Il Chiaro di luna di Verlaine- Le ragioni di una nuova traduzione
di Pierpaolo Rosati
CLAIR DE LUNE
Votre âme est un paysage choisi
Que vont charmant masques et bergamasques,
Jouant du luth et dansant et quasi
Tristes sous leurs déguisements fantasques.
Tout en chantant, sur le mode mineur, 5
L’amour vainqueur et la vie opportune,
Ils n’ont pas l’air de croire à leur bonheur
Et leur chanson se mêle au clair de lune,
Au calme clair de lune triste et beau,
Qui fait rêver les oiseaux dans les arbres 10
Et sangloter d’extase les jets d’eau,
Les grands jets d’eau sveltes parmi les marbres.
CHIARO DI LUNA
Il vostro spirito è un paesaggio incantevole,
ammirato da maschere che suonano il liuto
e danzano bergamasche, quasi
tristi nei loro travestimenti fantastici.
Pur cantando l’amore trionfante e la fortuna propizia,
esse non hanno l’aria di credere in una felicità
cantata nel modo minore,
e la loro canzone si fonde con il chiaro di luna,
con il sereno chiaro di luna triste e bello,
che fa sognare sugli alberi gli uccelli,
e singhiozzare in estasi le fontane,
le grandi fontane che sgorgano svelte fra le rocce.
- Il primo verso offre al traduttore l’opportunità di cogliere sin dall’incipit l’atmosfera dell’imminente azione poetica: âme e paysage ne rappresentano i primi contenuti simbolici. Âme in quanto “condizione emotiva”, “stato d’animo”, “predisposizione dello spirito”: ciò che, in una brigata carnevalesca, dovrebbe facilmente traslare verso il “motto di spirito”, la “spiritosaggine”, lo “spiritoso” e, per l’appunto, lo “spirito”. Nulla a che vedere con quell’“anima” troppe volte ontologizzata in quanto entità soprannaturale, preordinata ad un destino ultraterreno.
Il sostantivo che segue (paysage) accentua il tratto fisico e non metafisico dell’esordio, con riferimento a ciò che in genere si intende con tale termine: un sito campestre che si eleva fino allo skyline. Ove mai si volesse preferire a “paesaggio” un più recinto “giardino”, in tal caso, l’aggettivazione dovrebbe essere inevitabilmente “fiorita”. - I versi 2-4, in vario modo interconnessi, sono da analizzare congiuntamente, per motivi che vanno ben oltre l’enjambment dei vv. 3 e 4, o la correlazione modale tra charmant, jouant e dansant dei vv. 2 e 3. Particolare attenzione merita piuttosto il binomio masques / bergamasques: quello che molti traduttori mostrano addirittura di non capire, con conseguenze quanto mai negative per il lettore italiano, costretto a scervellarsi inutilmente, senza neppure poter fruire dell’armoniosa musicalità, tutta francese, tra il binomio sopracitato e la rima successiva (fantasques), collocata al v. 4.
Proprio perché trattasi di assonanze e di rime possibili solo in francese (assonanze ma anche consonanze, armoniche e melodiche, come dire musicali), tanto varrebbe rinunciare in partenza ad ogni tentativo di riprodurle in italiano, ricorrendo magari a forzature linguistiche che comporterebbero solo l’allontanamento dall’originale e da quel tanto di imperdibile che in esso può ancora essere scoperto, valorizzato e trasmesso in L 2. Se nella armoniosa sequenza masques–bergamasques vi è ben poco da salvare, ai fini della nostra traduzione, nulla impedisce di scindere quel binomio, per rendere più trasparente una lirica simbolista ma già ermetica per vocazione.
