Tarkus
di Dario Voltolini
All’inizio degli anni 70 del secolo scorso eravamo teenagers e ci aggiravamo nelle medie inferiori, negli inizi delle superiori. Ora non riesco a ricostruire il momento esatto, ma il luogo e la persona sì. Siamo fra il ’71 e il ’73, a Torino, il mio amico Giorgio Prandi e io, a casa sua, in corso Palermo. Giorgio mi esibisce con entusiasmo un LP. La copertina è colorata: una strana creatura se ne sta minacciosa in una landa a strisce colorate sotto un cielo blu, più chiaro all’orizzonte. Ossa di carcasse biancheggiano in lontananza. Una quindicina di zanne o denti compongono una scritta: TARKUS.
È il nome della creatura. Un incastro fra un armadillo e un carrarmato (un carmadillo?) dall’occhio rosso e cattivo, con cannoncini e altre bocche da fuoco (le narici, per esempio). Tarkus è aggressivo, ma la sua compattezza arrotondata, il suo piccolo muso e la solitudine spaventosa in cui lo confina il suo habitat non possono che renderlo simpatico. Noi tifiamo per lui, appena aperta la copertina dell’LP, appena vista la pianura deserta prolungarsi vuota sulla sinistra, che era il retro. Tarkus è il nostro eroe.
Giorgio mette il disco sul piatto. Nell’interno della confezione altre immagini raccontano coloratissime la storia di Tarkus. Nasce in un vulcano, da un uovo. La sua vita è un procedere nella pianura massacrando avversari. Uccelli preistorici metallizzati, mezze iguane con zampe di locusta e testa a ferro da stiro, concrezioni di cozze e silos e esche occhiute (come quelle della rana pescatrice). La pianura è a strisce che fuggono lontane in una prospettiva che ci affascina, non c’è niente da fare.
Ma ecco che arriva la Manticora. Faccia d’uomo, corpo leonino, guarnizioni da porcospino e coda di scorpione. Infuria la battaglia. Tarkus si becca un pungiglione nell’occhio sinistro. Tarkus, il nostro eroe, ha perso. La Manticora ha vinto. Una desolata variazione della pianura – un canyon con un fiume a vene azzurre, accoglie la mesta ritirata dell’armadillo cattivo. Andrà a morire lontano?
Il nostro eroe ha perso: era un eroe negativo, d’altra parte. Possiamo ascoltare la sua storia, adesso.
Il racconto ha una precisa articolazione.
Eruption, l’introduzione. Poi: Stones Of Years, Iconoclast, Mass, Manticore, The Battlefield (climax) e infine Acquatarkus (anticlimax – conclusione: citazione dell’inizio).
Nel disco ci sono altre composizioni, ma non ce ne frega niente. Rimettiamo Tarkus dall’inizio. Un gesto ripetuto in seguito infinite volte. Tarkus finiva, accecato morente, e noi lo rimettevamo nell’uovo, mettevamo l’uovo nel vulcano e abbassavamo il braccio dello stereo. La puntina si incanalava nel canyon a spirale – correlato oggettivo del canyon del tramonto tarkusiano – il crescendo cresceva, i piatti vibravano, tastiere, percussioni, un gong, l’organo hammond, il basso. E un barrito di moog annunciava al mondo disseccato che la creatura era qui. Un barrito strappato, che era già un urlo di dolore da suino macellato. Questo era il punto di tangenza fra innumerevoli curve. Il grido di Tarkus. Era la creatura che si presentava all’orecchio, dopo averci suggestionato la vista. Era proprio lei che urlava, come in un musical, come in un melodramma. Entrava in scena. E cantava, o meglio urlava la propria condizione disperata. Non era una musica che descriveva una scena, era un armadillo metallico che diceva “io sono qui”.
Realismo?
Keith Emerson: hammond, pipe organ, piano, celeste, moog, vocal; Greg Lake: bass, vocal, guitars; Carl Palmer: drums, percussion, vocal. Così si presentavano i tre musicisti e i loro strumenti. La storia di Tarkus ce la raccontavano in circa venti minuti.
Nel punto di tangenza del grido al moog passavano altre storie: la storia di come i tre musicisti fossero tecnicamente insuperabili, la storia di come il rock potesse dilatarsi in lunghe composizioni abbattendo così l’angusto recinto della forma-canzone, la storia di come si fosse all’alba di nuove configurazioni dell’arte e del mondo e della società, la storia di come la tecnologia ci aprisse nuovi universi, nella fattispecie acustici. La storia di come la musica classica potesse ritornare in vesti nuove a farsi ascoltare da noi. Da noi gente ignorante.
Era una complessione che si teneva su da sé, senza appoggi né fondamenti. Prese una alla volta queste storie non reggevano, prese tutte insieme per un po’ hanno retto.
