Bambini
1
Una volta, tra i trasporti, ce ne fu uno di bambini – due treni merci pieni.
I giovani che selezionavano gli averi di quelli portati alle camere a gas
dovettero spogliare i bambini – erano orfani –
e poi condurli al “lazarette”.
Lì le SS li fucilarono.
2
Un grosso camion a otto ruote arrivò all’ospedale
dove c’erano i bambini;
nei due trasporti – camion scoperti – c’erano donne malate e uomini
sdraiati sul fondo.
I tedeschi gettarono i bambini nei camion
dal primo piano e dai balconi –
bambini da uno a dieci anni;
li gettarono sopra i malati nei camion.
Alcuni bambini cercarono di attaccarsi ai muri,
graffiavano i muri con le unghie;
ma i tedeschi urlanti
picchiarono i bambini e li spinsero verso le finestre.
3
I bambini arrivarono al campo con degli autobus,
sorvegliati da gendarmi del governo francese di Vichy.
Gli autobus si fermarono al centro del cortile
e tutti i bambini furono tirati giù in fretta
per lasciare spazio agli altri autobus che arrivavano.
Spaventati ma tranquilli,
i bambini scesero in gruppi da cinquanta o sessanta fino a ottanta;
i più piccoli stavano attaccati ai più grandi.
Furono portati di sopra in stanzoni vuoti –
senza mobili
e solo sacchi di paglia sporca sul pavimento, pieni di scarafaggi;
bambini piccoli, anche di due, tre o quattro anni,
tutti sporchi e laceri,
perché avevano già passato due o tre settimane in altri campi,
senza nessuno che si occupasse di loro;
e ora erano diretti a un campo di sterminio in Polonia.
Alcuni avevano una scarpa sola.
Molti avevano la diarrea
ma non avevano il permesso di andare in cortile
dove c’erano i gabinetti;
e, benché ci fossero vasi da notte nei corridoi di ciascun piano,
erano troppo larghi per i bambini più piccoli.
Le donne nel campo, che erano deportate anche loro
e sul punto di essere condotte in altri campi
erano in lacrime;
dovevano alzarsi prima dell’alba
e andare nelle camerate dove stavano i bambini –
da cento a centoventi in ognuna di queste –
per sistemare i vestiti dei bambini;
ma le donne non avevano né sapone per pulire i bambini,
né biancheria pulita da dare loro,
e solo acqua fredda con cui lavarli.
Quando arrivava la zuppa per i bambini,
non c’erano cucchiai;
e era servita in tazze di latta
ma a volte le tazze di latta erano troppo calde perché i bambini potessero
[tenerle in mano.
Dopo le nove nessuno – tranne tre o quattro che avevano un permesso –
poteva stare con i bambini.
A quel punto ogni stanzone era immerso nel buio,
tranne una lampadina dipinta di blu secondo le istruzioni sull’oscuramento.
I bambini si svegliavano di notte
chiamando la mamma,
e allora si svegliavano a vicenda,
e a volte tutti nella stanza cominciavano a piangere
fino a svegliare i bambini nelle altre stanze.
Un visitatore una volta fermò uno dei bambini:
un ragazzino di sette o otto anni, bello, sveglio e allegro.
Aveva una scarpa sola e l’altro piede era nudo,
e il suo cappotto di buona qualità non aveva bottoni.
Il visitatore gli chiese come si chiamava
e poi cosa facevano i suoi genitori;
e lui disse: “Mio padre lavora in ufficio
e mia madre suona il pianoforte.”
Poi lui chiese al visitatore se avrebbe presto raggiunto i suoi genitori –
ai bambini dicevano sempre che di lì a poco sarebbero partiti per raggiungere
[i loro genitori –
e il visitatore rispose: “Certo. Tra un giorno o due.”
Allora il bambino estrasse dalla tasca
un mezzo biscotto dell’esercito che gli era stato dato al campo
e disse: “Questa metà la tengo per la mamma”;
e a quel punto il bambino che era stato così allegro
scoppiò in lacrime.
4
Altri bambini, anche loro separati dai genitori,
arrivarono con degli autobus,
e furono fatti scendere nel cortile del campo –
un cortile circondato da filo spinato
e sorvegliato da gendarmi.
Il giorno della partenza per il campo di sterminio
furono svegliati alle cinque del mattino.
Nervosi, mezzo addormentati, la maggior parte di loro si rifiutò di alzarsi e di
[scendere in cortile.
Delle donne – volontarie francesi, perché erano ancora in Francia –
gentilmente sollecitavano i bambini
a obbedire – bisogna! – e a abbandonare gli stanzoni.
