Catalogo degli affetti

di Massimo Raffaeli

Il poeta del livore e del risentimento, uno scrittore che ho letto molto tardi e ho imparato ad apprezzare ancora più tardi, Thomas Bernhard, dice da qualche parte che solo chi è davvero indipendente può scrivere veramente bene. Penso che per gli editori, come per i lettori, valga la stessa regola e da lettore di lungo periodo posso dire di averne la certezza, oramai. Se penso al testo che per primo ho riconosciuto come letteratura, vale a dire qualcosa che riuscisse a coinvolgermi e a svelarmi nello stesso tempo un’immagine del mondo, frontale e persino inderogabile, mi viene in mente che lo lessi scoprendolo in una antologia delle medie per poi ritrovarlo, ma molto tempo dopo, in un libretto stampato alla macchia. Era un blues di Langston Hughes, il cui riff suona pressappoco: «Andai ad Atlanta/ mai stato prima:/ i bianchi mangiano la mela/ i negri il torso». Conteneva la memoria di un dolore atavico e l’idea più elementare dell’essere al mondo, dove c’è chi domina e chi invece viene dominato, chi sta sopra e sotto, dentro e fuori, down and out.

Fu una lezione propedeutica di marxismo, allo stadio virtuale, ma fu anche una prima riprova che la letteratura, nella sua essenza, riguarda la memoria propria o di altri, per cui dunque la memoria coincide con la nostra stessa vita. È grazie al blues di Hughes e a una passione divorante per il jazz che paradossalmente diedi un senso al libro della mia infanzia, un libro sacrale e incombente, amatissimo e non ancora del tutto compreso, cioè il Diario di Anne Frank, circa il quale, diranno poi i versi di Vittorio Sereni (nella poesia de Gli strumenti umani intitolata Amsterdam), «non è/ privilegiata memoria. Ce ne furono tanti/ che crollarono per sola fame/ senza il tempo di scriverlo». L’Anne Frank redenta della mia adolescenza fu in effetti una ragazza nera e militante comunista, la cui selva di capelli ricci divenne una icona nella costellazione del Potere Nero, insieme con il volto severo di Malcolm X, i pugni chiusi di Smith e Carlos a Mexico ‘68, il sax astrale di John Coltrane, gli insorti del carcere di Attica, il volto anonimo dei fratelli di Soledad e quello di George Jackson (i cui scritti sul Fascismo americano Einaudi non ha più ristampato); non c’era posto, invece, per Martin Luther King, il cui sogno, nonostante l’avesse pagato con la vita, era pur sempre il sogno di un pastore della chiesa battista: per parte sua, nella Autobiografia di una rivoluzionaria (riproposta l’anno scorso da minimum fax) Angela Davis cominciava dettando un’epigrafe combattiva, secondo cui «la rete sarà squarciata/ dal corno di un vitello che sgroppa». Ma era l’incipit di una lunga e improvvisa glaciazione. Venuti al mondo nel dopoguerra, nel pieno dell’età dell’oro o dei «trenta gloriosi» 1945-1974, come li definisce Hobsbawm, educati all’idea che la memoria fosse utile non a conservare ma a cambiare il mondo, alla generazione dei ventenni o trentenni di allora sarebbe toccato di dover presto soggiacere alla più cruda e micidiale parodia di Anne Frank e di Angela Davis. Sto parlando di Maggie Thatcher, il cui motto There is no alternative, non esiste alternativa (e relativo acronimo T.I.N.A), inaugura il medioevo liberista, con tutto quanto esso comporta. E infatti sia la pratica della memoria sia il senso della letteratura escono mutati e sconvolti a partire dagli anni ’80, come se la percezione dell’essere qui-e-ora scoprisse di colpo abolito il presente e si trovasse lacerata fra due estremi, il passato remoto e il futuro anteriore; come se approdasse nel vuoto, o nel troppo gremito, di una fantasmatica utopia, lo spazio-tempo che in sé non esiste.

