Nei giorni ultimi negli ultimi tempi. Matteo Meschiari: Finisterre
Per la Nino Aragno Editore, nella collana I domani (curata da Maria Grazia Calandrone, Andrea Cortellessa e Laura Pugno), è uscito recentemente Finisterre, poema epico di Matteo Meschiari «composto oralmente e poi trascritto».
Annota Laura Pugno nell’introduzione al volume: «Ragionare, finché dura, sull’Antropocene è il compito che Meschiari si è prefisso in opera, e che pratica anche qui, un “pensare attraverso la terra”, con l’augurio “che il terreno sia complessità della mente”, e che davvero si possa “dire il non detto di ghiaccio”, dove il ghiaccio è rovescio del fuoco del clima, ustione mortale.»
In Finisterre il poema diventa il lampeggio di terraferma già fratello alla valanga, la conca dove le parole inverdiscono al di fuori dell’uomo. Si scrive, suggerisce l’autore, in quell’ora cruciale che è l’avanzo di ogni esodo, l’ora dove si torce pure la fiaccola: ora del mondo.
«Era il crepuscolo era l’ora del mondo / era l’ora più blu prima che scenda il buio.»
Per gentile concessione dell’editore, ospito qui alcuni estratti dal libro (in anteprima).
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Nel livido spazio in formazione – tra nevi
nel viola secco dei rami le scarpate di nubi
in alto in basso svuotando le rocce calavano
salivano liberando l’inverno. Qualcosa di
interno
scioglieva a grumi il gelo in rivoli scomposti
dall’alto della montagna verso l’acqua del
fondo.
I sotterranei di foglie macere il gocciolio scarico
di pietre
erano il brivido di sotto di pochissima neve –
neve
forata dall’ineguale spinta vegetale. I contro-
fianchi
del granito e il terriccio in flusso d’alga-
corteccia
il latte sfagliato delle betulle e il seme rappreso
dei rami
tutto e poi tutto nel vapore della nube in
formazione
tra larice e mugo e muschio e felce instabile
intrisa
si sciolse in qualcosa una cosa d’inverno –
lievitando.
La luce insolita passava sulla pellicola del
bacino
bianco solo neve – o quasi. E intanto alla morte
carnale
di un corpo più o meno qualunque seguiva la
morte dell’occhio.
I soli innervati nella memoria le luci che lei sola
vide
vita sostituita dalla prole ma unica a vedere
qualcosa
di banale di irripetuto morivano.
Morivano con il corpo i soli della memoria –
sciupati
in un unico corpo ma accaduti con il corpo e
con la stessa energia
senza piste dei qui degli ora. Passava la luce del
pomeriggio
l’unica che io vedevo sulla pellicola bianca del
bacino
ed era un giorno di neve sui graniti viola in
lenta formazione.
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Ma questo veniva dopo. Ancora non morivo.
E nelle conche nelle valli più alte
la neve si accumulò grano dopo grano
e i grani si unirono in ghiaccio.
Un bianco un osso un metallo
incrostava i versanti e lingue tortuose
colavano spostate dal loro peso.
Non era la prima volta del ghiaccio
nello spazio tra i deserti – elitra per solo
granito.
Aveva fecondato la terra di un nuovo
movimento
un presente che avanza nelle valli e le cambia.
Scendeva giù nelle ere senza ossigeno
con nevi di ammoniaca – e scese
nell’età dell’ossigeno con acqua gelata.
Il suo essere da neve – strati impilati
era accedere senza angoscia alle cose.
Lassù non ero più la preda della vita
ma un largo acquietarmi nel bianco
riconoscere nella rete di azzurri
complessità nel cranio parallele di crepacci
movimenti radiali di idee.
E ancor più dello sguardo
era il desiderio di stare di incontrarlo
avanzare nell’incamminabile duro
troppo in là per qualunque biologia.
Deserto – ma anche ampiezza di oceano
per immagine – non a immagine
delle cose. Nemmeno una forma di sapere
un respirare cieco piuttosto
un dover essere evidenza in un mondo che non
chiede.
Né bellezza né cuore – puro essere per.
Era capire qualcosa su di me.
Perché l’indifferenza del ghiaccio
era la non indifferenza per ciò che è
un pensiero inorganico della vita.
Perché mi obbligavo al ghiaccio e trovavo
libertà
mi immergevo lontano dalla vita
ed emergeva l’altro – una specie di volto
partito preso per l’essere per poter essere a.
E poi guardare – ancora – guardare le masse
glaciali
e capire da lì che l’uomo deve ancora venire.
Così guardavo. Con tutte le membra
calmo – senza fuochi da rubare.
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Nei giorni ultimi negli ultimi tempi
nei mesi ultimi negli ultimi tempi
negli anni ultimi negli ultimi tempi
nei giorni ultimi quando non c’erano acque
negli ultimi tempi quando l’aria mancava
quando gli oceani erano arcipelaghi di resti
e i temporali rovesciavano tempeste
quando il mare asciugava la terra
e la terra fu allagata in deserto
e il nome dell’uomo si perse
nelle grandi biblioteche dell’aria
quando le guerre disciolsero la sabbia
e le parole si ridussero a dieci
quando il morbo sbiancò gli occhi ai viventi
e le masse si mangiarono tra loro
quando il drago della morte si distese sul
mondo
adagiato su rovine di tesori
su desolazioni di saperi e culture
allora s’incamminò verso l’alba
la solitaria camminatrice notturna
scelse il sentiero a oriente la piccola figlia dei
ricordi
la cercatrice di storie scelse la pista a est
verso le luci silenziose dell’oltretomba.
[…]
Una curiosità, al di là dei contenuti: perché replicare il titolo di una raccolta di Montale?