La siepe
di Gianluca Garrapa
Mio fratello morì prima di mezzanotte. Mi avvertì il gatto, miagolando e strusciandosi tra le mie gambe mentre ero seduto in veranda, nell’attesa angosciante dell’agonia che si protraeva nella stanza in cui i miei genitori vegliavano e di cui potevo scorgere solo una flebile luce. Mio fratello è morto nella stanza dove sta il pianoforte, quella più vasta, era bravo mio fratello a suonare. La sera prima il gatto si era messo lì, sotto la finestra spalancata, con la testolina rivolta in alto a scrutare l’anima di mio fratello fluire dalla casa come il denso fumo di un incenso invisibile solo a occhi umani.
La stanza si affaccia su una veranda conclusa da una ringhiera rettangolare dipinta di verde ficcata nel basso muretto di piastrelle marroni nell’intrico di una siepe di pittosporo che si interrompe all’angolo ovest; lì cresceva l’albero di mimosa slanciato e gonfio di gialle infiorescenze, quando era il periodo, smorte dal fulgore ultimo del tramonto che scende oltre i campi coltivati a tabacco, in direzione del cimitero dove accompagnammo il feretro di mio fratello il giorno successivo, dopo la messa delle tre e mezza, prima di quella canonica delle sei della domenica. Il cancello della veranda mi dava l’idea d’un primo livello di conoscenza, superato il quale ci si poteva considerare parte della famiglia e non semplici estranei il cui viso noto non rendeva più del tutto forestieri ma nemmeno ancora abbastanza intimi. Il mio sguardo interiore cadde sull’immagine di mio fratello, sulle sere d’estate davanti casa a parlare e sparlare di sé e degli altri, mentre famiglie di gechi, sui muri grigi imbiancati dalla luce fredda dei lampioni, scattavano sulle loro prede dopo lunghi attimi d’immobilità, estenuanti per me che osservavo con il naso all’insù in attesa del momento dell’attacco; e le riflessioni, sopraffatto dalla stanchezza di quei laceranti giorni di agonia, si tramutarono in un sogno che vedeva me e mio fratello protagonisti di una passata estate, ignari del viaggio esistenziale che imminente sarebbe volto al termine, proprio come il roseto che mio nonno piantò nell’inverno del 1960, di fronte alla finestra della stanza da cui stillava la musica che mio fratello suonava al pianoforte, e che a un certo momento smise di fiorire insieme alle rose… Fu mio padre a destarmi dal sonno e vidi l’alba affollata di estranei e parenti. La mamma pallida e assente nell’abbraccio di sua sorella. La crudeltà bianca del mattino che sanciva la definitiva verità dentro un feretro.
Sedemmo attorno al corpo, attonito io e confuso dal significato della vita, riflesso negli occhi lucidi degli amici e delle amiche di mio fratello. Poco più che ragazzi, non ancora del tutto donne o uomini.
All’uscita dalla Messa, l’applauso di centinaia di persone mi percosse sui gradini della chiesa destandomi dal torpore per un breve momento in cui abbracciai mio padre mettendomi a piangere come un bambino. Fino al cimitero, dietro al carro funebre, stretto ai miei genitori, ma ormai con la mente lontano dalla realtà che non arretra dinnanzi all’evidenza e si trasforma in delirio, mi ripetevo: è solo un sogno, è solo un sogno.
E come un sogno un’epoca era per sempre terminata. Le mimose non si coglievano più a marzo. Le rose non dicevano nulla. Desolato, io, nuvola nel proprio frammento anomico di cielo nero. I gechi sempre più rari le sere d’estate.
La luce flebile, che appena ventiquattrore prima filtrava dalla stanza del pianoforte, aveva smesso di sperare. Silenzio. Solo un grillo, nascosto tra la siepe di pittosporo, cantava incrinando la quiete della notte; e non riuscivo a prendere sonno.
NdR: questo racconto di Gianluca Garrapa è tratto dalla sua raccolta “La cosa”, appena uscita con l’Editore Ensemble