Solo le parole ci salveranno dai fondamentalismi
Rafik Schami: «L’ esilio è una condizione amara ma può anche essere liberatorio»
Lo scrittore Rafik Schami è nato nel 1946 nel quartiere cristiano aramaico di Damasco. Nel 1971 si è rifugiato in esilio in Germania. È appena uscito in libreria «Il lato oscuro dell’ amore» (Garzanti, pagine 858, euro 22)
Intervista di Claudio Magris a Rafik Schami pubblicata sul Corriere della sera del 12 marzo 2006.
Claudio Magris: La globalizzazione cancella alcune identità, ma ne crea altre, accresce diversità e meticciati. Sul piano letterario, incrementa un fenomeno stimolante, già esistente in passato, l’ opera di autori che – in seguito all’ esilio, all’ emigrazione, allo sradicamento – scrivono i loro testi in una lingua diversa da quella materna, come un tempo Joseph Conrad oppure oggi, in Italia, uno scrittore quale Giorgio Pressburger. Rafik Schami, siriano immigrato in Germania all’ inizio degli anni Settanta – è nato nel 1946 -, è divenuto un narratore tedesco di grande successo, anche in Italia, col suo libro Il lato oscuro dell’ amore, tradotto da Rossella Zeni (Garzanti, pp. 858, euro 22). È un affresco epico, un tappeto orientale in cui i fili di innumerevoli destini individuali si intrecciano in un disegno in cui vive il Medio Oriente nel crogiolo delle sue stirpi, religioni e culture. Per uno scrittore la lingua non è solo comunicazione, ma si identifica con la percezione del mondo e l’ ordine che gli si dà; scrivere in tedesco questa storia araba – gli chiedo – implica pure un altro sentimento della realtà? Se l’ avesse scritto in arabo, il libro sarebbe stato diverso?
Rafik Schami: Certo, ma la diversità è di natura complessa, per motivi pratici ed estetici. Non avrei mai potuto pubblicare un simile romanzo in arabo senza finire in prigione o in manicomio, ma anche se l’ avessi scritto, in arabo, in esilio, sarei stato bloccato. L’ esilio è amaro, ma anche liberatorio. Nei Paesi arabi gli autori scrivono sotto un triplice controllo: la dittatura, i fondamentalisti e il clan. In tedesco io scrivo senza riguardi per nessuno e senza chiedere permessi a nessuno, obbedendo solo alla mia storia; il mio stile si basa sulla tradizione del racconto orale e non su quella della narrativa tedesca, dalla quale pure deriva la mia lingua letteraria; per questo mi definisco non uno scrittore tedesco ma di lingua tedesca. La lingua non è il mantello del contenuto, ma la sua pelle, come quella del corpo umano.
C. M.: Il suo romanzo sembra richiamarsi a modelli epici ottocenteschi, a famosi romanzi-fiume che narrano storie di famiglia attraverso le generazioni. Si sente inserito in questo solco del passato oppure questa struttura a mosaico e a intarsio si richiama a una tradizione orientale? Rispetto alla grande narrativa sperimentale che ha rivoluzionato da un secolo il romanzo, non ha in qualche momento il timore di aver scritto una monumentale opera epigonale?
R. S.: Talvolta questo dubbio feroce mi paralizzava; pensi che, due anni prima della sua conclusione, il romanzo aveva raggiunto una misura di duemila pagine e spesso, di notte, una domanda non mi lasciava dormire: chi potrà leggere questo libro? Non sono antiquato? Lavoravo sino all’ esaurimento, di notte, a tagliare e ad accorciare, sottraendo come un ladro ogni frase superflua e sentendomi talora perduto. Mi dicevo che la buona letteratura è senza tempo, ma era solo per combattere l’ angoscia. Ma a guidarmi era più l’ arte orientale e mediterranea del mosaico che il romanzo europeo.
