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I fatti diversi 1

di Andrea Inglese
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Visto ad ora insolita

Ecco, sono pronte. Hanno tirato fuori le loro cartellette con l’elastico. Si alzano e vengono verso di me. Le due figlie di Luca Casarini. Si avvicinano alla cattedra e mi lanciano un’occhiata interrogativa. “Potete cominciare ad esporre la vostra ricerca” dico. Fanno per parlare, ma le bocche di entrambe non riescono a scollarsi. Hanno le mascelle bloccate per colpa del pesante foulard che portano addosso.

Non è un normale hidjab. Sembrano due madonnine, ma con un foulard che pesa come il piombo e quasi le strangola. “Chi vi ha detto di mettere il velo?” domando. “Non sarà stato certo vostro padre.” Fanno cenno di no con la testa e sorridono trionfanti. Tentano di disserrare le labbra, ma non ci riescono. Si puntano l’indice contro il petto. “Certo che è stata un’idea vostra, questo l’avevo capito.” Faccio segno di tornare al posto. Ma dal fondo della classe si alzano due gendarmi francesi. “La laicità dello stato” urlano e si gettano addosso alle due ragazze. Ora le hanno afferrate e cercano di togliere loro la gonna. Intanto, ansimando, continuano a ripetere: “Via il velo smorfiose”. Sollevo le mani in aria, come mi ha suggerito uno tizio di sinistra, e dico: “Possiamo metterci d’accordo, basta un po’ di tolleranza, un po’ di simpatia…”. Mentre le due ragazze si dibattono ormai in mutande, entra un collega. Porta un colletto da prete e degli occhiali scuri. Mi prende sottobraccio e fa: “Hai letto l’ultima circolare?”. Lo guardo muto e stupefatto. Lui m’incalza: “Ma non vedi come siamo messi? Dobbiamo imparare dai francesi, dai tedeschi! Aggiornati!” Io ci provo: “Vuoi dire la circolare del giugno 1993?” “Ma quella è preistoria! Adesso, adesso! Sta cambiando tutto.” Tira fuori un foglio a quadretti spiegazzato. “Guarda! È arrivata stamattina alle nove!” Caspita, è vero. Da tempo eravamo in attesa della grande novità: la circolare del 1928. Mi infilo automaticamente le mani nella fondina, sotto la giacca. Niente. Lui mi guarda malizioso, ridacchia. Si mette una mano dietro la schiena, tira un po’ su il maglione e mi presenta un esemplare nuovissimo, di ottimo calibro. “Stai attento, ho tolto la sicura.” Lo impugno con cautela. È un gran bel crocifisso. La croce è di madreperla e il cristo d’acciaio. Pesa parecchio, ma deve essere di una straordinaria precisione. “Te ne posso procurare uno come si deve”, mi fa, “ma ti costerà parecchio”. “Va bene” gli dico “purché non siano quei ferrivecchi che abbiamo in dotazione”.

*

Visto di pomeriggio, nel supermercato Champion, a Parigi

Un bambino fermo in mezzo a due scaffali di salumi confezionati. Ha una berretta di lana e piange. Ai suoi piedi un cestino di plastica rosso, di quelli per riporre la merce che si vuole acquistare. Continua a piangere, senza muoversi di un millimetro. La gente deve girargli intorno, anche a fatica, anche governando con difficoltà carrelli zeppi di polli, bottiglie, lettiera per gatti da sedici chili… Nel pianto, si distinguono le parole “zio, voglio lo zio, voglio lo zio”. Io faccio finta di nulla e imbocco una traversa, mi dirigo verso le marmellate. Quello continua a piangere. Dopo qualche minuto, me lo ritrovo davanti. Sto dirigendomi a recuperare dei limoni. Li ho dimenticati quando ho raccolto di fretta porri e avocado. Anch’io devo compiere col carrello una piccola deviazione. Ma senza grandi sforzi: il mio carrello è quasi vuoto. Piange sempre. Mi sento un po’ in imbarazzo. Do un’occhiata in giro. Nessuno fa niente. Continuo per la mia strada, spedito verso i limoni. Al ritorno lo ritrovo allo stesso posto, sempre piangendo, sempre invocando lo zio. Ma questa volta una signora si è fermata. Gli ha messo una mano sulla testa, scuotendogli appena la berretta. Poi ha lasciato cadere delle monete nel cestino rosso e se n’è andata. Una coppia di ragazzi giovani ha assistito alla scena. Si decidono anche loro, adesso. La ragazza fruga nelle tasche della giacca a vento. Estrae il portafoglio e da questo una moneta. La porge al bambino. Quello non la guarda neanche. Lei la lascia cadere. Lui piange. So cosa devo fare. Devo assolutamente dare anch’io qualcosa al bambino. Mentre mi avvicino, sento la solita frase: “dov’è lo zio, voglio lo zio, voglio lo zio”.

