Bridge 2017). Nella collana “Autoriale”, curata da Biagio Cepollaro, è uscita Un’autoantologia Poesie e prose 1998-2016 (Dot.Com Press, 2017). Ha curato l’antologia del poeta francese Jean-Jacques Viton, Il commento definitivo. Poesie 1984-2008 (Metauro, 2009). È uno dei membri fondatori del blog letterario Nazione Indiana. È nel comitato di redazione di alfabeta2. È il curatore del progetto Descrizione del mondo (www.descrizionedelmondo.it), per un’installazione collettiva di testi, suoni & immagini.