Le femmine di Hilbig

di Giorgio Mascitelli

L’uscita dei due racconti lunghi Le femmine- Vecchio scorticatoio di Wolfgang Hilbig ( Keller editore, euro 16,50, resi credibili in italiano con perizia da Riccardo Cravero e Roberta Gado ) costituisce una novità imperdibile per tutti gli appassionati di grande letteratura, segmento di mercato che, come è noto, vive soprattutto di ristampe. Sebbene questo libro non sia una prima assoluta nel nostro paese per lo scrittore tedesco, visto che negli anni novanta uscì un’antologia di racconti, La presenza dei gatti per i tipi de Il Saggiatore, qui ci troviamo  però di fronte a due delle opere maggiori.

Per introdurre al lettore che non lo conosce questo eccezionale autore, nato nel 1941 in Turingia, vissuto fino al 1985 nella Repubblica Democratica Tedesca ( DDR), che anche dopo il suo passaggio a ovest ha costituito l’habitat irrinunciabile della sua narrativa, e morto a Berlino nel 2007, si potrebbe ricorrere a una fitta aneddotica alimentata da una vita caratterizzata dall’abbondanza di pugni incassati, sia metaforici sia effettivi, dato che per un certo periodo praticò anche la boxe, ma qui basterà ricordarne uno assai più sobrio ovvero che tra le prime spese effettuate con gli incassi dei suoi libri vi fu l’edizione integrale dell’opera di E.T.A. Hoffmann. Dello scrittore romantico Hilbig ha i due momenti, quello stralunato, fantastico-esistenziale e quello ferocemente ironico contro il benpensantismo, certo però con ritmi e contenuti ipermoderni.

Non bisogna pensare, specialmente per questo libro, a un classico scrittore del dissenso, di denuncia degli stati caserma  del blocco sovietico, anche se alla fine la natura claustrofobica della DDR balza fuori in maniera prepotente e più netta che in tante opere sul tipo de Le vite degli altri: essa è, per così dire, la cornice senza la quale il quadro non potrebbe esistere, è lo sfondo che fa la storia.  L’io narrante protagonista di entrambi i testi, poco importa se autobiografico o meno, si presenta sempre come deviante rispetto ai valori ufficiali di stato e a quelli tradizionali condivisi dalla gente comune, ma la loro contestazione avviene quasi implicitamente nell’ambito di una ricerca di una collocazione esistenziale o, più banalmente e radicalmente, di una domanda di sopravvivenza.

Ne Le femmine ( titolo che proprio nella sua brutalità si lascia identificare come una drammatica richiesta di aiuto) un operaio affetto da una strana malattia, che ha tra i suoi sintomi quello di impedirgli di vedere le donne, si convince di vivere in una specie di paese di Hamelin dal quale esse sarebbero proprio scomparse. Resosi conto che si tratta solo di una sua percezione dovuta alla malattia, rivela di avere una tempra simile a quella di un Orfeo nella disponibilità di andare negli Inferi della propria interiorità a recuperare la capacità di vedere le donne.  In Vecchio scorticatoio un ragazzotto svogliato che promette di riuscire un fior di birbone, secondo i vaticini della comunità, vagabonda nei dintorni della cittadina in cui abita, essendo attratto in particolare da un vecchio stabilimento, Germania II, oggetto di una misteriosa e generalizzata riprovazione da parte della gente forse in ragione degli strani personaggi che vi lavorano. Ma la ricchezza reale dei testi è dettata in primo luogo dalle improvvise e umanissime illuminazioni nel mezzo di uno scenario squallido. Comune ai due racconti è una volontà disperata, persino feroce nell’annientare qualsiasi nascondiglio dettato dall’autocompiacimento, di confessione di sé e della propria miseria, che talvolta si coagula in un umorismo quasi glaciale talvolta in un’oggettività da referto autoptico. Questa spinta all’autoconfessione è però vitale, l’ansia di verità diventa ansia di vita e grazie a questo Hilbig trova sempre modo di un inserire una cifra speranzosa, magari minuscola come le iniziali del proprietario ricamate sulle camicie di una volta, nella durezza delle sue ambientazioni e delle sue storie.

E tuttavia sarà meglio cedere la parola allo stesso Hilbig per illustrare, a titolo d’esempio, almeno una delle vie possibili a cui conduce la sua operazione letteraria. Si legga questo brano da Le femmine:  “Di più, mi sembrava che perfino le parole femminili non fossero più in uso, di colpo mi parve di notare  che in città la gente si era messa a chiamare le pattumiere bidoni. Quando le vedevo da lontano, le pattumiere che quell’estate se ne stavano sistemate in lunghe file sul bordo dei marciapiedi […], in un primo istante credevo sempre che si trattasse di una serie di femmine informi che si trattenevano là, fiocamente iridate sotto l’azzurrina illuminazione stradale, e mi avvicinavo svelto. A quel punto mi rendevo conto che erano soltanto le pattumiere che vedevo tutte le notti, […..]. Ciò nonostante mi trattenevo a lungo e sovente nelle vicinanze di quelle pattumiere; in una città del genere, mi dicevo, è possibile che una donna spunti fuori da uno di quei recipienti e assurga alla luce come un’Afrodite nata dalle schiume del mare.” (pp.22-23).  Qui l’uso dell’assurdo è condotto in un modo che sorprende e tocca duro il lettore, quasi che l’ex pugile Hilbig si fosse ricordato di un colpo come il montante che partendo dal basso va a disarmare le difese dell’avversario aggirando da sotto la sua guardia: all’iniziale delirio che preannuncia la scomparsa in città del genere femminile perfino a livello grammaticale e all’allucinazione delle donne bidone, succede una percezione realistica che viene contraddetta dall’aspettativa nuovamente delirante, ma espressa come se si trattasse di una supposizione razionale nel monologo interiore, di una Venere emergente non già dagli stracci, ma dalla spazzatura. La folle miseria del protagonista evoca però quella del sistema in cui vive, in una sorta di radicale consonanza. Del resto non potrebbe essere altrimenti giacché la prima è un prodotto della seconda.

Questi racconti di Hilbig sono ambientati in una paese scartellato, poliziesco e ormai scomparso con un protagonista dagli evidenti tratti autobiografici: eppure l’impressione innegabile è che la favola narri anche di noi. Credo che sia questo che s’intendeva una volta con l’espressione ‘universalità della letteratura’.

 

 

 

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