Posto che la bergamasca, per un dato musicologico ormai acquisito, sia una danza barocca di origine lombarda, in voga tra XVI e XVII secolo, sopravvissuta in seguito solo nella tradizione popolare, se ne può dedurre che essa non abbia nulla a che fare con i bergamaschi (così traducono in molti!), ovvero con gli abitanti di Bergamo, maschi o femmine che siano…
Invero, il solo modo per creare un contesto e dare un senso al termine bergamasques è quello di collegarlo all’unico verbo (dansant) da cui esso può dipendere, data la sua valenza coreutica. Di qui la proposta dello scrivente, intesa ad operare, in punto di esegesi, due interventi di microchirurgia, volti:
- a scindere masques e bergamasques (in rima con fantasques) ;
- a costruire un nesso finalmente esplicito tra maschere che suonano il liuto, e altre che danzano la bergamasca (al plurale, e in modo meno determinato, che danzano bergamasche).
- Con riferimento al v. 5, solo un piccolo rilievo: cantare ‘in’ modo [in tono] minore sembrerebbe quasi un cantare a bassa voce. L’originale, da par suo, fa di meglio (mettiamola sul paradossale!). Presenta infatti un “modo minore” preceduto da preposizione articolata; il che dovrebbe voler dire, evidentemente, cantare ‘nel’ modo minore, ovvero in una tonalità minore, con quel tanto di espressività malinconica e nostalgica che ben si addice al “minore”. Di qui l’ossimoro tutto da svelare: da una parte, la tendenza a voler cantare l’amore trionfante e la fortuna propizia (v. 6), dall’altra, l’atmosfera espressiva della “modalità minore” che, di suo, tradisce l’aria di chi non crede alla felicità (del v. 7).
Insomma, anche in tal caso pare utile ricorrere ad un lieve aggiustamento narrativo, suscettibile di apportare al chiarore lunare una maggiore trasparenza. E allora, con intenti dichiaratamente ermeneutici, diciamolo a chiare lettere: Pur volendo cantare l’amore trionfante e la fortuna propizia, esse [!] non hanno l’aria di credere in una felicità cantata nel modo minore (vv. 5-7).Circa la vie opportune (v. 6) – che pure si pensava (si sperava) fosse locuzione idiomatica – essa si è rivelata, invece, materia composita. Mi è stata di ausilio, in proposito, la traduzione (“da poeta a poeta”, come tale diversissima dalla presente) di Mario Musumeci il quale, poco più su, svelava la password del costrutto: la parola “fato”, una chiave di lettura tuttavia insufficiente a coprire l’ambito semantico della vie opportune (il fato, in sé, può risultare favorevole e perciò opportuno, ma anche avverso…!). Ecco quindi palesarsi la necessità di provvedere ad un aggettivo supplementare, in grado di sciogliere l’enigma: ciò di cui qui si parla è, infine, di una “vita destinata dal fato”, esposta ad una “fortuna” (alla fatalità) che ci si augura non avversa, ma “opportuna”, vale a dire “propizia”.Vi è poi una questione di dettaglio (per nulla trascurabile), sopra segnalata con parentesi quadra e punto esclamativo: in francese, un pronome maschile-plurale (ils, nel v.7) da riferire necessariamente alle “maschere” del v. 2. Sono sempre loro, infatti, “che suonano, … danzano, … cantano”, e che, da ultimo, “hanno l’aria di non credere alla felicità” (ils n’ont pas l’air de croire à leur bonheur): “le maschere”, un femminile plurale contrassegnato, però, da un pronome di genere diverso (ils anziché “elles”).
Come si spiega?
I traduttori frettolosi neppure avvertono il problema, e così traducono mot à mot (“essi”), come se Verlaine avesse mai potuto sbagliare una concordanza! Si tratta di notare, invece, che, nell’idioma d’oltralpe, l’italiana “maschera”, sorprendentemente, è virilis generis: “le masque”, cui dunque ben si adatta il plurale maschile ils, così come, nella nostra lingua, si rende altrettanto necessaria la declinazione femminile plurale: “esse”, le “maschere” del v. 2. - Quanto alla “canzone che si fonde con il chiaro di luna” (v. 8), essa per l’appunto “si fonde” e non “si mescola” (ché saprebbe d’intruglio), né “si mesce” (come si direbbe anzitutto del vino). Il “chiaro di luna” è da assumere preferibilmente come formula olistica, idiomatica, ormai marmorea, fortemente voluta dal titolo francese e dall’inveterato uso italiano. Ricorrere ad un sostitutivo “chiarore” non sembra necessario, tanto più se si tratti di un “chiarore di luna” e non, semmai, del più fluido “chiarore lunare”, sopraddetto “mite” nella dannunziana Falce di luna calante (1882).
