La miseria come forma di turismo
di Ornella Tajani
In un romanzo del 2000 dal titolo Les belles âmes (Seuil), Lydie Salvayre mette in scena un’agenzia di viaggi, la Real Voyages, che vanta come fiore all’occhiello l’organizzazione di “reality tours”, avventure destinate ad anime belle e altoborghesi alla scoperta delle più povere e sordide banlieues europee. Il nome dell’agenzia rivela come in quei viaggi sia la realtà stessa a diventare esotica: i moderni turisti, a caccia del brivido dell’avventura, scelgono di abbandonare per una o due settimane il loro guscio abituale, immacolata proiezione di una città perfetta, e rivolgono l’attenzione a situazioni di estrema povertà ed emarginazione; il mondo stesso, problematico e imperfetto, è goduto esteticamente come un segmento di realtà marginale.
La prima tappa del tour nella «Europe des démunis» narrato da Salvayre è la cité des Sables, nella banlieue nord di Parigi:
Real Voyages (…) a prévu un programme à la fois vertical et longitudinal. Le programme longitudinal consiste à présenter aux touristes un échantillonnage varié autant qu’exhaustif des différents spécimens de pauvres. Quant au programme vertical, il conseille d’y aller progressif : d’abord les pauvres présentables, puis les moins présentables, puis les encore moins présentables, jusqu’aux épaves dont la seule vision vous dégoûte de vivre.
Real Voyages (…) ha previsto un programma verticale e longitudinale nello stesso tempo. Il programma longitudinale consiste nel presentare ai turisti un campionario tanto variegato quanto esauriente di diversi esemplari di poveri. Quanto al programma verticale, il consiglio è di andare per gradi: prima i poveri presentabili, poi quelli meno presentabili, poi quelli ancor meno presentabili, fino agli ultimi degli ultimi, fino ai relitti la cui sola vista ti fa passare la voglia di vivere. (Anime belle, trad. Luigi Carrozzo, Bollati Boringhieri, 2002; trad. mia per tutte le altre citazioni)
Il programma delineato prevede non un allenamento, ma un furbo climax ascendente di miseria, pensato nell’ottica di una strategia di marketing volta a non deludere mai il cliente; al termine del viaggio i turisti avranno contemplato un esaustivo panorama dei vari tipi e livelli di povertà e potranno rientrare nel loro guscio convinti di aver correttamente assimilato una porzione di altrove.
Per questo gruppo di «borghesi profumati e invasati di democrazia» è chiaro che la periferia è soltanto la piccola parte di un tutto: solida è la convinzione che la vita reale sia la loro, e quella che stanno visitando soltanto una bolla fuori dal mondo. Nel suo accorato discorso iniziale l’accompagnatore invita il gruppo a ispirarsi a Salomone e a reagire a quel che vedranno con un “cuore intelligente”:
Cette si belle Europe qui a prétendu offrir au monde l’image même de la perfection vous montre aujourd’hui, si j’ose dire, son derrière […]. En effectuant ce voyage dans les pourrissoirs de l’Europe, poursuit l’accompagnateur, vous avez opté courageusement pour une descente vers le réel. Car ce voyage, mesdames messieurs, n’est rien d’autre qu’une descente vers le réel.
Quest’Europa così bella che sostiene d’aver offerto al mondo l’immagine della perfezione oggi vi mostra, se così posso dire, il suo didietro […]. Compiendo questo viaggio nel putridume dell’Europa, prosegue l’accompagnatore, avete coraggiosamente optato per una discesa verso il reale. Perché questo viaggio, signori e signore, non è altro che una discesa verso il reale.
La realtà prevede una “discesa”, è situata in basso, negli Inferi, nell’esteticamente inaccettabile: se fino a quel momento hanno vissuto in una dimensione sofisticata e impeccabile, loro, turisti del XXI secolo, hanno deciso di vedere, di andare a conoscere la baudelairiana oasis d’horreur che racchiude la loro immagine: «Amer savoir, celui qu’on tire du voyage», recita lo scrittore Flauchet, un altro membro del gruppo, citando il padre delle Fleurs du mal.
Ognuno dei partecipanti ha il suo modo di fare i conti con la bruttezza che incontra, e che si era sempre rifiutato di guardare. Mlle Faulkircher pensa che si potrebbe suggerire a degli artisti di devastare artisticamente delle cabine telefoniche, di incendiare artisticamente delle automobili, il che darebbe una nota di colore in mezzo a tutto quel grigio e renderebbe l’ambiente perfetto per un rave. Flauchet trova nella banlieue un che di incredibilmente romanzesco. E, alla vista di un lucchetto spezzato, Mme Pite lo raccoglie «come se fosse un fiore», a mo’ di souvenir di viaggio.
