ROGHI Fiaba nera sul teatro italiano
di Teatro Aperto
E’ da mesi che aspettano una mia mossa.
La torcia accesa in mano, li tengo in scacco e loro sanno che tutto dipende da un mio gesto.
Loro dei gesti conoscono il significato e il valore, li studiano nei minimi dettagli e capiscono cosa sto per fare: prendere la torcia con la mano sinistra e il fiammifero con la mano destra; le spalle rilassate tenere la torcia ben salda e darle fuoco con il fiammifero; poi scrollarlo con un abile gioco di polso fin che si spegne e lì lasciarlo cadere. Guardare il fuoco che anima la torcia nella mano sinistra e passarla nella destra. Stare fermo e carico d’attesa, trionfale. Pregustare la vittoria. Poi agire.
E’ caldo, caldissimo, una canicola che non permette quasi di respirare. Questo deserto indubbiamente mi favorisce. L’assenza d’aria e di idee, il sole che spacca il cervello e le pietre, le parole vuote dei turisti che rimbombano e confondono.
Lo Stato sta con me, mi copre le spalle, lo sa che faccio il lavoro sporco per i suoi sporchi giochi, ma ognuno qui ha il suo ruolo e la sua storia. Si è lavorato duramente per creare questo clima, per disarmare anche i più convinti e ridurli a grotteschi simulacri di loro stessi.
Li guardo a distanza. Fermi. Assediati. Stremati. Impassibili.
Sono chiamato a dare l’ultimo colpo di grazia, ma il mio compito è fin troppo facile, tutto il resto era già stato fatto. Li hanno piegati nel tempo, goccia dopo goccia. Che pena, proprio loro che non scendevano a patti, loro che si credevano migliori degli altri, più intelligenti, più scaltri, più liberi.
Ci avevano messo anni a costruire tutto questo, un ecosistema del genere non si inventa da un giorno all’altro. Dice il telegiornale che dopo un incendio servono cinque anni perché rinasca un gruppo, ma almeno cinquant’anni perché ne rinascano trenta, perché ricrescano spontaneamente e diventino ambiente, ossigeno, forza. Un microambiente eterogeneo, con poetiche diversificate, dove convivono più o meno pacificamente le specie più diverse, dai diversi profumi, toni, colori.
Ci avevano messo l’anima, dagli anni settanta in avanti, per creare questo microambiente, “il nuovo teatro italiano” come lo chiamano, ed è proprio l’Italia che gliel’ha smontato sotto il naso pezzo a pezzo, con pazienza, a poco a poco, col sorriso sulle labbra. Fino a ridurli così… gli artisti, i saltimbanchi… che si sono d’altronde rivelati disposti a tutto per una scodella di zuppa, anche a scannarsi tra loro, anche a tramare con l’avversario, a intingere il pane nel piatto di Cristo e baciarlo sulla guancia per poi venire a giocarselo a dadi. Non l’avete notato come si baciano sempre esageratamente quando si incontrano, fanno tutto quel chiasso esibizionistico e artificioso: una covata di pavoni che fa a gara con le ruote.
Questa sì, è stata una sorpresa insperata, una vittoria: gli artisti non sono solidali. Tra loro non sono solidali. Che magnifica scoperta! Non sanno lavorare insieme e basta agitargli una salsiccia perché vadano a puttane tutti gli ideali più nobili, tutte le creazioni epocali, tutti i progetti di alleanza.
Ma d’altro canto gli va dato atto: è la lotta per la sopravvivenza che li riduce così. Come potrebbero resistere in altro modo, con risorse sempre più piccole e considerazione pressoché nulla?
L’Italia li ha indeboliti e immobilizzati. Intenzioni, azioni e funzioni istintive azzerate. Tutto calcolato. Totalmente sottomessi e svuotati.
Eppure.
Eppure vi giuro.
Ve lo giuro io che li guardo.
Ve lo giuro io che so di avere il potere, io che basta un mio gesto per finirli.
I loro occhi mi fanno spavento.
Mi dicono che non sono ancora pronti a morire.
Mi dicono che nessuno, una volta bruciato il patrimonio di cultura teatrale del nostro paese, sarà in grado di vincere la gara d’appalto per il rimboschimento.
Mi dicono che è impossibile ricreare questo microclima preventivamente e artificialmente.
Mi dicono che sarà sempre compito loro e dei loro spettatori, siano essi individui o gruppi, ricostruire e reinventare nuove modalità di esistenza e di convivenza prendendo forza e concime, se occorre, dai precedenti roghi e dalle precedenti macerie, dai cadaveri in putrefazione dei loro predecessori.