Qui Verlaine incastona il “chiaro di luna” in un’aggettivazione triplice ma per nulla sovrabbondante. Anzi, è con semplicità tutta naïve, che egli decanta il paesaggio “sereno … triste e bello” in una notte di luna (v.9).
- Nel v. 10 importa segnalare, con riferimento alla traduzione qui presentata, la posizione prolettica del sintagma “sugli alberi”, difforme finanche dal testo francese, ma non per scelta arbitraria, bensì per aderenza ad un frammento minimo e però illuminante della storia letteraria italiana. L’allusione è rivolta ad una celebre lirica di Ungaretti, brevissima per antonomasia: Soldati (1918).
– (Si sta) còme / d’autùnno / sugli àlberi / le fòglie –
A confronto, il nostro v. 10, anteponendo “sugli alberi”, presenterebbe una struttura simile:
– chè fa sognàre sugli-àlberi gli uccèlli – .
- I vv. 10 e 11, raggruppati nella versione italiana, si fanno notare per la loro simmetria: in parallelo, da un lato troviamo il “sognare”; dall’altro, il “singhiozzare”.
Chi è che “sogna” al chiaro di luna?
Chi “singhiozza”? E come non ricordare, in questo immaginario contesto, il pascoliano “Chi strilla?” de L’aquilone (1897), v. 36?
Sulla parte destra del distico, “gli uccelli” (che sognano) e, sotto, “le fontane” (che singhiozzano), ossia i soggetti che, rispettivamente, compiono quelle azioni e che, pur soggetti, si palesano solo alla fine di ciascun rigo, per un effetto sorprendente che in italiano sembra funzionare.
- L’attenzione può infine concentrarsi sull’ultimo verso e sulla sua metrica, da intendere alla maniera delle Odi barbare carducciane. Prima della chiusa, un tetrasillabo di carattere introduttivo; di seguito, due dattili (- ᴗ ᴗ – ᴗ ᴗ) e tre trochei (- ᴗ – ᴗ – ᴗ) così disposti:
“Le grandi fon/tàne che sgòrgano / svèlte frà le ròcce –
L’andamento dattilico, dal carattere piano e discorsivo (- ᴗ ᴗ – ᴗ ᴗ), subisce infine una sorta di accelerazione proprio col subentrare dei trochei (- ᴗ – ᴗ – ᴗ); accelerazione che, non a caso, comincia dalla parola “svelte” (sveltes). - Per una postilla, è il caso di ricordare come Claude Debussy (1862-1918) avesse profondamente introiettato la poetica simbolista (e non semplicemente impressionista) di Verlaine; lui che, nel 1890, componeva una Suite pianistica definita bergamasque, il cui terzo movimento, brano di ineffabile fascino, recava a sottotitolo, non a caso, Clair de lune. Lui che, un anno più avanti, avrebbe dedicato proprio a quella lirica di Verlaine, una mélodie per canto e pianoforte anch’essa memorabile, se pure ritmicamente troppo uniforme, impossibilitata perciò a trasferire in musica ogni eventuale variatio del registro espressivo verbale.
