Gli alfabeti dello spazio

di Giorgio Vasta

uncondamneamortsestechappe.jpgFalso inizio

Dal treno, rallentando, oltre il finestrino rigato del mio scompartimento, entrando nella stazione di Zugo, attraverso la parete di vetro di una palazzina moderna (ricorderebbe – ed è probabile che sia una sua diretta discendente, nella concezione vetro-cemento-metallo – la Heidi Weber Haus di Le Corbusier, che sta poco più in là, a Zurigo), vedo, frammentati, scomposti dalle lame strette orizzontali delle tapparelle, ognuno vestito di colori diversi (riconosco il verde, del rosso, del blu), un gruppo di sei sette persone. Sono disposte in un cerchio allungato, un’ellisse, sono leggermente sollevati dalle sedie (tranne che per queste sedie la stanza appare vuota), come si stessero alzando lentamente (proprio al ralenti), tutti insieme. Tengono le braccia sollevate come fossero ali, inarcandosi (questo movimento di inarcamento di spalle e braccia, oltre ad alludere al volo ha anche qualcosa dell’immergersi – sembra di assistere a un tuffo pensoso). Più alto degli altri un uomo biondo, con i baffetti e una lieve peluria sul viso, bionda anch’essa, magro ma solido, si inarca e si innalza sopra i suoi allievi (suppongo siano i suoi allievi, per come guardano, per come restano, nella riproduzione del gesto, qualche millimetro indietro rispetto al maestro), con maggiore compenetrazione, con gli occhi socchiusi, e guarda in alto, estatico: probabilmente è il capostormo di questa nidiata di svizzeri volanti.

Vero inizio

“Mai mancante neve di metà maggio / chi vuoi salvare? / Chi ti ostini a salvare?”: commentando la struttura fonetica del primo verso di un haiku da lui stesso composto, Andrea Zanzotto racconta di avere ricavato l’affiancarsi/inseguirsi di emme e di enne che costituisce l’ossatura e l’andamento ritmico del verso stesso, dall’osservazione del crinale zigzagante (mmnnmm) delle Prealpi venete. La capacità di Zanzotto di vedere e di estrarre scrittura dalla morfologia del territorio (da un territorio percepito come generarsi intersecarsi coagularsi separarsi di segmenti alfabetici – e si consideri che di recente, a proposito delle ondate di piena che hanno travolto strade e campi nel Nord Italia, un giornale ha parlato di modificazioni della “ortografia del territorio”), questa coazione a “sentire” in forma di parole sembra alludere direttamente a una risorsa/condizione comune a ogni fenomeno architettonico, sia esso naturale o artefatto. I luoghi contengono (conservano, trattengono) alfabeto, lo fabbricano, lo limano, lo esprimono, a volte, attraverso uno sguardo.

Approfondimento

La polvere di alfabeti intravisibile nello spazio (nei luoghi) si compone quindi in parole, si compatta in frasi, sorge e dirama a partire dalla forma dei balconi dei palazzi, dalle facciate dei fabbricati industriali, dai gradini delle case nei paesi, dal colonnato fascista delle poste centrali, dalla configurazione degli incroci stradali, dai tunnel delle autostrade illuminati di giallo quando li si percorre di notte. Lo spazio, in tutte le sue manifestazioni, respira scrittura.

Deviazione

Jean Starobinski, commentando le fasi della morte per avvelenamento di Emma Bovary, dà rilievo a un nesso, apparentemente ingenuo, tra l’orribile sapore d’inchiostro che Emma avverte in bocca e il liquido nero che dalla bocca stessa fuoriesce durante la vestizione di Emma cadavere. Il personaggio nutrito di scrittura, raggiunto il culmine del suo destino, esauritosi come fatto narrativo, trabocca inchiostro (a suo modo lo restituisce, indifferenziato nell’emorragia post-mortem, adesso inorganico). Madame Bovary contiene inchiostro. L’inchiostro è il materiale della frase. Madame Bovary contiene frasi (quelle sbagliate, evidentemente). E spingendo oltre questo già rischiosissimo sillogismo, Madame Bovary è contenuta nelle frasi (che la contengono). Allo stesso modo, le frasi trattengono al loro interno le forme e i materiali della narrazione.