Attaccando le radici al sottobosco devastato con la forza della disperazione e della creazione.
Li guardo a distanza. Impassibili. Assediati. E io davanti a loro, la torcia accesa in mano.
POSTFAZIONE AD USO DEL LETTORE
Chi sia il piromane o il sicario della fiaba non ci è dato sapere e non è poi così importante. Il lettore è libero in questo caso di viaggiare con la fantasia.
C’è qualcosa di più importante invece che al lettore tocca sapere.
Il teatro italiano, anche più gravemente di quello francese che ha riempito ultimamente le pagine dei giornali, è sotto ricatto.
I cittadini italiani ne sono consapevoli?
I teatri sono un bene pubblico. Sono un bene dei cittadini, in gran parte finanziato dai cittadini. Sono soldi e cultura dei cittadini.
Se si fa del male al teatro, se si minaccia la sopravvivenza del teatro in qualunque modo, non dovrebbero essere per primi i cittadini a esserne informati? Non dovrebbero essere i primi ad indignarsi? A rivolere i loro soldi con gli interessi, a pretendere nuovi governanti?
Il male al teatro si fa, quotidianamente: costringendo le piccole sale teatrali a chiudere, cancellando i festival, azzoppando le programmazioni, stilando cartelloni scadenti che stanno in piedi per l’unica ragione degli scambi e dei favori, non tutelando i lavoratori del settore con una legge, preferendo ad essa regolamenti che durano il breve tempo di un governo, finanziando i finanziati con ritardi tali che essi debbano indebitarsi con le banche e sottopagare i propri dipendenti, non permettendo il ricambio generazionale in virtù di un sistema baronale e museale, di fatto marginalizzando esperienze e gruppi di lavoro in favore di poche, grandi, private e potenti compagnie…in favore di pochi, grandi, potenti individui…
Questo al lettore tocca sapere.
Nel frattempo Catania e Napoli si sentono giustamente offese dalle pastoie che decidono della loro sorte in b o in c.
Un intero popolo si leva, prende i pullman, urla perché i giochi di potere minacciano l’onore e la verità del calcio e quindi dei cittadini.
Non resisto, lo posto. Renzo Martinelli è stato un grande pilota di moto. Per me il passaggio da messa a punto del motore, tempo di una staccata, sangue freddo, tattica di gara, a scelta, studio e messa in scena di un testo teatrale ha del soprannaturale. Lo posto anche se non è proprio un commento al suo articolo di NI, ma è una cosa molto bella che vale la pena leggere.
Confini ed essenze
Ma che c’entra il teatro con Valentino Rossi?
di Renzo Martinelli
Caro Oliviero,
non sono stato capace di scriverti di Valentino nel giorno della vittoria, non ne avevo voglia in quel momento.
Sono qui a scriverti ora, dopo aver letto La bella crisi, che tocca tanti punti interessanti (il ruolo monco dei centri di ricerca, la paralisi burocratica italiana, i tanti “teatri”) e dopo aver dato una scorsa veloce al documento di Ivrea del 1987, che mi fa sorridere amaramente per le tante analogie con la situazione odierna, anche se sono passati quasi vent’anni. Ti scrivo in questi giorni di mezzo che seguono il debutto dello studio su Canti del caos. E’ uno studio che ha creato spaccature e di cui siamo molto fieri, nonostante la morsa di quella messa sotto silenzio che oramai cade implacabile sui nostri lavori, laddove la critica non si riesce a confrontare con qualcosa che non sa bene dove collocare, qualcosa che è fatalmente fuori dall’avanguardia e dalla condanna del ‘900 alla parola, qualcosa che si pone appunto come «bella crisi», nascita crudele.
Quello che mi ha più colpito nei tuoi documenti è la forza, l’emozione, la ricchezza delle esperienze che ti hanno formato e accompagnato, un entusiasmo che credo sia l’unica forma ancora possibile per stare vicino al teatro e alimentarlo.
Ed è così che mi torna la voglia di parlarti di Valentino e quindi di me, delle scelte che ho fatto e che sto facendo. Con il rombo dei motori in mezzo, però, a confondere le acque.
In fondo parlandoti del nostro eroe avrei finito comunque col parlarti di arte.
Per me Valentino è un artista. Uno che si sente libero nel gioco di interpretare quella traccia segnata di nero comunemente chiamata pista, modificandola, sbandandola, sgovernandola, quasi come se quel tracciato rigido diventasse altra cosa rispetto alle regole che governano questo sport, quasi che la sua «invenzione» fosse il vero tracciato. E’ una sensazione difficile da spiegare, ma è come se, dopo una «staccata al limite», la curva si allargasse per contenere quel corpo lanciato a velocità folle, che ha con sé anche una sensazione di lentezza.