Se dovevamo strabiliare di fronte alla tecnica di Emerson, che suonava dal vivo su diverse tastiere e infilava spinotti nel mobile gigante del suo moog, cosa avremmo dovuto fare di fronte a Glenn Gould, scorticarci? Di fronte ad Arturo Benedetti Michelangeli?
E di queste cosiddette “suites”, le lunghe composizioni del rock progressivo, quante sono quelle concepite come tali e quante quelle formate da una serie di tradizionalissime composizioni in forma-canzone incollate in sequenza? Non parliamo poi delle nuove configurazioni: il sogno antibellicista del decennio precedente era culminato nell’opposizione alla guerra in Vietnam, ma già il generale Augusto Pinochet stava sorgendo nerissimo all’orizzonte. Un orizzonte spaventoso. Oltrecortina altrettanto terrore. Da noi, little Italy, l’orrore.
Eppure per un breve giro d’anni si moltiplicarono i tastieristi virtuosi, come Rick Wakeman, ammantato nelle sue tuniche. Si produssero innumerevoli copertine allusive che introducevano all’ascolto degli LP e anzi ne suggerivano l’interpretazione, conferendo loro una certa “aura”. “Nursery Crime” dei Genesis aveva un’immagine sofisticata, ma soprattutto la pianura era una pianura a strisce fortemente prospettiche, in fuga anche loro verso il punto di fuga e non ritorno. L’anno di pubblicazione era lo stesso di “Tarkus”, il ’71. Si inventarono versioni nazionali della stessa formula, si escogitarono medioevi di bifore e flauti, maghi e giganti comparvero sulla scena, derive cosmiche provenivano dalla Germania, c’erano stati Re Cremisi e mucche sinfoniche, ci sarebbero state chitarre nello spazio, cantanti vestiti da fiore.
Noi che eravamo quei teenagers mescolavamo tutto in un crogiolo. Dentro c’era posto anche per la sfida scacchistica fra Bobby Fischer e Boris Spassky. Per i supereroi: Devil, l’Uomo Ragno, Gigi Riva. Ci sarebbe stato posto anche per altra musica, in seguito. Cantautori, gruppi andini. Un calderone.
Che poi finì.
Ma per ora siamo all’inizio: con il mio amico Giorgio progettavamo varie attività di contorno a Tarkus: una rivista di recensioni discografiche, in cui naturalmente noi recensivamo Tarkus. Gruppi di ascolto di Tarkus. Discussioni e confronti fra diverse letture e interpretazioni di Tarkus. E i pomeriggi passavano.
Anni dopo, una specie di pietra tombale su questo periodo della mia vita fu posta da uno dei miei pochi, incerti maestri, che, di fronte al mio tentativo di scavalcare la nostra differenza anagrafica, mi restituì la mia copia di “Atom Heart Mother” commentando: “una bruttissima imitazione del peggior Mahler”.
Ma cosa erano quelle sedute di imbambolamento, cosa erano state e cosa sarebbero diventate per noi, lì chini a rimettere la puntina su Tarkus, ancora e ancora, mentre fuori era già buio?
Era una incursione profonda nel cuore del kitsch. Era una fascinazione irresistibile per qualcosa che non esisteva, in realtà. Il plesso di storie che si teneva su da sé, grazie al proprio aggrovigliamento, non poggiava su nulla, vagava come un pianeta, ma, a differenza di un pianeta, era privo di massa e senza forze di gravità: i fili si slacciarono e non restò più nulla. Eravamo stati esposti a un’allucinazione di una certa complessità, dove si figuravano serie di mondi ulteriori, diversi dal nostro, passati, futuri, laterali, interiori o di diversa dimensionalità. Ma quei mondi non c’erano.
La nostra era stata una fruizione ben aldilà dei peggiori incubi adorniani. Altro che ascolto gastronomico del fatto musicale! Qui la gastronomia era stata sostituita dai coloranti artificiali, dai cibi sintetici! Non eravamo in ascolto kitsch di materiale di qualità, eravamo in ascolto kitsch di materiale kitsch.
Ricordo che a scuola in quegli anni io ero stato affascinato da certi poeti incontrati così, sulle antologie, direttamente leggendone alcuni testi. Montale, Soffici. Mi piacevano, mi alimentavano visioni.
Ricordo che un giorno ero rimasto incantato davanti al televisore: Bergman, “Il posto delle fragole”.
Ricordo numerosi piccoli eventi che mi colpivano scavalcando ogni possibile mediazione culturale. Era l’Arte che mi parlava. Era l’Arte, che non aveva bisogno di studiosi a cui rivolgersi, ma di esseri viventi. Poi arrivò un carrarmato con faccia di armadillo e penetrò senza incontrare resistenza fino al centro delle nostre visioni, trovando in quello stesso terreno privo di cultura che aveva favorito gli Artisti una via maestra e senza attrito.
Articolato e infondato come un’ideologia, il pacco regalo squadernava musica e indotto direttamente dentro di noi. Il nulla di cui era fatto è la stessa materia di cui è fatta l’invenzione artistica, quella letteraria, quella onirica. Che nulla era?