È l’apoteosi del Kitsch. La realtà latita dalla vista dei turisti e ogni loro pensiero mira all’estetizzazione della miseria, che qui diventa «la migliore delle spezie»; bandita una forma di sincera conoscenza, essi continuano a crogiolarsi in quel «savoir blasé» e confortevole che si rivela essere un perfetto modello di ignoranza, dal quale l’apostolico accompagnatore spera di guarirli. All’interno del romanzo, gli unici che conservano una propria lucidità sono naturalmente gli abitanti della banlieue, come l’autista Vulpius, che si chiede quale desiderio contro natura, quale insana perversione, quale tendenza morbosa, quale aberrazione viziosa porti quelle persone a optare per dei paesaggi così tetri, laddove potrebbero permettersi di visitare il Taj Mahal o la piramide di Cheope.
Una volta terminata l’escursione fra le miserie francesi, cui è dedicato il primo giorno di viaggio, il gruppo si ritrova a cena, gravato dal compito di fare i conti con ciò che ha visto:
Petite séance collective de mortification en guise d’apéritif : manger au restaurant, soupirs, après tout ce qu’on a vu et entendu, soupirs, n’est-ce pas là une forme d’obscénité tout à fait insupportable ? n’est-ce pas une honte, tchin-tchin, à notre époque, de laisser perdurer ce malheur ?
Breve sessione collettiva di mortificazione a mo’ d’aperitivo: mangiare al ristorante, sospiri, dopo tutto quel che abbiamo visto e sentito, sospiri, non è forse una forma d’oscenità assolutamente insopportabile? non è una vergogna, cin-cin, che ai giorni nostri non si ponga fine a una simile disgrazia?
L’ironia dell’autrice diventa un’arma efficace con cui mettere in luce non solo l’ipocrisia, ma la strategia stessa che agisce in questi turisti Kitsch per eccellenza; in soli quattro passaggi il gruppo riesce a scrollarsi di dosso ciò che, non potendo essere direttamente estetizzato, è troppo faticoso da accettare. La prima tappa del processo, che si compie tra una forchettata e l’altra, è mortificativa; segue poi quella indignativa, in cui, oltre che di cibo, ci si riempie la bocca di mots gauchistes come giustizia, verità e popolo; si giunge così al momento in cui si scarica il problema su fattori esterni, accusando il mercato delle differenze economiche del pianeta intero. L’ultima tappa è la più importante, quella autojustificative: c’è sempre qualcuno più colpevole dei partecipanti al tour, per l’esattezza chi non si degna neanche di conoscere mondi diversi dal proprio. «Nous, au moins, nous allons aux faits, aux faits qui ne peuvent mentir et qu’il n’est pas moyen d’esquiver. Satisfaction».
È questo, naturalmente, il lato più subdolo del reality tour: i turisti si sentono illuminati dal loro desiderio di conoscenza, si autoconvincono di essere diversi dagli altri, di aver bucato la bolla in cui vivono, i cui confini, al contrario, vengono rafforzati proprio dall’escursione nel mondo della miseria. La felicità di sapere che le periferie restano ben lontane dal loro universo quotidiano si mescola alla soddisfazione per aver “visto” cosa c’è fuori, per aver voluto sapere; al termine del viaggio ciascuno potrà rapidamente ritornare al proprio confortevole chez soi, dato che «la pauvreté c’est comme l’alcool, il ne faut pas en abuser».
Negli ultimi tempi ho ripensato spesso a questo romanzo, evocativo di forme di turismo contemporanee. In un articolo dello scorso aprile apparso su Internazionale, Rafia Zakaria propone una panoramica su alcune recenti attrazioni turistiche in India: le bidonville di Mumbai, dove si osservano affascinati i gruppi di persone che frugano tra i rifiuti; i siti particolarmente inquinati o tossici; le prigioni ancora attive; e, ciò che forse è l’apice del godimento della miseria altrui, gli orfanatrofi, dove si può fare un giro tra le file di bambini desiderosi d’essere adottati.
Zakaria definisce questo nuovo turismo come “oscuro”, tessendo solo inizialmente un paragone con l’apertura ai visitatori dei campi di concentramento, all’indomani della seconda guerra mondiale: lì l’obiettivo era permettere di tenere viva la memoria storica, mentre
il turismo oscuro di oggi ha una finalità completamente diversa. Non esiste alcuna verità storica o consapevolezza empatica da trarre nella visita a una baraccopoli, nell’osservare inebetiti delle vite distrutte dall’immondizia, dalla povertà e dalla mancanza di gabinetti degni di tal nome. Al contrario il turismo oscuro si basa semplicemente su un rovesciamento della formula del turismo più tradizionale.
[…] Le persone che osservano i loro simili rovistare tra i rifiuti delle bidonville traggono sollievo dal non dover essere ridotte a oggetto di quei tour turistici.
