Buena Vista Social: all that jazz

Questa nuova rubrica è dedicata  alle “cose belle” trovate sui Social, a dimostrazione del fatto che fare rete è oggi, più che mai, una risorsa. effeffe

Il millennial jazz di Nate Chinen

di

Franco Bergoglio

Nate Chinen, La musica del cambiamento. Jazz per il nuovo millennio, prefazione di Ashley Kahn, traduzione di Seba Pezzani, il Saggiatore, Milano 2019.

Dal suo osservatorio privilegiato di New York e dal suo stabile lavoro per il più prestigioso giornale della metropoli, il New York Times, il giovane critico Nate Chinen ha la possibilità di cogliere i germogli del jazz allo stato nascente, “adesso”, analizzandoli con passione e discernimento, come spiega Ashley Kahn nella prefazione. Il suo libro, un testo che mancava nel panorama del jazz, si concentra su quanto è emerso sotto il sole del jazz nel nuovo millennio. Non sarà una visione definitiva, sarà anche solo l’inizio del dibattito, ma come si dice in gergo sportivo Chinen mette a terra la palla e dice la sua, chiudendo il libro con un elenco di 129 album essenziali, dal 2000 al 2018.

L’autore –conscio, come già diceva Thelonious Monk che il jazz “non va da nessuna parte”- disegna comunque delle mappe per interpretare il presente di questa musica, spiegando francamente cosa gli piace e motivando le scelte. Il primo capitolo entra subito nel vivo, proponendo come primo attore del “cambio della guardia” Kamasi Washington, colui che ha proposto per il jazz un immaginario nuovo,capace di riconnettersi, dopo anni, con la comunità afroamericana, proponendo una visione alternativa al jazz come “accademia”. Quando Washington parlava di «immagine scadente del jazz, in realtà stava descrivendo il contrario: una comprensione comune di quella musica come qualcosa di rarefatto e prezioso e persino leggermente noioso. Dai primi anni Ottanta, il jazz era diventato sinonimo di rispettabilità, confacendosi al titolo di «musica classica americana». Una conquista ottenuta grazie a una miscela di fattori con in prima linea il virtuosismo e la capacità manageriale di Wynton Marsalis e dei suoi accoliti, i young lions, pronti a ridefinire il jazz con una serie di schemi fissi, coadiuvati dal documentario di Ken Burns (a cristallizzare la storia ufficiale del genere) e da alcuni critici come Albert Murray e Stanley Crouch. Si tratta di un gruppo compatto di personaggi impegnati a difendere questa nuova ortodossia che in qualche modo hanno sequestrato l’immaginario del jazz per alcuni anni, tagliando le ali estreme, marginalizzando sia le avanguardie sia le ultime propaggini del jazz-rock e delle derive commerciali. Il capitolo Uptown Downtown racconta in termini geografici questa divisione tra neoclassicismo dogmatico e nuova avanguardia. Mentre Marsalis si muove in centro con i grandi finanziamenti del Jazz At Lincoln Center, John Zorn occupa autorevolmente la scena underground della Knitting Factory, un humus dove si formano tanti artisti oggi fondamentali da Dave Douglas a Tim Berne. Nel libro vi sono artisti che guadagnano uno spazio maggiore, con interi capitoli dedicati al loro lavoro: Brad Mehldau, Steve Coleman, Jason Moran, Vijay Iyer, Esperanza Spalding, Mary Halvorson, i Bad Plus e Snarky Puppy. Pochi invece i riferimenti al pantheon del jazz. Chinen parte dal presupposto che molti musicisti si sono formati sull’influenza di loro contemporanei (o quasi) e quindi praticamente il solo Herbie Hancock compare a più riprese, come ponte tra il jazz degli anni Sessanta/Settanta e la scena contemporanea.

Il libro è ricco di suggerimenti di ascolto e di dettagli di prima mano, frutto di molte interviste di Nate Chinen ai diretti interessati. Riporto un aneddoto, pescato nel capitolo dedicato al quartetto di Wayne Shorter, da subito considerato un supergruppo (con Danilo Pérez, John Patitucci, Brian Blade non potrebbe essere diversamente), ma improntato a una sperimentazione rigorosamente “senza rete”, soggetta a cambiare di sera in sera alternando grandiosi concerti a esibizioni fiacche, brani avventurosi e lunghe divagazioni che non riescono a quagliare.