Chiarimento I

Occorre precisare cosa si intende per ‘frase’ (cosa è possibile intendere): ‘frase’, qui non vuole semplicemente riferirsi a un’“unità linguistica indipendente e di senso compiuto”, quanto piuttosto a un materiale concreto (concreto nella concretezza dell’immaginazione), “reale”, persino tangibile, dotato di un suo specifico spessore. Non sembra, ma la frase non sta incollata sulla pagina, assorbita nella carta: la frase, in realtà (ancora mi riferisco a una realtà dell’immaginazione), è soltanto appoggiata, “deposta”. Qui, quello che mi interessa non è però tanto un discorso sull’idea di frase come organizzazione plastica della percezione – organizzazione “esterna” – quella frase che, provando a rappresentarla attraverso una misura di fil di ferro, procede per angoli, pieghe, spiegazzature, concavità e convessità, gobbe e dossi o improvvise squadrature – la frase che si aggroviglia nel nodo logico di Faulkner (il Faulkner dell’Urlo e il furore), che si allunga morbidissima nelle volute di fumo spesso e largo, estenuato, del periodo proustiano, o che si spezzetta in frammenti di scheletro animale, asciutti, leggermente ruvidi al tatto, nei movimenti brevi della frase carveriana. Quello che della frase voglio raccontare, mettere in scena, è il suo possedere un interno, un dentro, composto di pieni e di vuoti, di materiali e di architetture, differente da frase a frase, da autore a autore – un “interno” che è quanto di una frase si vedrebbe se la si spezzasse in due, perpendicolarmente o longitudinalmente, e se ne osservasse la sezione. E per fare questo occorre una immaginazione disponibile, occorre essere disponibili all’immaginazione.

Immaginazione

Così come guardando il tronco di un albero in sezione è possibile dedurne l’età e la vicenda e lo stato di salute – un’infezione della linfa di dieci anni prima o l’improvviso rachitismo successivo a siccità della stagione appena passata (ed è probabile che il siliquastro di Giuda racconterebbe una storia sensibilmente diversa da quella di un abete natalizio…) – è bello (e può risultare utile) immaginare che cosa si vedrebbe osservando la sezione trasversale di una frase: graffiature infantili della sintassi, macchie d’umido del lessico, solcature superficiali irregolari della fonetica, venature dialettali, lesioni obbligate dell’ortografia (immagino anche una specie di microtomo linguistico in grado di realizzare sezioni trasversali della frase, come si fa per un tessuto che si vuole sottoporre a esame istologico).

Chiarimento II

La frase è una percezione, il modo in cui lo sguardo (si consideri che ‘sguardo’ è qui un termine che congloba, almeno, ancora, ‘immaginazione’) si trasforma in lingua. È una percezione – quella di chi la frase scrive o pronuncia – che si rende disponibile a un’altra percezione – quella di chi la frase legge o ascolta. L’architettura è, a sua volta, una percezione, il modo in cui lo sguardo si trasforma in spazio. Anche in questo caso si ha a che fare con una percezione (e con una progettazione, quella di chi “congegna” un luogo) dello spazio che dialoga, si rivolge, cade dentro a un’altra percezione dello spazio – quella di chi quello spazio abiterà, di chi lo “consumerà”.

Obiezione

Però (e vale da obiezione, da contrasto, precisazione e conseguente sviluppo del discorso): “Pensare all’architettura come Spazio mi pare riduttivo. È solo una delle sue manifestazioni, forse neppure la più significativa” (Pierantoni). La sala d’aspetto di una stazione (quella di Domodossola, ad esempio, mi pare sia così) attraversata da correnti d’aria di forma e intensità quadrangolare, ritagliate dalle cornici delle porte, munita di lunghi sedili di legno, come dei divani da tortura, smussati, screpolati, i disegni che traccio con la punta della scarpa sul pavimento cosparso di segatura asciugapioggia, il riflesso dei neon sulle maniglie metalliche delle valige, sugli stivali di pelle, sulle facce dei viaggiatori seduti in attesa, a gambe incrociate, addormentati, il mescolarsi dell’aria davanti alle loro labbra, nella respirazione. “Forse l’acqua quando commenta le forme immobili fa ricordare tutto quel viluppo di sensazioni e percezioni che è la vera realtà di ogni architettura: lo star lì e il saperlo. Estende l’oggetto architettonico con il ricordarti che esso è sostanzialmente tempo del vivere cosciente” (Pierantoni).

