Elena Ferrante e il potere dello storytelling nell’età della globalizzazione
Esce oggi, per Europa editions (New York, traduzione a cura di Will Schutt), il volume Elena Ferrante’s Keywords di Tiziana de Rogatis. Al libro è stato aggiunto il capitolo inedito “Conclusioni”, che apparirà oggi in anteprima sul blog americano Public Books: un capitolo finale inedito rispetto a Elena Ferrante. Parole, uscito in Italia nel 2018, di cui pubblichiamo qui un estratto, e che situa la forma letteraria e l’immaginario della quadrilogia della Ferrante all’interno del global novel contemporaneo.
di Tiziana de Rogatis
1.Lo storytelling e il realismo del sottosuolo
Alla fine di questo lungo percorso nel labirinto della scrittura di Ferrante, vorrei riassumere il senso complessivo del mio discorso tornando alle parole con cui nel primo capitolo ho cominciato questo libro. Non appartengono a me, ma ad uno dei grandi scrittori della nostra contemporaneità: Jonathan Franzen. Vorrei ripensare le sue parole di stima e riconoscimento verso l’opera di Ferrante, espresse nel documentario Ferrante Fever, accostandole ad una emozione da cui lo scrittore è travolto ad un certo punto nel filmato. Durante la sua intervista, infatti, Franzen si commuove rievocando una scena dell’Amica geniale che lui definisce «one of my favorite moments in any novel in the longest time, one of my top twenty moments ever». È il momento in cui Lila, contemplando il suo abito da sposa la mattina prima del matrimonio e intravedendo dunque il suo imminente destino di moglie infelice, esorta Elena a studiare, a essere la migliore di tutti, perché è lei l’«amica geniale». È a questo punto che la voce di Franzen si incrina e il suo volto perde per alcuni istanti la precedente compostezza, perché rivive l’emozione lungamente sperimentata nel corso della sua lettura privata («the first moment I cried reading these books») per questo rovesciamento imprevisto del titolo: non sarebbe Lila l’amica geniale ma Elena e questo, secondo Franzen, «hits us as it hits her». Attraverso la sua commozione, lo scrittore comunica allo spettatore il potere al tempo stesso emotivo e concettuale dello storytelling dell’Amica geniale, un potere che secondo Ferrante «non è molto distante dal potere politico»: «il potere di organizzare il reale secondo una nostra impronta» (fer1). È a questo punto del documentario che ciascuno di noi rientra in contatto con la forza del racconto nella quadrilogia: quella capacità al tempo stesso geniale e popolare – come ho spiegato nel primo capitolo – di rappresentare un mondo corale di personaggi, relazioni e classi sociali. L’intensità di questa rappresentazione è tale da spingere più di dieci milioni di lettori non solo a commuoversi per le vite di quei personaggi, appunto, e a divorare quell’ipotesi di mondo, ad abitarlo come se fosse reale, ma anche a ricavare da esso un sistema di valori e di pratiche esistenziali, un codice per interpretare l’oggi. Ma il realismo di Ferrante è solo questa capacità immediata di empatia? È solo una scrittura che cattura il lettore in una ragnatela emotiva e in un’illusione di trasparenza, di assoluta verosimiglianza dell’universo raccontato? Secondo me, no. È anche questo, ma non solo questo. La forza del realismo di Ferrante è duplice, perché è al tempo stesso verosimile e sperimentale. Questo realismo dicotomico mette in scena contemporaneamente la solidità di un universo corale e la sua disgregazione interna, generando così nel lettore sia l’immedesimazione empatica in quel mondo sia il disorientamento nel labirinto di quel mondo. È un realismo del sottosuolo: una scrittura che parte da «ciò che per nostra tranquillità abbiamo costretto dentro una divisa dell’ordinario» (inv 40), e addirittura dallo stereotipo dell’«ordinario» (cosa c’è di più trito e abusato, di più ‘neorealista’, di una storia di povertà femminile nella Napoli degli anni