La stirpe errante. Appunti provvisori sul Gries di Davide Brullo
di Davide Nota
Un albero nudo nodoso in un paesaggio di neve. Il colore è bianco. Sul suo tronco sono incisi minuscoli enigmi, segni, un inventario di nomi, di eventi che accaddero, da decifrare, o forse che dovranno ripetersi. La sua forma frondosa si rivela a volte nelle fattezze di un cavallo, altre volte è lo spettro di una donna, forse la cattiva madre di Segantini, oppure è Dafne, di fronte al casolare dei due vecchi sposi di cui cantò Ezra Pound in “The tree” (Personae, 1909). È ora di fare i conti con lʼopera di Davide Brullo.
Si tratta effettivamente di un albero specchiato dalla superficie terrestre dove le radici sepolte sono estese quanto l’arcipelago dei rami esposti esplosi. Dal sole al nucleo del mondo questo albero si estende in una doppia preghiera.
“Forse del suo talento, che è una genialità oltre ogni rango, non se ne scrive come meriterebbe.”. Parole di Veronica Tomassini, scrittrice, su “Il fatto quotidiano” del 5 maggio 2019. Davide Brullo, scrittore, poeta, traduttore di testi sacri, articolista febbrile e indomabile, agitatore di lettere e fondatore di mondi (il portale “Pangea”, che nutre da due anni la comunità poetica di testi, inviti al viaggio e folgorazioni è una sua creazione) sconta da anni la maledizione della non appartenenza.
La diffidenza nei confronti della sua solitudine è ideologica. Pertanto va rifiutata. Nella faida di posizionamento le pietre deposte vengono calpestate o perdute tra le foglie del bosco notturno d’Italia dove si interrano inaudite. Ma questa faida non ci riguarda, quanto ci riguardano piuttosto le pietre.
Gries è il suo nuovo libro, di poesia, un apice di bravura e visione estetica pubblicato da Aragno da poche settimane. Leggiamolo, questo ultimo erede di una stirpe mitologemica incompatibile con il dominio attuale dell’ironico: “del cavallo amo la missione e il morire senza mostrarlo”; “i cavalli sono più avidi di una città / – con le loro ossa dovremmo costruire la casa dei figli / per promuovere una stirpe errante”.
Nei momenti di putrefazione storica tutti gli immaginari si dissolvono nell’humus. La verità si mescola a se stessa, come acqua nellʼacqua. Da questo magma di apocalisse e palingenesi, dove gli archetipi e gli opposti si attraversano, germogliano ingiudicate le nuove creature. Così sorge lʼalba, faticosamente: “Alba, quanto fatichi a nascere!” (Mario Luzi, Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini, 1994). Di capitolo in capitolazione il poema di Davide Brullo si è incaricato di tessere il canto di questa veglia.
Si tratta di una veglia carovanica, attraversativa, in cui chi canta di sosta in sosta è in cammino assieme a colui che ascolta eppure entrambi sono soli (è questa solitudine che fonda il sentimento di una fraternità). Gries parla dei millenni che ci attraversano mentre li attraversiamo. La sua velocità è una velocità geologica.
In un appunto social, apparso il 3 novembre 2019, Davide Brullo ha scritto: “Gries è un luogo cittadino, a Bolzano; è un passo, in Val Formazza, nel verbano, a quasi 2500 metri, di astrattezza lunare, di cui tu, camminatore, sei lʼideogramma. Ed è, secondo una etimologia sinistra, il termine gotico, che significa “pietra”, da cui evolve il nome Ingrid. Che un nome sia molteplice, che sia una lapidazione, mi sembra necessario.”.