Certo, il godimento (mascherato da “forma di conoscenza”) si basa sul confronto, ma in queste forme di turismo c’è forse qualcosa in più: c’è l’idea di esperire il mondo della miseria come diversivo, come vero e proprio divertissement. «È stata questa la più grande innovazione fra tutte – conclude Zakaria – […] “divertirsi” non significa più vivere dei bei momenti, ma semplicemente guardare altri mentre vivono momenti terribili»: guardarli, sì, e mettersi nei loro panni, solo per qualche giorno. Come sarebbe essere poveri? Esistono offerte turistiche in grado di offrire questa esperienza a chi povero non è?
A Napoli, da un po’ di tempo a questa parte, a seguito della massiccia ondata di turismo, una nuova attrattiva è costituita dal soggiorno nei “bassi”, cioè i monolocali situati al livello della strada, solitamente piccoli e bui. Non sono pochi ormai gli annunci presenti sulla piattaforma Airbnb che li propongono come alloggi, descrivendoli di volta in volta come “caratteristici” o “tipici”: «Questo tipico basso napoletano – scrive uno degli hosts nel suo annuncio – […] è adatto a chi vuole fare una vera esperienza da vasciaiolo (tipico abitante del basso)». La fantomatica “autenticità” è il valore aggiunto del soggiorno nel basso, sulla scia di quel «Live like a local» che costituisce lo slogan dell’azienda.
Fare un’esperienza in un basso significa, in breve, calarsi in una condizione di disagio, dato che si tratta di monocamere con scarsissima luce e una porta che apre direttamente sul traffico (umano, meccanico, animale) della strada. Oggi, a pagamento, ci si può dormire o anche soltanto cenare: in un articolo di NapoliToday, ad esempio, che si apre con una citazione delle crude descrizioni di Matilde Serao in Il ventre di Napoli, è presente una lista di «ristovasci», in cui provare «un’esperienza unica e indimenticabile, fatta di tradizioni, leggende e sapori della cucina popolare». L’origine storico-sociale dei bassi si diluisce in un folklore confuso, in cui la tradizione napoletana si mescola a un’idea di povertà utilizzata come accessorio estetico, come trovata goliardica.
Non è una novità: la miseria come forma di turismo è ormai da anni l’oggetto del cosiddetto slum tourism, che si tratti di favelas brasiliane o delle baraccopoli di Città del Capo. L’idea delle agenzie che propongono questo tipo di tour, come la Reality Tours and Travels, è naturalmente quella di «raise awareness about life in slums and simultaneously raise funds for local community projects», poiché spesso tale tipo di turismo si accompagna a più o meno presunte sovvenzioni allo sviluppo della comunità locale. Ciò del resto racchiude una flagrante contraddizione, dato che, qualora tali comunità si sviluppassero davvero, cesserebbe l’interesse del reality tour. Senza contare che, come ricorda Zakaria e come descritto da Paolo Cagnan in un articolo su L’Espresso (in cui si parla anche di volonturismo, la formula che associa il turismo in zone di miseria alle opere di volontariato), a volte una realtà già triste di suo viene ulteriormente «aggiustata»: così alcuni dei bambini negli orfanatrofi non sono realmente orfani, ma «subaffittati» a mo’ di attori dalle loro famiglie indigenti.
Al di là delle comprensibili ragioni per cui una persona non abbiente finisca con lo sfruttare l’ondata di un simile interesse e s’inventi ciò che può per guadagnare un po’ di denaro, è l’approccio del turista, di chi paga per vivere tale esperienza, che si rivela cruciale. Melissa Nisbett, ricercatrice che ha studiato nel dettaglio la questione, spiega come questi reality tours contribuiscano a «normalizzare, romanticizzare e depoliticizzare» le ineguaglianze sociali agli occhi dei visitatori, distogliendo la loro attenzione dalla responsabilità che lo stato dovrebbe assumersi nei confronti delle fasce più povere.
Non sorprende, ed è anzi piuttosto intuitivo. Corollario di questa romanticizzazione degli spazi di marginalità è la creazione di finte baraccopoli in cui soggiornare, pulitissime e dotate di ogni comfort: soltanto il décor di lamiere e terriccio, per variare rispetto ai soliti hotel. Non sorprende: associando la periferia al simbolo romantico per eccellenza – la luna -, l’anno scorso Giusy Ferreri cantava nel tormentone stagionale: «Amore e capoeira/Cachaça e luna piena/Con me in una favela», come se questa fosse lo sfondo ideale di un’avvincente liaison estiva.
e non parliamo delle 50enni che vanno a caccia di ragazzini nelle baraccopoli
https://www.kenyavacanze.org/notizie/beach-boys-oggetti-del-desiderio/