Cinquanta?), per scavare sotto la sua superficie. L’effetto di realtà si sprigiona dal punto di vista: è solo accorciando quelle distanze che il mondo ipertecnologico e mediatico di oggi ha moltiplicato, è solo assumendo una prospettiva estremamente ravvicinata che l’ordinario si fa interessante, che il luogo comune si traduce in una emozione, costringendo Franzen – un lettore evidentemente assai smaliziato – a commuoversi prima nel corso della sua lettura interiore e poi davanti agli spettatori del documentario. Questo punto di vista fa sprofondare il lettore nell’orizzonte di due bambine subalterne, nella loro polifonia linguistica e simbolica. Attraverso il punto di vista polifonico della voce narrante di Elena, la superficie cristallizzata del luogo comune si fa liquida e mossa, il suo nucleo nascosto di verità si fa percepibile e si trasforma in un’onda che travolge il lettore, lo costringe a «sentire fisicamente l’urto» (fr 225) della materia narrata facendogli vedere il mondo dal basso, dal sottosuolo delle antenate. La metafora centrale della poetica di Ferrante parla infatti proprio di questo mondo sotterraneo: le «caverne» nella quali ogni crisi di frantumaglia può far precipitare le figlie emancipate (è questo il caso di tutte le figure femminili create dalla scrittrice) e ostinatamente «ancorate (…) al computer» al quale stanno scrivendo, costringendole a collocarsi «tra le antenate unicellulari, tra i borbottii rissosi o terrorizzati (…), fra le divinità femminili ricacciate nel buio della terra» (fr 102). Per la figlia, il dolore rompe il tempo lineare e genera un tempo sincronico all’interno del quale le conquiste del progresso si confondono con le eredità ancestrali delle madri, con le umiliazione subite dalle regine del mito e dalle divinità matriarcali. Nel giro di una frase fulminea, Ferrante evoca una genealogia millenaria di donne dominate, ammutolite e, infine, cancellate dal loro essere rinchiuse in uno spazio sotterraneo e nascosto: una sorta di rimozione archetipica del femminile, ciclicamente ricorrente e tuttora in atto, operata dal dominio maschile. La polifonia del ciclo dell’Amica geniale è questo cordone ombelicale che collega e nutre simultaneamente sia il verosimile di superfice sia il vero della caverna: è questo percepire la realtà nella sua oggettività ma anche nella sua ambivalenza. Nel primo e nel secondo capitolo di questo libro si definisce la parola polifonica: la parola parlata da un io femminile marginale (Elena), che racconta a sua volta un altro io femminile marginale (Lila), è sia una parola assertiva e solidale, che vuole conquistare le nuove frontiere della storia, e sia una parola ambigua e torbida, che proviene dalla profondità oscura della caverna e della sua eredità arcaica, una parola femminile e materna complice del dominio. Opportunismo sociale, introiezione della violenza patriarcale, matrofobia e matricidio, invidia, competizione, e infine rivalità a tratti anche assassina dell’una verso l’altra: sono queste – in base a quanto emerge dal secondo e terzo capitolo – le scosse del realismo del sottosuolo che il sismografo registra in superficie. Questa abiezione femminile – «il tremendo delle donne » (fr 60) – si sovrappone a quella sociale della «plebe» (ag 67) napoletana, in una intensità emotiva costantemente sprigionata nella quadrilogia da una strategia linguistica fatta di risonanze e echi del dialetto nell’italiano. La subalternità e la violenza del dialetto ma anche l’originaria appartenenza al dialetto risuonano all’interno della lingua italiana e neutra attraverso un gioco di inserti, andamenti paradialettali e rari prelievi (cfr. quarto e quinto capitolo).
Qui, la versione integrale del capitolo.
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There’s nothing like having pizza with Parmesan and a glass of Prosecco while reading Elena Ferranti.
It makes me cry every time, sir.