Ma nonostante questo molti non volevano abbandonare i sacchi di paglia su
[cui dormivano
e a quel punto i gendarmi entrarono,
e presero in braccio i bambini;
i bambini strillavano impauriti,
lottavano e cercavano di aggrapparsi l’uno all’altro.
5
Delle sorveglianti della sezione femminile del campo di concentramento
mettevano dei bambini piccoli sui camion
perché venissero portati nelle camere a gas
e i bambini gridavano e piangevano, “Mamma, mamma,”
benché le sorveglianti volessero dare loro delle caramelle per calmarli.
*****
[da Charles Reznikoff (1894-1976), Holocaust, Black Sparrow Press, Santa Barbara 1975(2), p. 113.
La traduzione del libro di cui presento qui un estratto è dedicata ai detenuti di Guantanamo (e chissà quanti altri). a.r.]
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Ho lo stomaco rivoltato.
Non ti dico io. E dovresti vedere la sezione successiva, che si intitola “Svaghi”; ti lascio immaginare. Senza volerla buttare sul patetico, non mi era mai capitato di scoppiare a piangere nel bel mezzo di un lavoro di traduzione.
Terribile. Ma avete fatto benissimo a tradurre e postare. Grazie
Le tue lacrime Andrea sono anche le mie
effeffe
…
L’uomo che da bambino mi raccontava questi orrori, per averli visti e vissuti coi suoi occhi, oggi avrebbe compiuto ottantotto anni. Non c’era modo migliore per onorarne la memoria. Un grazie e un abbraccio a chi con le sue lacrime ha saputo darci un’altra ragione per non dimenticare mai.
(so che di fronte a tanto male sarebbe più rispettoso un nudo silenzio di contemplazione…)
ricordo, ero giovane, che per contratto presentavo ogni giorno i miei numeri al circo.
belve feroci, rese docili dalla frusta, mi accompagnavano; miti ciuchi diventavano per me esperti saltatori equilibristi, e gli agnelli, feroci per obbedienza, si lanciavano belando gli uni contro gli altri e contro la loro stessa natura.
caramelle per tutti, dopo lo spettacolo.
gli applausi non mi erano mai mancati – solo una sera non ebbi orecchie per udirli. gli occhi di un piccolo asino, a terra con una zampa spezzata, erano lucidi di pianto.
gli inservienti lo trascinarono via; non ne seppi più nulla.
ma fu forse da allora che piegare le vite e le volontà degli animali non mi bastò più. gli applausi mi stuccavano, e il lampo di timore e di reverenza in fondo allo sguardo delle mie bestie cessò di lusingarmi.
ero ormai donna, e sola, quando udii finalmente le parole che gli occhi di quella testa nella sabbia mi avevano sussurrato e io non avevo colto.
decisi di mettermi anch’io con coloro che avevano vegliato su quell’asinello-burattino e cominciai quel lavoro che ancora è il mio: stare con i bambini, crescere con loro.
è per questo che a volte mi capita, quando gioco con i bambini, di tendere l’orecchio sperando che qualcuno di loro, o un burattino, mi sussurri il perdono per il mio passato.
poi continuo, forse un po’ pedante, il mio lavoro, affinchè anche per la mia fatica ogni bambino non resti solamente, per tutta la vita, legna da ardere.
(per le lacrime di un mio ‘pezzo d’infanzia’ – che solo in questo momento, e sono senza fiato, mi son trovata sotto gli occhi)
Un pugno in faccia. Avevo letto prima la poesia di FF e il pomeriggio si era ingentilito.
Adesso, all’improvviso, si è levata un’onda di oscurità.
Anch’io un grazie a Raos (per trad.+post).
Mio zio è un amico degli animali, nel senso tecnico del contadino: allevare, ingrassare, mangiare (quest’anno ad es., salami di scrofa vietnamita). Quand’ero piccolo, portò a casa un asinello magro impiccato, giunto chissà come dalla Jugoslavia. La mia più grande soddisfazione consisteva nello scoprire giorno dopo giorno che era intelligente, o comunque non stupido come si diceva in giro. Un giorno venne il macellaio del paese, confabulò con lo zio e: l’asino era ingrassato abbastanza, doveva tornare al proprietario. Mi offersi di portarlo io, e andando gli parlai come spesso succedeva, ma con le lacrime.
Vent’anni dopo a Salina d’inverno partii in acido a “ispezionare” l’isola. Al ritorno, gli amici ridevano stupiti perché ero letteralmente ricoperto di peli. Avevo incontrato un asino. Dell’incontro ricordo molto anche adesso, soprattutto la paura iniziale come davanti o sotto un gigante. Quello che mi è rimasto sempre poco chiaro è come abbia potuto restargli abbracciato per così tante ore.
nonostante non ci siano (forse) più camere a gas,
la morte continua a cercare bambine e bambini
b!
