Su “La solitudine del critico” di Giulio Ferroni
di Massimiliano Manganelli
Quasi certamente non era nelle intenzioni di Giulio Ferroni scrivere e pubblicare un manifesto, cui peraltro La solitudine del critico (edito da Salerno) nemmeno lontanamente somiglia. Eppure, come in ogni manifesto che si rispetti, non mancano le parole d’ordine, anzi sarebbe meglio dire la parola d’ordine, per di più proclamata nel sottotitolo: resistere. E in copertina quel verbo è scritto in rosso, mentre le due parole che lo precedono – leggere e riflettere – sono scritte in nero. Ma resistere a cosa? Se si vuole estrarre da questo pamphlet un altro termine ricorrente, che stavolta non è una parola d’ordine, lo si può facilmente individuare in costipazione. Certo, il vocabolo richiama il lessico medico e in fondo è giusto, perché questo piccolo libro può essere letto soprattutto come una diagnosi.
Scrive Ferroni nelle prime pagine che la letteratura «è sempre più prigioniera della quantità, della moltiplicazione della produzione e del panorama editoriale», perciò ancor prima che di una solitudine occorrerebbe parlare di uno spaesamento del critico, di una «angoscia della quantità», ma soprattutto di una perdita di ruolo. Va detto subito: se la diagnosi c’è, la prognosi è assente. Ferroni non propone alcuna ricetta: si limita a ribadire, e anche con una certa forza, quale dovrebbe essere la funzione della critica. Il condizionale, come si usa dire, è d’obbligo, dal momento che oggi la figura del critico più che solitaria appare inutile, non funzionale al sistema della comunicazione.
Dietro il sistema della comunicazione, ovviamente, sta il mercato, con il suo «impero del pensiero unico e computazionale», un pensiero strettamente economicistico, che non ammette la presenza di ciò che non è funzionale al consumo. Come la critica, appunto, la quale appare da diverso tempo in crisi, divaricata ormai tra «chiusura specialistica ed espansione tuttologica», cioè, all’ingrosso, tra accademia e critica culinaria – per usare la celebre metafora di Brecht –, quella che serve solamente a «pompare pubblico». Tuttavia, osserva Ferroni a partire da Paul de Man e Lavagetto (il cui celebre Eutanasia della critica è qui giustamente ripreso), tra critica e crisi c’è una stretta relazione, non soltanto per la comune radice etimologica. La critica è perennemente in crisi, quasi per statuto, perché deve (dovrebbe) incessantemente ripensare i propri strumenti di indagine del testo. Sul tema Ferroni scrive pagine dall’andamento autobiografico, nel quale si ripercorre l’itinerario della critica letteraria italiana e non solo dagli anni Sessanta (che corrispondono al periodo della formazione universitaria di Ferroni stesso) a oggi, con qualche affondo contro gli eccessi di assolutizzazione degli strumenti tecnici, quelli raggiunti dal «formalismo esasperato» e dal «funzionalismo matematizzante». L’autore, si sa, non è mai stato tenero nei confronti dello strutturalismo e della semiotica. Nonostante lo sguardo autobiografico rivolto all’indietro, si tratta di pagine prive di nostalgia per quella che, per certi aspetti, è stata comunque l’epoca d’oro della critica, allorché quest’ultima «si nutriva di teoria, proiettava dal proprio seno le più articolate prospettive teoriche, riconnetteva l’ascolto della letteratura ai più vasti ambiti dell’estetica e della filosofia». Si rinviene tuttavia qualche rimpianto personale, per esempio nelle poche righe dedicate a Giacomo Debenedetti, riguardo al quale Ferroni ammette di non essere stato in grado, allora, di percepirne «la grandezza».
Dunque, se, come scrive l’autore, «la crisi è coessenziale alla critica», in una situazione di crisi profondissima come quella attuale si può comunque trarre forza dalla propria insufficienza. C’è, nella «pullulante e petulante comunicazione contemporanea», un «inevitabile inexpletum»: il compito della critica starebbe proprio nell’indagare quell’«oltre» che, secondo Ferroni, caratterizza la parola letteraria, e in particolare la poesia. Le pagine dedicate alla poesia, «voce di ciò che non abbiamo», sono le più dense, eppure le più discutibili, almeno per il sottoscritto, perché appaiono ancorate a un’idea cultuale – in senso benjaminiano – della parola poetica, troppo legata alla nozione di suono. Nondimeno, in qualche misura Ferroni coglie nel segno, perché evidenzia il nesso pressoché inscindibile tra poesia e critica, entrambe collocate «entro la propria insufficienza», entrambe in fondo accomunate da un atteggiamento di resistenza. E «ogni autentico atto critico è un atto di resistenza, non c’è critica senza resistenza».