Uno dei primi concerti del quartetto, al Festival di Spoleto, fu accolto da una smaccata penuria di applausi. Scosso da tale reazione Pérez andò a parlarne con Shorter dopo lo spettacolo. «Bé, capitava sempre con Miles» gli rispose il suo capo allegramente. Mi pare un buon segno».

Un altro merito del libro è quello di esplorare i contorni del jazz senza porsi troppe barriere. Impossibile raccontare l’estetica di un certo jazz contemporaneo senza riferirsi alla scena hip hop, con la figura di J Dilla, il trionfo planetario di Kendrick Lamar o quello di D’Angelo. Cambiando versante Chinen racconta successo il del quartetto di Donny McCaslin, “l’ultima band di Bowie”, con il ritorno del jazz rock a New York, propiziato, tra gli altri, da Dave Binney e dagli Undergrond di Chris Potter. Chinen volge anche lo sguardo al jazz “globale” raccontando dei concerti dell’International Jazz Day Unesco, della Thelonious Monk International Competition che mette in mostra talenti da ogni parte del mondo, dei tanti musicisti “freschi” che stanno arrivando dall’America Latina, dalle proposte del Jazz Re: freshed di Londra fino a spingersi verso la scena cinese. Non pervenuta l’Europa, in buona compagnia con l’Africa. Questa assenza è il limite di un autore la cui forza è quella di essere al centro della scena americana e di non poter quindi cogliere con eguale capacità i fermenti del Vecchio Continente o di altre parti del mondo. D’altro canto il riassestamento geopolitico in corso promette sconquassi di non facile lettura e il tutto si riverbera anche nella musica. Chinen ha coraggio nel portare avanti le sue tesi e nel proporre una valutazione rapida e giornalistica di questi venti anni, posando il primo mattone della storia del jazz che si dovrà scrivere nei prossimi anni.

via facebook

3 COMMENTS

  1. Felicissima della rubrica, Francesco effefe! Dovremmo riabituarci alla ricerca della musica, in quest’epoca in cui la fruizione della stessa è cambiata radicalmente. Veloce, sfuggente, un po’ a casaccio. Rispetto a quando, cercare un disco significava, davvero, cercare.

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francesco forlani
francesco forlani
Vive a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali Paso Doble e Sud, collaboratore dell’Atelier du Roman e Il reportage, ha pubblicato diversi libri, in francese e in italiano. Traduttore dal francese, ma anche poeta, cabarettista e performer, è stato autore e interprete di spettacoli teatrali come Do you remember revolution, Patrioska, Cave canem, Zazà et tuti l’ati sturiellet. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, con cui sono uscite le due antologie Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Corrispondente e reporter, ora è direttore artistico della rivista italo-francese Focus-in. Con Andrea Inglese, Giuseppe Schillaci e Giacomo Sartori, ha fondato Le Cartel, il cui manifesto è stato pubblicato su La Revue Littéraire (Léo Scheer, novembre 2016). Conduttore radiofonico insieme a Marco Fedele del programma Cocina Clandestina, su radio GRP, come autore si definisce prepostumo. Opere pubblicate Métromorphoses, Ed. Nicolas Philippe, Parigi 2002 (diritti disponibili per l’Italia) Autoreverse, L’Ancora del Mediterraneo, Napoli 2008 (due edizioni) Blu di Prussia, Edizioni La Camera Verde, Roma Chiunque cerca chiunque, pubblicato in proprio, 2011 Il peso del Ciao, L’Arcolaio, Forlì 2012 Parigi, senza passare dal via, Laterza, Roma-Bari 2013 (due edizioni) Note per un libretto delle assenze, Edizioni Quintadicopertina La classe, Edizioni Quintadicopertina Rosso maniero, Edizioni Quintadicopertina, 2014 Il manifesto del comunista dandy, Edizioni Miraggi, Torino 2015 (riedizione) Peli, nella collana diretta dal filosofo Lucio Saviani per Fefé Editore, Roma 2017