Ne deriva uno spaesamento radicale, insomma la distanza che spiega come mai per alcuni, e per il sottoscritto, il libro del ventennio successivo sia stato il capolavoro di Kazimierz Brandys, Rondò (’82), edito da e/o nel 1986 e nella traduzione dal polacco di Giovanna Tomassucci. Quel grande romanzo, la cui forma circolare e inclusiva ha peraltro la rapidità di un vortice, è ambientato a Varsavia negli anni dell’occupazione nazista e riassume alla maniera di un’allegoria tutto ciò che sentivamo già perduto, e forse una volta per sempre: Rondò racconta l’invenzione di una rete della Resistenza per il tramite di un grande amore parimenti inventato, o viceversa; ma Rondò è il racconto innanzitutto di una delusione così grande da sospendere l’idea stessa di storia, di ogni fondamento del nostro passato o comunque di ogni grande aspettativa: «Forse era così, la realtà, che poi noi interpretavamo solo a ritroso, attribuendole la forma del nostro intelletto, ricostruendola a posteriori coerentemente alla nostra necessità di comprendere, al nostro bisogno di un senso […]? Voleva dire che la vita era una storia inventata da noi, che narravamo senza tregua di noi stessi, una storia da cui traevamo origine e in cui trovavamo conferma, una storia che continuavamo a incarnare e in cui ci ostinavamo a credere, perché essa sola poteva salvarci…» Tuttavia, la parola salvezza non è affatto pronunciabile, nell’ipermercato postmoderno, se non al prezzo della aperta malafede o di una strategia retorica, di autopersuasione fondamentalista, che rende il rimedio, e qualsiasi rimedio, talvolta peggiore del male; altrettanto impronunciabile è la parola che disponga ad accettare l’esistente e il suo trionfo, quasi equivalesse a sottoscrivere la cedola di un mutuo subprime. Il libro del tempo presente, il bene-rifugio per antonomasia, è ancora una volta la Bibbia: ne scelgo l’inserto più aspro, il più franco nell’ammettere che siamo tutti quanti polvere e ombra, eppure il più nitido a dare il senso della misura umana, a serbarne la traccia nel momento medesimo in cui la dice effimera e stolta: è il libro dell’Ecclesiaste che una ventina d’anni fa (nel 1986, commemorando la classica eleganza del vecchio Scheiwiller) inaugurò le edizioni bresciane l’Obliquo di Giorgio Bertelli con un volume di rarissima bellezza grafica e testuale, Il mio Cohélet, che conteneva appunto incisioni di Bertelli, la versione del poeta Attilio Lolini (poi ripresa in integrale per il suo Ecclesiaste, l’Obliquo, 1993), e testi critici di Franco Fortini e Rossana Rossanda.

Nel doppiaggio essenziale e fraterno di Lolini, si leggono i versi celeberrimi ma, per altra via, famigerati: «Dei morti non ci sarà/ memoria/ ma anche dei vivi/ tracce non resteranno/ inutili/ i già stati/ inutili/ quelli che verranno». Omnia vanitas vanitatum, vanità di vanità, la leopardiana «vanità del tutto». Si tratta di un alibi sapienziale, e buono per tutte le stagioni? Del marchio che sancisce la sconfitta, alla fine del Secolo Breve? Ovvero di una tara ontologica, che serve a confermare come tutto ciò che esiste – la storia, le umane passioni, le nostre più profonde aspirazioni – comunque vadano le cose non è per sempre e soprattutto non è per noi? Il senso di quelle parole non è affatto univoco, né esistono risposte automatiche a simili domande; qui sul serio è in gioco la nostra indipendenza, nell’attivare la memoria ovvero nell’arrendersi ad essa. Proprio leggendo l’Ecclesiaste, Fortini aveva scritto un verso da cui non è possibile astenersi: odia chi con dolcezza guida al niente.

Il presente contribuito è apparso nella cornice di uno speciale del manifesto, uscito il 4.12.2008, dedicato all’editoria indipendente.

9 COMMENTS

  1. allora, con questo metro di giudizio, cui prodest leggere, cui prodest scrivere, cui prodest stare al mondo…