C. M.: Nel suo romanzo ci sono diverse identità religiose – il Cristianesimo cattolico e ortodosso, l’ Islam, l’ Ebraismo – talora pure in conflitto, ma le differenze religiose sembrano irrilevanti rispetto alla cultura araba in cui sono radicate; Cristianesimo e Islamismo contrappongono gli uomini, ma non sembrano incidere sui loro comportamenti, sentimenti, pregiudizi, costumi, che appaiono gli stessi Nella sua saga la famiglia è il centro del mondo; rappresenta un valore o un inferno, come pensava Gide?
R. S.: Un inferno prezioso. La sua impressione sulla vita araba nella mia Damasco è giusta. Come la Trieste dei suoi libri, Damasco è una città aperta e perciò sono persuaso che il cambio di potere avverrà in forme più moderate che a Baghdad. Questa moderazione è una specialità della città come le rollate di pistacchi e la conversione di San Paolo; i conflitti ci sono ma si può convivere con essi. Per duecento anni hanno infuriato i crociati, con le bandiere della religione, ma a Damasco, anche quando era assediata da questi feroci crociati, i cristiani potevano vivere normalmente. Le minoranze godevano di pochi diritti, ma erano protette; la modernità ha tolto loro la protezione, ma non ha aumentato i loro diritti.
C. M.: Lei è cristiano, è stato comunista, è un oppositore del totalitarismo che ha imperato in questi decenni in Siria e l’ ha costretta all’ esilio. Dinanzi allo «scontro di civiltà» e in particolare alle violente reazioni islamiche alle vignette blasfeme, Lei ha parlato di due fondamentalismi, rispettivamente in cravatta e barbuto, e di una strumentalizzazione islamica. Non crede ci sia stata forse anche un’ intenzionale strumentalizzazione occidentale, una deliberata volontà di provocare, con quelle imbecilli vignette, quelle deliranti reazioni?
R. S.: Si possono fare solo delle illazioni; molti segni dicono che le caricature sono state pilotate, ma il motivo della conflittualità tra Oriente e Occidente è un altro. Nei rapporti fra gli intellettuali cristiano-europei e quelli arabo-islamici non funziona niente; non discutiamo fra noi, ma ci guardiamo con sospetto. Perciò queste caricature, da chiunque possano essere state pilotate, sono uno schiaffo alla nostra viltà. Perché gli intellettuali europei non hanno il coraggio di criticare le storture nel mondo islamico, senza offendere il suo profeta? Non è una vergogna il fatto che tutti i governi europei da decenni collaborino con le dittature arabe e abbiano più rafforzato che scalfito il muro del silenzio nei confronti dell’ opposizione in questi Paesi? Perfino una coalizione rosso-verde che ha governato la Germania per sette anni e i cui membri provenivano in gran parte dalla contestazione, ha fatto affari per miliardi con l’ Arabia, ma non ha offerto all’ opposizione né aiuto né dialogo.
C. M.: Lontano da tanti anni dalla sua Damasco, lei l’ ha ricostruita, nel romanzo, strada per strada e pietra su pietra, documentandosi con piante, mappe e guide della città, come faceva Joyce a Trieste con la sua Dublino. Lei si sente lacerato fra i due mondi o li sente armoniosamente fusi nella Sua persona? Si sente in esilio?
R. S.: Per quel che riguarda Trieste, l’ ho conosciuta tramite lei e, le tre volte che l’ ho visitata, mi sono sempre messo sulle tracce delle sue descrizioni. Così ho fatto anche a Roma con Marco Lodoli. Mi sento meno lacerato, perché ho capito che l’ esilio mi ha dato, con la lingua tedesca, una patria meravigliosa, ma ci sono cose di cui sento ogni giorno – e questo da trentacinque anni – la mancanza e la somma di queste cose si chiama Damasco. Perciò il mio nuovo libro si intitola Damasco nel cuore, Germania negli occhi; è una raccolta dei miei saggi in trentacinque anni di esilio. Si vede che divento vecchio e raccolgo le mie vecchie cose. Per questo anche il mio prossimo romanzo – stavolta sarà breve – sarà ambientato a Damasco.
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cosa significa fondamentalismo?
basterebbe leggere per bene l’ultimo rorty per salvarsi da certe cose…