Sgusciati fuori dalle pianure a strisce ci possiamo ben rendere conto di come fosse ultrasemplificata e non complessa la materia di cui stiamo parlando. Era carente. Era la fantasia senza immaginazione. Era un mondo senza principio femminile, era un incubo senza nome. Toccava la sensibilità del teenager maschio dove il sesso non c’era ancora o c’era già stato e giaceva rimosso e nascosto nelle pieghe preadolescenziali. Solo diventando trendy e grazie ad altri gruppi musicali il fenomeno coinvolse indifferentemente maschi e femmine, grazie al mentalismo, al culturalismo, alla simulazione dell’elitarismo e alla sua collocazione sostanzialmente europea. E anche così, fu per poco. (Che non c’entrino anche qui gli Stati Uniti?).
Dei ragazzi (noi) si affacciavano sul cortile dove succedevano le cose. Alcune erano appena successe, altre erano in preparazione. Nel frattempo un gruppo di intrattenitori raccontava baggianate. Kitsch.
Ma il punto in cui nascono le visioni in noi non è un luogo di cui ci si possa chiedere se sia o no a sua volta kitsch, raffinato, colto, barbarico, innato o cose così. Come in geometria, è un punto logico, un’intersezione. Non sta davvero in una parte di noi. Giace altrove, nell’astrazione, nella misurazione. Che una erogazione di kitsch sia andata a toccare proprio quel punto non significa che quel punto sia diventato lui stesso kitsch o produttore di kitsch.
Cosa ci ha insegnato l’universo guidato da Tarkus, se qualcosa ci ha insegnato?
Io credo che ci abbia sciolto da una fascinazione, da un incantesimo. Essere sciolti da questo incantesimo è un’esperienza che tutti facciamo. Così come rimanerne ciclicamente preda. Anche questo facciamo. L’incantesimo di cui parlo è stato definito una volta per tutte da Keats negli unici versi che tutti conosciamo di lui: “Beauty is truth, truth beauty,” – that is all / Ye know on earth, and all ye need to know.”
Nel punto geometrico dove nasce la nostra visione questo nodo ineffabile è stato sciolto. Non c’è più stato nesso fra la verità e la bellezza, per noi. Sembra una cosa troppo importante per avere a che fare con Tarkus? Pazienza: la verità non è nemmeno importanza.
Il legame fra bellezza è verità è sciolto. Quando qualcosa che è il contrario della bellezza agisce con le stesse movenze della bellezza per toccare gli stessi tasti che tocca la bellezza, allora questo significa che quei tasti sono legati alla bellezza solo per via contingente e non necessaria. Ma, al contrario di quanto siamo portati a credere, tagliare il nesso fra bellezza e verità non significa liberare l’una dall’altra, ma modificarle entrambe. Se non è bellezza, la verità è qualcos’altro. Se non è verità, la bellezza è qualcos’altro.
Noi non sappiamo cosa siano. Sappiamo che ci sono entrambe, ma non potendole reciprocamente identificare, restiamo indecisi sulla loro natura. A Keats era riuscito il grande colpo di mettere uno specchio di fronte all’altro. Ma non è così. Verità e bellezza sono due specchi diversi e disassati: non sappiamo dove guardano.
Capire questo.
Questo è stato il bello del brutto. Il suo grano di verità. La sua menzogna.
——————–
Pubblicato sull’Avvenire del 28 agosto 2003
molto interessante, Andrea. Cerco di articolare una risposta sensata chez moi.
Uhm, dovrebbe essere: molto interessante DARIO. O forse ti riferivi all’articolo che precede. Comunque io appena letto l’articolo sono andato a cercare Tarkus. E ho anche intenzione di andare a vedere Appuntamento a Belleville. Prima o poi Dario posterà per scherzo un thread su Gigi d’Alessio solo per vedere se ci casco.
Io credo che fondamentalmente la capacità di godere dell’arte sia niente più che un effetto collaterale dell’intelligenza. E’ un po’ come con il sesso: il piacere sessuale connesso alla riproduzione è un chiaro vantaggio evolutivo, il piacere sessuale non connesso alla riproduzione è un di più, non serve a niente ma ormai c’è e dal fatto che c’è derivano un sacco di conseguenze, buone e cattive, comunque importantissime. Ecco, con l’arte mi sa che è proprio lo stesso: la capacità di eccitarsi e godere di fronte ai prodotti della propria e della altrui creatività ha un ruolo fondamentale nell’evoluzione culturale della nostra specie; come sottoprodotto, si porta dietro la capacità di eccitarsi e godere anche di fronte al kitsch. In tutti e due i casi, si tratta di un apparato sensoriale sviluppatosi per reagire a un certo tipo di stimoli producendo piacere per ottenere un vantaggio evolutivo: noi, vecchi marpioni, si impara a procurarsi piacere anche quando il vantaggio evolutivo non c’è.