Nunzio Festa
la mia pancia una pentola d’oro
la mia pancia di uova di cenere
una maschera d’odio sciacallo
veglia un lume a petrolio e vendetta
per la concia di pelli un’ ossezia
un asilo. un ossario di latte
ed è quasi un belare d’agnelli
che nel vento risuona.
per il lutto dei padri a banchetto
convitato di pietra e d’ottone
offre in cambio di agnelli un montone.
ero pancia di sangue e di rostro
ero pazza d’orrore. ero mostro.
Ricorda molto lo stile tremendamente asciutto e poeticamente cristallino di “Die Ermittlung” di Weiss, una trascrizione attraverso la lente caustica della poesia di profonde ferite.
Nel 1994, mentre ce ne stavamo qui tranquilli, giustamente occupati nelle nostre faccende, in Bosnia, nell’enclave di Gorazde, cetnici e serbi sgozzavano bambini davanti ai genitori, poi sgozzavano anche i genitori e buttavano i corpi nella Drina.
A centinaia.
Alcuni si mettevano a sventrarli con precisione.
Tutto questo nel 1994.
Poi c’è il Ruanda.
Niente di tutto questo finirà mai finché non si sradicherà del tutto dalla mente umana l’idea di razza, di etnia, di appartenenza, di identità, eccetera.
Nessuno combatte queste idee con efficacia e convinzione, nemmeno a sinistra.
Anzi.
A Raveggi: in effetti il principio compositivo è abbastanza simile a quello del libro di Weiss. In una nota preliminare, Reznikoff scrive:
“Tutto ciò che segue è basato su una pubblicazione del governo degli Stati Uniti, Trials of the Criminals before the Nuremberg Military Tribunal, e sugli atti del processo Eichmann tenutosi a Gerusalemme.”
*
a Tashtego: mi fai venire in mente che già da un po’ vorrei mettere su NI qualche poesia di Senadin Musabegovic, un poeta di Sarajevo. Appena ho tempo.
«Sono cristiano e credente. Sono un poeta e non sono un criminale” dice di sè Radovan Karadzic.
Vi invito però a leggere sulla questione questo articolo di Stanko Cerovic
http://www.scc.rutgers.edu/serbian_digest/135/t135-6.htm
qualche estratto:
I saw many invalids in Sarajevo and people whose psyche has been destroyed by two years of shelling and the terror of sniper fire; I saw documentary films which have been banned from public showing because of the terrible atrocities they have recorded; I’ve listened to stories of undescribable tortures in Foca; I’ve read reports on the rape of little girls before their parents’ eyes and the killing of parents while the children watched; I’ve seen people laughing amidst rubble and corpses; I’ve seen the petrified faces of old women who cannot speak and the weeping faces of men who only wish to understand why…
I read an article on a Serb sniper who has killed over 300 people in Sarajevo since the start of the war. He says he doesn’t know what he’ll do when the war is over, and that his wife and child have left him, and that all he knows is to kill, and that there is no place for him here on this planet anymore. He didn’t hate the people he killed. Before the war he was an athlete and liked women.
I hear that many people have become religious during this war, both among the victims and the killers. I don’t understand that. If I had been religious, I would have become an atheist.
Ho sentito di tanta gente diventata religiosa durante questa guerra, sia tra le vittime che tra i carnefici. Questo non lo capisco. Se fossi stato religioso sarei diventato ateo.
effeffe
ps
scusate per la lunghezza
Leggendo cose come questa (o come “Il Canto del popolo ebraico massacrato”, fatto conoscere su NI da Helena Janeczek) si ha l’impressione che la poesia e la letteratura possano essere ancora indispensabili. Forse il discorso tragico è il solo discorso che conserva qualche possibilità di universalità e di verità.
Mi sembra il caso di approfondire la conoscenza di Reznikoff.
Io ho trovato questo, di Massimo Bocchiola.
Bocchiola non parla espressamente di “Holocaust”, ma il suo pezzo è comunque molto interessante (si tratta dell’introduzione ad alcune poesie di Reznikoff tradotte in italiano dallo stesso Bocchiola).
Da « Poesia » – n. 173 – giugno 2003
Charles Reznikoff
“Casi legali” – a cura di Massimo Bocchiola
Pressoché sconosciuto in Italia, Charles Reznikoff (New York, 1894-1976) ha sofferto a lungo negli Stati Uniti di una mortificante indifferenza critica ed editoriale. A dire il vero, ancor oggi si sente la mancanza delle ristampe di alcune tra le sue opere maggiori; ma almeno, a partire dagli anni Settanta – dopo la pubblicazione da parte di Black Sparrow Press di quasi tutta la sua produzione poetica – è decisamente cresciuto il numero dei cultori di questa voce timbratissima del Novecento americano.