  2. Qualora interessasse, nel 2001 mi piacevano:

    – I film sugli eskimesi: non i documentari, ma i film.
    – Meteoriti & comete.
    – I film western con la neve.
    – I film western.
    – I (rarissimi) film western col mare.
    – Rinoceronti e coccodrilli e storioni.
    – Le isole.
    – I film e i libri postatomici.
    – I giardini zen giapponesi.
    – Louis Barragan.
    – Sam Pekinpah.
    – John Huston.
    – John Coltrane.
    – Art Blakey, Paul Desmond, Joe Morello, Jimmi Garrison e tutti gli altri.
    – Conrad.
    – London, Stevenson, Kipling.
    – Melville.
    – Leopardi, Penna, Kavafis, Scialoia.
    – Fenoglio.
    – Drieu de La Rochelle.
    – I film catastrofici.
    – Giotto e Bacon e Rosso Fiorentino e Jasper Johns e Burri e Caravaggio e Giorgione e Tiziano e De Chirico e Sironi.
    – Rothko.
    – Beyus.
    – Afro Basaldella, su tutti.
    – I culi delle ragazze che hanno la schiena arcuata.
    – Le pallottole riprese al rallentatore.
    – Le riprese al rallentatore in genere.
    – La partenza dei missili e degli shuttle.
    – Gli aerei, tutti e moltissimo, ma in particolare i Mig 15 e i Mig 21.
    – Dimenticavo lo Spitfire, su tutti.
    – Le navi e i treni e gli elicotteri.
    – Celine e Camus, ma non Sartre.
    – Proust.
    – Claude Levy-Strauss.
    – Brigitte Bardot e, per motivi opposti, Jeanne Moreau e soprattutto Simone Signoret (in Casco d’oro).
    – Audrey Hepburn, Lea Massari, Romy Schneider, Jean Seberg.
    – Kim Basinger e i suoi capezzoli.
    – Lino Ventura, Serge Reggiani, Jean Gabin, Ivo Livi e le loro sigarette.
    – Mitchum e Sterling Hayden e Robert Ryan, perfino Lancaster, ma soprattutto Lee Marvin.
    – E Clint.
    – Saul Steinberg che è morto da poco.
    – Raymond Carver.
    – Hemingway.
    – Dashiell Hammet.
    – Chandler, Jeff e Raymond.
    – DFW.
    – La facciata di S. Andrea della Valle al tardo pomeriggio, l’estate, quando viene investita da ovest, per pochi minuti, dalla luce radente.
    – Piazza del Quirinale, alla stessa ora.
    – Il campanile di S. Andrea delle Fratte.
    – Gli obelischi.
    – L’ordine dorico.
    – Il capitello corinzio.
    – Il vento di Rodi e la pensione La luna.
    – Paestum, Segesta.
    – New York.
    – Times Square.
    – Gli aeroporti, gli aerei di linea, le sale d’aspetto ai cancelli d’imbarco, i duty free e i nastri dei bagagli.
    – Tutti i «non luoghi», soprattutto i distributori di benzina.
    – Le rocce a picco sul mare.
    – La Bretagna, Brest.
    – Tutto l’Egeo, in particolare il Dodecanneso.
    – Le Corbusier.
    – Mies.
    – Giovanni Battista Piranesi.
    – I film di Kubrik, meno l’ultimo.
    – I cetorini.
    – I celacanti.
    – La scultura greca, tutta.
    – Le conchiglie.
    – La randa e il fiocco di una barca a vela.
    – Ponza e Palmarola, ma non Zannone.
    – Tutta la fanta-scienza.
    – Il vento di ponente sulle coste tirreniche, quando tira fresco verso le due le tre del pomeriggio e il mare che si alza un poco e se si guarda verso ovest diventa lucente.

    Qualora interessasse: oggi toglierei qualcosa, aggiungerei qualcos’altro.

  3. @macondo

    C’è sempre qualcuno a cui prode.

    Il pezzo è uscito, come viene indicato, in uno speciale che parla di editoria indipendente, dello spazio ancora concesso, o guadagnato, dai piccoli editori. Il contributo di Raffaeli è molto obliquo rispetto al tema, e traccia un percorso affettivo, legato a singoli autori, a singoli eventi di memoria personale, intorno ai quali si concentra una spinta di libertà, non so come altro chiamarla, che solo in minima parte è l’esito delle politiche editoriali. Credo che Raffaeli, unico fra i critici di quello speciale, abbia riaffermato la centralità, il primato del lettore sul consumatore, fuori dagli schematismi con cui abitualmente si guarda alle dinamiche che investono la produzione dei libri.

  4. @ giovanni,
    beh, personalmente ritengo che ogni tanto il “cui prodest” bisogna domandarcelo, nel senso NON di “a chi fa il gioco”, ma in quello di “a chi serve”, domanda non utilitaristica che ci mette in rapporto con gli altri, che ci fa uscire dalla fortezza dell’ego…
    @ tashtego,
    un saluto alla tua ironia creatrice. In questa Nazione Indiana mi pare predominare la tristezza, il dolore (la depressione?), l’avversione a ogni guizzo “gogliardico”. Ma anche gli indiani delle riserve, pur nella sconfitta, credo che ogni tanto siano anche allegri, svagati, leggeri…
    @ domenico,
    appunto, era l'”obliquità” dell’articolo che mi lasciava perplesso, e in più separato dal contesto (che poi tu hai provveduto giustamente, ma in seconda battuta, a ricomporre col link). Eppoi, quasi un OT, più mi guardo intorno e più mi pare che l’editoria indipendente, i piccoli editori, siano una sorta di eufemismo, una definizione eroica che però nasconde una realtà ben più prosastica. E se invece di piccola editoria si parlasse di piccole fette di mercato, in lotta per conquistare fette più ampie dello stesso mercato? Conosco l’obiezione: ma i piccoli editori lo fanno in nome della qualità delle loro proposte… Boh…

  5. @ macondo

    L’indiano torvo caccia un falsetto, modulato su Eliot che ragiona del verso libero: ci sono buoni piccoli-editori, cattivi piccoli-editori, e il caos :-)

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domenico pinto
domenico pintohttps://www.nazioneindiana.com/
Domenico Pinto (1976). È traduttore. Collabora alle pagine di «Alias» e «L'Indice». Si occupa di letteratura tedesca contemporanea. Cura questa collana.