*

Visto sulla linea 7, direzione Mairie d’Ivry, metropolitana di Parigi

Non è la solita donna cinquantenne, con i capelli unti e il maglione stinto. Non è neppure il tossico, con gli zigomi aguzzi. Né il vecchio con il bordo dei pantaloni infilato nelle calze, la barba lunga e il fetore addosso. È un tipo giovane, vestito alla buona, ma pulito. Avrà vent’anni. Fa un discorso senza cantilena, senza filastrocca. Il succo è lo stesso di tanti altri discorsi. Ho fame, manca il lavoro, datemi soldi o buoni pasto. Ma sembra improvvisato, sgorgato di colpo in seguito a un’esperienza imprevedibile, abnorme, di cui ancora non si misurano le conseguenze. Parla dello Stato, che non vale niente, non si impegna abbastanza, non fornisce futuro, sostegno. La sua giovane età ha colpito un po’ tutti. Non dico che abbia convinto. Quasi nessuno si è messo a trafficare con il portafoglio. Però lo abbiamo guardato con attenzione e, caso raro, ci siamo guardati tra noi. Un giovane in piedi di fronte a me, alto, né bello né brutto, con i capelli biondicci, lo osserva assorto. Questo gli darà qualcosa, mi dico. Forse sarà l’unico in tutto il vagone, ma gli darà dei soldi. Quando il mendicante ventenne passa, però, non accade nulla. Il tipo biondiccio se ne sta sulle sue. Quell’altro scende e cambia vagone.
Non passa neppure un minuto che il tipo biondiccio si schiarisce la voce. E inizia a parlare. Lo guardo sorpreso, cercando di indovinare quale legame possa esserci tra il giovane mendicante e lui. “Anch’io voglio dire la mia…” È chiaro che non si sta rivolgendo a qualcuno in particolare. Ciò produce in tutti noi, che gli siamo vicini, seduti o in piedi, un’evidente tensione. Ma lui continua. “Io prima avevo paura della gente. Mi spaventava la gente e non avevo il coraggio di guardarla in faccia. Certo, Lei ride… Mi prende in giro.” Sembra rivolgersi ora ad un signore arabo, in piedi di fronte a lui. Ma non s’interrompe. “Però io devo dichiarare qui, davanti a tutti voi, che prima non potevo uscire di casa senza indossare una maschera nera che mi copriva la faccia. Lo so che forse non interesserà a nessuno, ma io ho voluto dirlo lo stesso…” Il seguito della frase si spegne in un mormorio impercettibile. A questo punto il tipo biondiccio vede un posto libero e si siede come se niente fosse. Accanto a lui va a sedersi il signore arabo. E tra i due, a bassa voce, sembra nascere una conversazione.

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Andrea Inglese (1967) originario di Milano, vive nei pressi di Parigi. È uno scrittore e traduttore. È stato docente di filosofia al liceo e ha insegnato per alcuni anni letteratura e lingua italiana all’Università di Paris III. Ha pubblicato uno studio di teoria del romanzo L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo (2003) e la raccolta di saggi La confusione è ancella della menzogna per l’editore digitale Quintadicopertina (2012). Ha scritto saggi di teoria e critica letteraria, due libri di prose per La Camera Verde (Prati / Pelouses, 2007 e Quando Kubrick inventò la fantascienza, 2011) e sette libri di poesia, l’ultimo dei quali, Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato, è apparso in edizione italiana (Italic Pequod, 2013), francese (NOUS, 2013) e inglese (Patrician Press, 2017). Nel 2016, ha pubblicato per Ponte alle Grazie il suo primo romanzo, Parigi è un desiderio (Premio Bridge 2017). Nella collana “Autoriale”, curata da Biagio Cepollaro, è uscita Un’autoantologia Poesie e prose 1998-2016 (Dot.Com Press, 2017). Ha curato l’antologia del poeta francese Jean-Jacques Viton, Il commento definitivo. Poesie 1984-2008 (Metauro, 2009). È uno dei membri fondatori del blog letterario Nazione Indiana. È nel comitato di redazione di alfabeta2. È il curatore del progetto Descrizione del mondo (www.descrizionedelmondo.it), per un’installazione collettiva di testi, suoni & immagini.