Anche per questo motivo può forse dirsi – lo scrivente invero non ne dubita – che solo con Gabriel Fauré (1845-1924) il Clair de lune verlainiano raggiunse la vetta nella sua vicenda estetico-musicale (1887). Se ne ascolti l’espressiva e raffinata interpretazione di Gérard Souzay (citata in YouTube), purtroppo mal servita dall’opaco pianoforte di Jacqueline Bonneau. Di contro, giustamente incisivo e vibrante – anche per sottolineare talune irregolarità ritmiche – l’accompagnamento prestato da Jean-Yves Thibaudet alla bella vocalità di Renée Fleming, esibita in un pregevole e ricco CD della Decca.
Quanto all’eminente valore artistico della pagina musicale procurata da Fauré, basti segnalare, stando alle preferenze di chi scrive, alcune delle sue caratteristiche migliori:
Il ritardo con cui interviene la voce, in medias res, dopo aver consentito al piano in assolo di esporre, e finanche di ribadire (almeno in parte), l’impianto ritmico-armonico della composizione: soluzione assai elegante, in tutto degna di quanto avverrà (tre anni dopo) nel Morgen op. 27 n.4 di Richard Strauss (1864-1949).
2. La sapiente cesura con cui Fauré introduce il primo distico dell’ultima strofa di Verlaine (au calme clair de lune triste et beau …). Trattasi di un soave arpeggio pianistico che determina la posa di un inatteso, serenante tappeto armonico. Lo si ascolta distintamente nell’esecuzione pianistica di Dalton Baldwin, accompagnatore del sempre mirabile Souzay (coadiuvato da Elly Ameling) nell’edizione integrale delle Mélodies di Fauré incisa nel 1974 per la EMI (cfr. Vol. I, 2. 16).
È un momento contemplativo quello che la musica di Fauré riesce in ultimo a delineare; un climax di alta poesia che il distico di Verlaine, in simbiosi con lo spartito, sembra voler assecondare. Poche, ma intense le parole del poeta: un chiaro di luna “triste e bello”, uno sparuto stormo di “uccelli sognanti”, e poi – quando già si ripresenta l’iniziale andamento ritmico – una “fontana singhiozzante” (ma non “malata” come in Palazzeschi [1909]), bensì percorsa da un fremito di vita) e uno “scroscio d’acqua” che scorre veloce.
Siamo di fronte all’ennesimo esempio, sufficiente a rimarcare il modo in cui la musica, a contatto con il testo letterario, riesca a svolgere un ruolo attivo e peculiare, contribuendo a disegnare strutture compositive appositamente individuate. Si parla, ovviamente, della musica di qualità: quella che non si limita a fare da semplice tappezzeria, ma che si mostra in grado di proporre intuizioni originali e spesso utili, nell’esegesi, nelle prove di recitazione e anche – come in questo caso – nella traduzione in altra lingua.
- Per una “confessione preliminare”, pari a quella richiesta da Max Weber, basti dare una scorsa alla seguente nota informativa, intesa ad illustrare, da un lato, i criteri metodologici adottati per la traduzione e, dall’altro, la considerazione qui riservata al carattere c.d. sonoro della sensibilità estetica propria a Verlaine.Il tradurre non consiste in un asettico travaso da un vocabolario all’altro; la lingua di arrivo (L 2) non può essere solo lo specchio in cui rinvenire, riflessa, l’immagine emanata dalla lingua di partenza (L 1).
La L 2 è bensì un universo linguistico autonomo, dotato di luce propria e di stratificazioni culturali ormai sedimentate, ancorché talvolta inconsapevoli. Nondimeno, è bene che l’incontro tra L 1 ed L 2 si svolga alla pari, senza prevaricazioni o disequilibri, provocati dall’una o dall’altra parte. Piuttosto, è giusto che anche la lingua detta L 2 partecipi al progetto traduttivo, facendosi forte delle proprie risorse ed esperienze pregresse: in una parola, della propria storia (letteraria). Sarà opportuno, ad esempio, che il ruolo della L 2 sia non solo attivo ma reattivo, senza mai far violenza, però, all’originale: un ruolo anzi sollecito nel salvaguardarne la lettera e il senso, come già raccomandavano le prescrizioni del professore ginnasiale di latino e greco. Non altrimenti potrà accadere, se non osservando tali avvertenze, che il lavoro del traduttore acquisti una dignità estetica sua propria, degna di un’opera evidentemente mediata, ma in sé compiuta, sorvegliata ed espressiva.2. In cauda, solo un breve cenno all’annunciata sonorità, tutta da riconoscere e da tutelare in quanto sphragís (vale a dire, identità precipua) della lirica di Verlaine. Nulla quaestio sul doveroso apprezzamento da esprimere nei confronti di quel suo prezioso carattere. Tuttavia, sia consentito, almeno, un sommesso suggerimento: quello di non rimettersi passivamente alle posizioni del purismo più rigoroso e intransigente, non meno pernicioso, quando pure di ambito musicale.