Figlio di due ebrei russi di recente immigrazione, studente di folgorante precocità, laureato in legge ma subito insofferente dell’avvocatura, Reznikoff usò comunque le sue competenze giuridiche lavorando a lungo come ricercatore per una enciclopedia legale.
Ma nel frattempo aveva già deciso che quello che davvero gli interessava era scrivere poesia: e ne scrisse dovunque, e quasi in ogni situazione (sul lavoro, nei negozi).
Negli anni Trenta aderì al movimento oggettivista (con i suoi addentellati di engagement), dando vita con Oppen, Zukofsky e Rakosi alla Objectivist Press e pubblicandovi tre raccolte poetiche. In contrasto con la scarsa diffusione editoriale e l’onorata appartatezza di vita, Reznikoff sprigionò sempre un’intensa attività intellettuale e creativa documentata dai contributi a riviste, in particolare di cultura ebraica.
L’arte di Reznikoff, che interessa anche prosa e teatro (e il cinema: fu sceneggiatore per Hollywood, dove per un certo periodo andò anche a vivere), in poesia produce soprattutto componimenti brevi e brevissimi, dove la poetica oggettivista pone l’autore all’esterno del testo, a guardare, con acuta definizione lirica e scansione precisa e compatta (…).
Tuttavia Reznikoff, anche nelle poesie più asceticamente essenziali, non evoca astrazione, ma racconto. È quindi per converso del tutto naturale che sia anche autore di numerosi poemetti, spesso estesi, in cui vorrei distinguere sommariamente una linea autobiografico / newyorkese e una di scavo nell’ebraicità, fino alla riscrittura in sintesi poetica di narrazioni bibliche o storiche (impossibile non pensare a Giuseppe Flavio […]).
Il rapporto con le origini è comunque complesso, mediato dall’ansia di multipli sradicamenti (cito un breve, bellissimo componimento: “Come trovo difficile l’ebraico / perfino le parole che significano madre, pane, sole / sono straniere. Come sono stato esiliato lontano, Sion”).
Sono approdato al Reznikoff che trovo più incisivo e personale grazie a Paul Auster, mentre traducevo per Einaudi un libro di suoi articoli e prefazioni, “L’arte della fame”, raccomandabilissimo agli appassionati di poesia (per i pezzi su poeti americani da noi quasi ignorati, ma anche per l’intelligenza di osservazioni su Ungaretti, Celan, Jabès…).
Nel breve saggio dedicato a Reznikoff, Auster si sofferma in particolare su “Testimony: The United States (1885/1915) – Recitative”, quasi un canzoniere sulla “banalità del male” americano ispirato alle raccolte di sentenze giurisprudenziali che fanno parte della Common Law. Insomma, casi di tribunale, rinarrati in versi liberi con la magia affabulatoria che per Auster faceva di Reznikoff un grande maestro del racconto orale.
Questi componimenti di varia lunghezza manipolano spesso fulgidamente la dimensione principe del narrare poetico, il tempo (con il verso-segmento a irradiare ellitticità), catalogando i casi per specie straniate, tragicamente ironiche (incidenti domestici e stradali, fatti di sangue, lavoro minorile – i portenti della “civiltà delle macchine” – liti e morti in famiglia, cause civili e penali), andando dal racconto disteso a distillati onirici (…)
L’America o la vita, quindi, come un unico immenso caso giudiziario, crimine sociale ed emotivo.
Saga di morti, horror movie (…); o – se vogliamo – anti-Spoon River soffocata dalla polvere e senza riscatto.
Tuttavia da guardare, raccontare.
avv. Franz Kafka, n. 1883
avv. Charles Reznikoff, n. 1894
Karl Rossmann in USA sarebbe Charles R.. “America”, iniziato nell’estate 1912 e poi mollato, termina in Oklahoma. A Okemah (Oklahoma) nell’estate 1912 nasce Woody Guthrie.
Qualcuno sa cosa significa “Reznikoff”, il cognome del cuginetto americano di FK? (Rossmann = destriero). E cosa faceva di preciso Charles nel 1922-24? grazie
I due volumi di “Testimony”, confermo, sono bellissimi. Grazie Emma,
*Reznikoff = Degli Elastici (come da noi: Degli Esposti)
elastico, agg. e sost.- modo di dire russo: “mi tendo e non mi spezzo” – trasl. gomma da cancellare.*
gentilmente comunicatomi da mia suocera Maria Luigia detta Marilla (ma da me Inceneritore), maggiore di un anno esatto di Karl Rossmann e madre di mia moglie all’età di 49, 5 anni. Usa anche il pc, e mi ha chiesto l’indirizzo di NI. Le ho dato quello di Ubicue: ho fatto bene?