Il titolo, in lettura, mi ricorda altro. Frugo fra i reperti della libreria in casa. Afferro un titolo da poco deposto dal suo autore: Pseudo-Paolo. Lettera di San Paolo Apostolo a San Pietro (Melville, 2018). Lo sfoglio. In calce, come una seconda sezione del romanzo epistolare, sono riuniti alcuni falsi storici, composti da Brullo ma firmati a nome di vari autori del passato (Ivan Bunin, Saint-John Perse ed altri). Tra questi è un testo di Joseph Gries, un nome a me ignoto. Chiedo in email informazioni a Davide Brullo che mi risponde in questo modo: “tra tutti gli autori simulati nell’appendice allo Pseudo-Paolo (tutte scritture mie), Joseph Gries è il solo a essere stato inventato di sana pianta.”
Il titolo del brano, un breve racconto di natura storico-allegorica, è “L’imperatore”. Il protagonista è Napoleone Bonaparte, nel suo esilio di Sant’Elena, a tu per tu con la disfatta della volontà o dell’io (o della ragione strumentale dell’illuminismo): “È necessario conoscere senza ambiguità i luoghi su cui domineremo, che legheremo con la legge, disse l’Imperatore. Perciò aveva chiesto che classificassero gli alberi dell’isola atlantica, che gli fosse offerta una lista con i nomi delle bestie che la abitavano. Eppure l’isola era ostile, impermeabile alle mappe e alla scienza. Sembra che l’isola produca creature nuove ogni giorno – come sommare gli insetti? […] Finse di non ricordare la capitale deserta, la capitolazione, la neve, ‘come se l’intero universo si sgretolasse sopra di me, cadendomi in grembo’, aveva scritto alla sorella Paolina.”. Leggo questo testo come una legenda supplementare (l’intero libro lo sarebbe, e basterà a chi volesse confrontarli leggerne la premessa: un commentario scritto prima dell’opera il cui tema è la “tradizione” come organismo mutante e fluviale, metamorfico ma fedele).
Da Gries al Gries, dunque. La neve della disfatta storica del 14 dicembre 1812 in Russia diviene un valico montano di ghiacci tra alto Piemonte e Svizzera. Una gola solcata da viandanti millenari alla ricerca di mercati medioevali o di sconfinamenti. Anche Wagner volle attraversarla, era il 1852, per il suo viaggio in Italia. La via del Gries è questo passaggio reale trasfigurato in leggenda, una porta rituale attraverso cui si cristallizzano le lacrime di un lutto in oracoli di neve, alla ricerca di un annuncio fondativo di una vita nuova: “Fu per trovare i nomi che superai il Gries / mio padre era sepolto chilometri a valle”.
Il tema del passaggio, dello sconfinamento tra i ghiacci, crea un cortocircuito di immaginari. Tra lande naturali-culturali (“boschi / profondi come un vocabolario”; si tenga a mente anche il titolo del più recente romanzo Un alfabeto nella neve, Castelvecchi 2018, per comprendere come tutto in questo autore partecipi a un unico multiforme discorso), appaiono insistentemente immagini semantiche evocative di una diaspora o di una migrazione epocale, che tutto pervade nel segno della metamorfosi.
I due livelli di percezione, la storia in atto e quella tramandata dagli annali biblici (Annali è il titolo del primo libro di poesia di Brullo, del 2004), si sovrappongono mentre la decontestualizzazione paesaggistica, la montagna innevata alpina in vece del deserto del Sinai o del mare mediterraneo non risolve l’ambiguità; la condensa, piuttosto, in un enigma rupestre da interrogare, dove la migrazione è psichica, erranza non specifica relativa a un flusso storico determinato ma spirito che disordina il mondo nel gioco di dadi di Dioniso ininterrotto: “Ancora dibattiamo di dèi quando i migratori hanno / scoperto una nuova foresta nel vento e vene tra le nuvole / e deviano l’Africa verso una litania di iceberg”; “ancora una volta il fiume espatria senza esperienza”; “il tuo volto è una migrazione”; “anche / i verbi migrano e la lucertola è esatta come / l’ultima parola – perciò come potrai capirmi?”.