Ponendo infatti come inderogabile l’esigenza di fare di Verlaine il topos del “puro suono” (“de la musique avant toute chose”), non si rischia di farne un taboo? Qualcosa da non dover poi contaminare, neppure con un dito, più che mai con una mano, nel tentativo di tradurlo in altra lingua?
Allo scrivente toccherebbe, a tal punto, piantare baracca e burattini e cambiare mestiere, senza neppure potersi valere della chance offerta da quel maldestro scrittorello serbo-bosniaco che, ignaro del senso idiomatico del nostro piantare baracca e burattini, traduceva alla lettera: “fondare una compagnia di teatro stabile” …
Del resto, perché ritenere che la carta della poesia sonora si giochi tutta tra simbolismo ed impressionismo francese?
Perché escludere, ad esempio, che anche il nostro Recanatese, in atto di descrivere la sua “donzelletta” – ritratta con termine cólto ed elegante, oltre che metricamente pregnante – abbia potuto pensare, contestualmente, al valore quasi onomatopeico (e quindi sonoro) di quel suo incedere con leggiadra, giovanile bal/danza?
Comunque sia di ciò, fu iniziativa davvero opportuna, tempo fa, quella di stigmatizzare come opera di un mestierante incolto e grossier la traduzione spagnola del “sabato” leopardiano che scambiava proprio “la donzelletta” per una inaudita “muchacha”: scelta linguistica del tutto scadente, ma non solo. Potremmo soggiungere: maniera imperdonabile di tradire (e non tradurre) anche i contenuti musicali in gioco, meritevoli essi pure di essere, se possibile, interpretati e trasmessi, ma sempre e comunque: per Leopardi come per Verlaine.
Caro Pierpaolo,
mi fai l’onore di chiamarmi in causa e te ne ringrazio.
Ma perché la citazione indiretta risulti comprensibile al lettore interessato ritengo sia necessario quanto meno aggiungere la mia effettiva traduzione, svolta a sostegno di una mia tesista di laurea che ha pubblicato appresso un apposito saggio in miscellanea, a cura della mia istituzione accademica.
Lavoro che io richiamo in uno dei miei più recenti libri sistematici (Mario Musumeci. L’evoluzione retorica del pensiero musicale: Lettura e significato nella musica occidentale, SGB Edizioni, Messina 2016/2017/2018, pp. 199-216). Aggiungo solo qualcosa di orientativo prima e dopo.
Un abbraccio.