Così

L’interno di una frase è invisibilmente ma ininterrottamente attraversato da connessioni metalliche, è forato da strutture vetrose tubolari, solcato verticalmente da ascensori, da grondaie, da canne fumarie, è puntellato da un sistema di travi interne, è corredato di piccoli impianti di riscaldamento e di refrigerazione, è separato da corridoi, da tramezzi, da sottopassaggi, da sotterranei, da muri di laterizio, è punteggiato di cantine e di solai, di pianerottoli e di corrimano, di atri, di file di colonne, è addirittura percorso da ponti di corda sospesi, da liane vegetali, è riparato da pareti di vetro smerigliato o trasparente, è ricoperto da embrici, da tegole, da balle di paglia; ogni frase ha tetti a padiglione, a cupola, a due o tre acque, a volta o a piramide, è sormontato da guglie, da abbaini, da banderuole, da pinnacoli, mescola al proprio interno legno plastica metallo cemento, può essere ariosa, coibentata, sporchissima, signorile, intonacata, ristrutturata. Può essere propria. E dentro ogni frase, osservando attraverso un lucernario, si scorge un omino che cammina (ovvero, la frase è abitata).

In sostanza (oppure, Io penso che)

Un condannato a morte è fuggito di Robert Bresson è un film che racconta la fuga di un uomo dallo spazio (lo spazio della detenzione, la prigione, dallo spazio avvertito come prigione). Non è necessariamente risorsa delle sensibilità più estreme quella, appunto, di percepire lo spazio (anche quello più “spazioso”) come imprigionamento, clausura, impossibilità di abitare altro che lo spazio stesso. È piuttosto una condizione (uno stato d’animo) sperimentabile da chiunque, anche raramente, inconsapevolmente, in modo laterale, uno spaesamento suscitato dall’essere immersi, conficcati nello spazio, dal rendersi conto che fuori di quello c’è sempre e soltanto quello. Parallelamente, chi scrive è esposto al rischio di “sentire” il linguaggio come un ergastolo e la frase come il luogo della detenzione – obbligato, inevitabile. Ci si muove da una frase all’altra (una strana forma di nomadismo), se ne osservano le pareti cercando un passaggio o almeno un locus minoris resistentiae ma il destino di chi abita la frase (e la si abita attraverso la lettura e, in modo diverso, attraverso la scrittura) è il permanere, il restare dentro (e provo a immaginare che nel corso del tempo gli scrittori abbiano cercato di costruire frasi che fossero, almeno in un punto, sempre più sottili, vulnerabili, esfoliate, che spalancassero all’improvviso un varco tramite il quale l’omino prigioniero potesse evadere dalla frase stessa – e immagino anche una storia della letteratura scritta dal punto di vista della maggiore o minore vulnerabilità delle frasi create da ogni scrittore, della possibilità di andarsene via dalla scrittura).

Fughe

La fuga del condannato di Bresson è fabbricata lentamente, ininterrottamente, con le mani, annodando, spezzando, scucendo, limando (nello stesso modo in cui si scrive, nello stesso modo in cui si “architetta”). Il condannato di Bresson, che lotta con l’architettura della prigione, è l’architetto della prigione. Ogni uomo che lotta con lo spazio (che lotta con la frase), che lo interroga, lo provoca, lo forza, lo invade con il suo corpo umano, sta giocando il gioco dell’architettura (della scrittura). La fuga è dunque un piccolo sogno laddove l’architettura (la frase) è l’incubo. Ambizione della scrittura sembra essere quindi (anche) quella di superarsi, di abolirsi, fare a meno di sé. L’architettura è fuga dallo spazio, la scrittura è fuga dalla frase.

Conclusione (vera e falsa)

All’uomo biondo, con i baffetti e una lieve peluria sul viso, anch’essa bionda, magro ma solido, è sembrato di intuire, lì in alto, un varco, un passaggio verso l’esterno, fuori dall’architettura – e dall’architettura della frase che lo contiene. L’uomo biondo sta simulando il volo, lo sta mimando, sta costruendo un’illusione (e sta facendo un’allusione, verso l’esterno, verso il fuori, verso quello che non è spazio [?], che non è frase [?]). Forse l’uomo biondo ignora (forse è solo un presentimento) che ogni frase è sempre protetta almeno da un velo di vetro che permette l’illusione dell’esterno ma non cede e trattiene all’interno. Il varco è schermato, inattraversabile. L’uomo biondo ignora (e presentisce) che il suo sogno icaresco si concluderà con un urto più o meno violento, con un cozzare. Ma a noi continua a persuadere una scrittura che sia contemplazione della ragnatela di crepe sul tetto vetrato della frase.

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Pubblicato su Versodove. Rivista di Letteratura, n. 13, nel dicembre del 2001.
Le citazioni sono tratte da: Ruggero Pierantoni, Verità a bassissima definizione. Critica e percezione del quotidiano, Einaudi 1998.

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