La pista intesa così diventa materia viva, qualcosa che bisogna aver provato e che non riesco a definire. E questo si vede, qui sta il segreto delle sue vittorie.
Ritorno spesso alle corse e ai loro odori e in fondo mi sembra di aver fatto sempre la stesso, uno stesso respiro che mi ha portato fino a qui.
Hai presente quando Valentino compie quella serie rituale di comportamenti pre-gara, si rivolge alla sua moto per trovarle un corpo, proprio lì, proprio in quel «Japanese Monster» pieno di tecnologia, che invece richiederebbe un rapporto distaccato, freddo, consumistico.
Parlandoti di lui è come se ti continuassi a parlare del tuo intenso saggio, della mia ricerca: immaginare la pista in modo diverso; immaginare il teatro in modo diverso. Parlarti di quel suo modo di vincere ancora, ancora, per dimostrare che quell’altro, anche a parità di moto, nulla può.
E poi sulla pioggia come un pioniere: «Ah ma questo è un capolavoro», ho pensato mentre lo guardavo, «è un capolavoro d’abilità, ma non solo». Valentino è un capolavoro perché privilegia il rischio rispetto al consenso, il progetto rispetto all’opera, la riflessione sulla forma rispetto alla comunicazione. Io vedo in lui un testo classico, un autore contemporaneo, nazionale, non solo elitario, non solo per gli intenditori. La forza di essere tutto questo porta con sé naturalmente ed elegantemente anche la crosta più superficiale del suo successo.
Agostini no! No, lui non era un artista, correva solo, con l’unica moto in gara, con l’unico Stradivari (ti ricordi il suono dell’Mv Agusta, che strana analogia adesso con i 4 tempi anche se silenziati…).
Io non potevo fare che del motocross, il rischio totale. L’ho deciso quando un collaudatore della Gilera mi ha detto di scegliere definitivamente tra le due e le quattro ruote (allora ancora bimbo giravo in pista con un go-kart e un copertone sotto il culo per arrivare alla pedaliera). I miei miti avevano ancora a quei tempi il viso affaticato e sporco dalla gara e non conoscevano, così ritenevo, i grandi onori dei media. Erano tutti un po’ re, un po’ martiri. Ogni tanto qualcuno si prendeva perfino il lusso di creare delle grane a quei giapponesi tutti intenti a conquistarsi il mercato senza badare a niente e a nessuno e gli sponsor non dettavano certo legge su tutto e su tutti (se un giorno vorrai ti racconterò una storiella su un amico anarchico e pilota …un certo Joel Robert). E non è un caso forse che a furia di emularli mi sia anch’io beccato quella fama di rompicoglioni che voi teatranti mi affibbiate e anche quel soprannome per un po’, coniato da Federica e da Gabriele Argazzi di Terzadecade: «Re Martirio».
D’altronde è così, ho voluto il teatro quando il mondo delle moto ha cominciato a farmi sentire in gabbia, ho voluto il teatro per riprendermi la mia libertà, anche a costo di essere antipatico.
Ci si spostava tutti su furgoni officina, su camper, un po’ come degli zingari – un po’ come adesso, con la sola differenza che ogni domenica allora si correva, mentre ora l’energia è sempre compressa e a volte brucia, fa un male cane. I meccanici erano i migliori amici e se erano italiani si parlava anche di cantautori, di film e di donne tra una pista, un collaudo e un’altra pista. Lavoravano attorno a quel mezzo meccanico per renderlo parlante.
Per continuare a cercare…
E qui mi fermo. Mi sto facendo prendere la mano dai ricordi. E’ da tanto che vorrei buttar giù un po’ di vita e qui ho sommato tutto, ma è quel tutto che io ogni tanto racconto con un po’ di inibizione a chi mi ha incontrato da regista e che volevo darti per permetterti di guardare il mio percorso con più elementi e con occhi diversi.
La mia vita continua a essere questa somma: 1+1=1
Mentre «cercavo» in giro con la moto mi sono perso, proprio come pubblicità della Simonini che recitava così: «Per andare veramente fuori strada!». Ci ero finito veramente e in tutti i sensi. La musica che ascoltavo non era più musica da condividere con amici e meccanici sul camper. I film che iniziavo a scoprire, il teatro che iniziavo a frequentare erano solo per me, mi creavano un vuoto attorno e una nuova solitudine. Cambiava tutto e anche la mia fidanzata diceva che ero diventato diverso.