La composizione della Suite bergamasque è anteriore di quindici anni dalla sua pubblicazione. È Debussy stesso che aggiunge in cima alle bozze di quest’opera la data del 1890, per far chiaramente intendere che si trattava di un’opera giovanile. Dei quattro movimenti che la compongono, solo i primi ebbero da subito il loro titolo definitivo; il terzo si chiamava inizialmente Promenade sentimentale [N.d.T.: “Passeggiata sentimentale”] prima di diventare Clair de lune e il quarto fu cambiato all’ultimo momento da Pavane a Passepied (…) Non si conosce al momento attuale il manoscritto autografo dell’opera, ma si sa che, nella sua forma iniziale, esso fu ceduto all’editore Choudens il 21 febbraio 1891, poi venduto a E. Fromont dall’erede di G. Hartmann il 5 luglio 1902. L’opera fu consegnata, nella versione definitiva, da Debussy a Fromont nell’aprile 1905 e apparve a giugno dello stesso anno. Dopo la morte del suo autore, la popolarità della Suite bergamasque si è affermata attraverso trascrizioni per ogni sorta di combinazione strumentale, particolarmente nel caso del Clair de lune. (…)
Il perché dell’aggettivante qualificazione di “bergamasque”, aggiunta alla più comune titolazione di Suite, è ricavabile dal secondo verso della prima strofa di una poesia di Paul Verlaine (1844-1896) tratta dalla raccolta “Fêtes galantes”. E peraltro anche il significativo titolo debussyano attribuito al notissimo terzo movimento, il Clair de lune esso stesso titolo della poesia, è bene richiamato al quarto verso della seconda strofa. A meglio voler comprendere, è tutta l’atmosfera evocata dalla poesia che Debussy mette in luce nella sua musica con il ben più compiuto riferimento ad una barocca festa mascherata, dove alle festose danze e agli amorosi canti e all’ammaliante e fantasticheggiante atmosfera del circostante paesaggio lunare si sovrappone una malinconia di fondo, un languore che tutto trasfigura. Ecco il testo della poesia con una sorvegliata traduzione ritmico-espressiva:
“La vostr’anima è un giardino pregiato
Malìa di maschere e di bergamasche,
Danzanti suonando il liuto, in un fato
Triste e celato da vesti fantastiche.
Pur cantando in modo minore
L’amor vincitore e la vita opportuna
Non san credere al lor buonumore,
Quel canto si mesce al chiarore di luna,
Al calmo chiarore intristito ma bello,
Che fa sognare gli uccelli alle fronde,
E singhiozzar d’estasi ogni ruscello
Tra i marmi in zampilli d’acqua di fonte.”
Dal tema d’avvio di un ballo mascherato della prima strofa, in quanto descrittivo dell’interiorità dell’interlocutore (…) si precisa dalla seconda strofa il malinconico carattere di fondo che culmina nella terza strofa con l’empatica descrizione di un giardino che risuona diffusivamente, nell’incanto descrittivo, del pervadente languore dell’anima.
Nel porre in simbiosi la descrizione dell’anima con la descrizione del naturalistico paesaggio lunare, Verlaine così li rende entrambi al modo di aristocratici portatori di corrispondenze affettive e simboliche: ciascuno si esprime secondo un proprio specifico potere evocativo. Proprio l’espressione del secondo verso della prima strofa, “Que vont charmant masques et bergamasques”, qualifica assonanze espressive tipiche dell’approccio simbolista all’arte poetica; un approccio in cui sono spesso gli allusivi colori del suono verbale ad attribuire recondite affinità di senso. Il contesto rievocato dalla poesia di Verlaine, e che la Suite bergamasque richiama altrettanto esplicitamente già nella scelta dello specifico genere compositivo della barocca suite di danze stilizzate di settecentesca provenienza, volutamente rimanda al mondo dei quadri di Jean-Antoine Watteau (1684-1721), artista barocco considerato il più importante esponente francese della pittura rococò, adattata al gusto dell’élite aristocratica per il sontuoso risalto dei particolari, pur se ornamentali, delle scene pittoriche. (…) In vita egli era celebrato come “pittore di feste galanti” (…), ma era già da prima noto per i suoi tragicomici soggetti in maschera, tratti dalla comédie italienne: figure permeate da profonda malinconia nell’espressione dei volti, particolarmente contrastante con la lucentezza del vestiario – in ciò valorizzato da tecniche chiaroscurali che appunto qualificavano la gran maestria dell’artista.
Da qui una successiva visione poetizzante di quest’arte, di cui si impadronirono in riadattamento i simbolisti. L’apparenza della maschera che nasconde la realtà interiore.