A me sembrava di continuare a fare la stessa cosa e non mi rendevo conto che invece non correvo più, che avevo iniziato a studiare musica, che giocavo a rugby nel ruolo di estremo per tenermi in forma e perché faticavo a stare fermo e che la mia calligrafia, quella sì, era davvero diversa.
Sono arrivato qui e a volte anche il teatro mi sembra una gabbia, anche negli incontri politici che stiamo facendo mi sembra sempre che ci sia un «non detto» che non ha nulla a che fare con la forza dell’arte. Ma per ora non posso fare a meno di vivere questa scelta.
Ah dimenticavo… i miei piloti preferiti erano tre: Barry Sheene, eclettico dallo stile personalissimo, paperino-peperino fissato con il numero 7; Renzo Pasolini, eterno secondo, il poeta; Jarno Saarineen, pioniere degli sbandamenti arrivato dallo Speedway.
Con affetto
Renzo
LEGENDA DIVERTISSEMENT
staccata al limite dicesi di quel modo di sospendere la velocità piena e di aggrapparsi ai freni quando tutto sembra tremendamente in ritardo e le mille operazioni da compiere devono funzionare per istinto dimenticando la tecnica.
Jarno Saarines a Silverstone (1972).
manetta attributo del polso e della mano destra, quella che padroneggia l’uso della manopola del gas e del freno anteriore. Una buona manetta la dice lunga sul concetto di pilota veloce ma non include sempre la capacità di guidare organicamente e con poesia (fermo restando che c’è per fortuna chi sa conciliare l’uno e l’altro).
Ciccio Manetta mitico pilota rozzanese solo manetta senza poesia. Goliardicamente «pirla».
Barry Sheene (1976).
Japanese Monster termine coniato con l’ingresso in Europa delle moto giapponesi allora ancora contingentate per limitare i danni al mercato; a seconda dell’annata o della disciplina (cross, velocità, trial ecc.) si sono spartite le competizioni e il mercato. Rispondono ai nomi di Honda, Yamaha, Suzuki, Kawasaki.
sponsor sempre più senza arte, ma con molta parte.
pioniere pazzo che si ostina a credere nel valore dell’arte, del cross e del «nuovo teatro».
Renzo Pasolini.
due tempi motori senza valvole di sfogo, che usano per combustibile una miscela olio-benzina, dal suono acuto, provocato, oltre che dal numero di giri, anche da quelle marmitte a espansione che con un buon «buzzing» si possono anche suonare con ottimi risultati (il marmittofono è stato il mio primo strumento musicale prima del trombone).
buzzing tecnica delle labbra per provocare il suono negli strumenti a fiato privi di ancia.
quattro tempi motori con valvole di aspirazione e scarico. Rumore pieno, un po’ come per i tromboni per un’orchestra, che danno profondità e provocano ricordi.
due ruote definizione che dice molto di quei funamboli che esercitano il piacere dell’equilibrio dinamico.
quattro ruote definisce piloti di auto, ben accomodati su un sedile e allacciati alle cinture di sicurezza. Hanno nel migliore dei casi un piede destro «pesante» (che per chi corre in moto corrisponde al piede del freno).
go-kart sorta di automobilina molto cattiva e difficile da guidare; per farlo occorre una tecnica che permette fin da subito di capire la predisposizione di un ragazzino per le competizioni (nel mio caso si disse: «Nato per correre»).
Mv Agusta mitica moto varesotta, definita più volte lo Stradivari del motociclismo in un’epoca dove le regole anti-inquinamento acustico (decibel) non prevedevano l’uso del silenziatore.
Gilera quella che in una nota canzone serviva per andare a spasso mattina e sera (la moto Guzzi serviva invece per andare nel culo a tutti).
Joel Robert fuoriclasse belga, pluricampione del mondo nella 250cc cross con la Suzuki.
Culo di Gomma famoso meccanico della TGM chiamato così dalla canzone di De Gregori.
Simonini nome proprio. Il primo che assemblava moto specifiche, nate appositamente per le corse in tempi in cui si modificavano per lo più moto nate per la produzione (in quell’epoca in una gara di motocross si poteva persino vedere una Lambretta). Il primo a venderle in scatola di montaggio.
estremo ruolo molto particolare di una squadra di rugby, da non confondere con il ruolo calcistico «portiere». L’estremo spesso si inserisce nell’attacco, confonde la squadra avversaria e possibilmente fa meta (con lo schema di gioco chiamato «Mara», semplice ma efficace, la meta era assicurata).
Speedway una delle più entusiasmanti tra le discipline motoristiche. Senza freni. In completo sgoverno, in sbandata, in derapata.
Cross ciò che si attraversa.
Teatro ciò che ti attraversa.