Prigioni
di Christian Delorenzo
Posso pure sorridere e scherzare
con gli amici, ascoltare le persone
(quasi sempre per finta), dispensare
consigli e comportarmi da coglione.
Posso pure convincermi di stare
bene e vivere, amare con passione
(e con passione odiare), essere un mare
in tempesta e attirare l’attenzione.
Posso persino fare capriole
e strani versi, e fingere di essere
felice tra i miei stracci di parole.
Ma provo sempre quel sordo malessere
che non so definire: sembra un sole
di cenere nel fondo del mio essere,
un girasole immobile
che brucia al vento delle mie preghiere
nel fondo più profondo del mio essere.
*
Lettera al padre
Una vetta sul punto di franare:
tu sei questo per me. Pur nell’assenza
sento ancora le tue parole amare
e aguzze infrangersi sul corpo senza
pelle e la stretta dell’indifferenza
strozzare, con la collera del mare
livido, l’anima. La mia speranza
vana fu che tu mi sapessi amare,
che udissi il mio grido sommerso, il tuono
del mio silenzio. Ora il mio tormento
invoca solamente il tuo perdono
perché quest’odio, che nel cuore sento,
somiglia al volto cieco dell’amore
come un figlio somiglia al genitore.
*
Mi sembra a volte di non esser vivo:
come il bambino che si alza nel cuore
del buio e non sa dire se il furtivo
sonno lo avvolga ancora o se il dolore
del risveglio gli strisci addosso, io vivo
senza sapere bene se il mio cuore
batte davvero o se è solo un lascivo
miraggio, un breve incubo, un rumore.
Forse sono il vampiro di me stesso:
forse sono il mio pallido riflesso
che, ribellandosi ad ogni mio gesto,
mi fissa col suo occhio torvo e mesto
mentre consumo gli anni nello scrivere
e con gioia dimentico di vivere.
*
Ridatemi gli occhi, per favore.
Ridatemi lo sguardo che può vedere gli alberi
danzare come spiriti nel cuore
buio del bosco: voglio ammirare le albe
infrangersi sull’acqua con la lieve
gravità delle foglie, le fronde disegnare
sinfonie d’ombre nell’aria, e la neve
posarsi sulle palpebre trasparenti del mare.
Il buio mi ha strappato via le iridi
come il bambino stacca le zampe a una formica;
la luce è sprofondata nello spirito,
palude di pensieri, con la violenza d’Icaro.
Ridatemi gli occhi che ho perduto:
ridatemi lo sguardo che non ho mai avuto.
*
Quando tento di dare una figura
tangibile alla liquida ombra della
morte, immagino che sarà una stella
cadente: il buio invidioso e la scura
luna la strapperanno senza cura
dal cielo, e poi precipiterà nella
valle del mio petto. Sarà una cella
senza catene né sbarre né mura,
ma talmente opprimente e soffocante
da togliere il respiro. Sarà una
flautista che, suonando un motivetto
ebbro di gioia all’ombra della luna,
succhierà anima e vita da ogni oggetto
sfiorato dal suo occhio di diamante.
*
Le lucciole
Fanno danzare le fiamme nel loro
grembo di luce azzurra per stregare
gli occhi rapaci: sono gocce d’oro
che vivono una notte, fate chiare
ed eteree che volano sul mondo
senza lasciare impronte, tristi stelle
che annegano nel cielo più profondo.
*
Su una fotografia tratta da “Le premier pornographe”
Stesi sulla paglia
sbiadita d’una foto, si stringono
con dolcezza
inconsapevole.
Lei
ha il corpo nudo e spalancato, airone in volo,
e accarezza, con la grazia di chi coglie un fiore,
la virilità acerba e turgida
di lui,
che le sfiora con timore i seni pallidi come
se involontariamente
le potesse fare male.
Senza fiatare si guardano e si amano,
liberi come cani senza il collare.
*
Per darti almeno un suono (da invocare
durante la tua assenza), frugherei,
come una volpe famelica, nei
rifugi delle immagini più rare.
Nel cuore nero della caccia, il mare
delle tue larghe pupille e i tuoi nèi,
lucciole d’ambra, sarebbero i miei
fari, i miei fuochi fatui tra ombre amare.
Scoperta poi la terra del tuo nome,
farei sgorgare dal suo inchiostro il fiore
di un mondo nuovo, un albero lucente.
Eppur non saprei come… non so come
dire (come dirti?) semplicemente
che io ti amo e che tu sei l’amore.
*
Epitaffio (o al lettore postmoderno)
Non so che cosa ho detto fino ad ora:
un demone sfuggente e multiforme
ha usato la mia voce e mi ha strappato
l’anima con l’ingenua crudeltà
di un bimbo che, per gioco o per scoperta,
stacca ridendo le ali a una farfalla.
D’altro canto, anche se io lo sapessi,
tu, ipocrita lettore, vi potresti
ravvisare un’infinità di sensi.
Perché dunque, mi chiedo, andare oltre?
Depongo qui la penna, spada stanca
di lottare con le parole. Lascio
l’onore a te d’immaginare ciò
che la tua lingua non saprà mai dire.
*
Christian Delorenzo è nato il 14 novembre 1982 a Genova. Attualmente iscritto al terzo anno del dottorato DESE in Letterature europee (Università di Bologna), sta svolgendo un periodo formativo presso la redazione di Rizzoli Saggistica.
“I sonetti sono tratti da una raccolta iniziata nel 2008 e non ancora conclusa, il cui titolo è Prigioni. Il sonetto non è considerato come una norma chiusa, ma come una forma plastica che può assumere svariati aspetti (dalle strutture tradizionali all’assenza di rime, dai versi liberi alla prosa). Ho da poco finito un romanzo-prosimetro (Amare ombre) e traduco in versi dal francese e dall’inglese.”
Belle.
intense e profonde…poesie molto comunicative…
E ‘ una poesia che brilla all’oscurità del cuore,
un bambino pare e chiede al padre dell’amore
e dell’odio, in una voce che vince la paura di
essere il rifletto del genitore, come la vita reale
dentro la scritture per svelare il sentimento
sonno vegliod ell’assente al suo propio cuore.
Gli occhi del poeta sono velati dalle luciole
che si vedono solo nella frontiera della visibilità.
L’occhio è nel centro della poesia.
Ho amato le premier pornographe
che traffige l’immagine dell’airone
come simbolo della virilità offerta
quasi divina, ritrovando la poesia antica.
Grazie Andrea per il post.
soono veglia dell’assenza al suo propio cuore
sono veglia dell’assenza al suo propio cuore
Grazie a tutti e tre!
Lunga vita a chi ha tanto amore per il sonetto, più che ottocentennale forma aurea del dire per immagini. Bravo Delorenzo, insisti. L’ho sempre pensato e sperimentato, il sonetto , paradossalmente, non è una “forma chiusa”, o meglio, quale forma chiusa si apre ed è aperta ancora a infinite possibilità. Lo dimostra il fatto che, dopo ottocento e più anni, continua ad affascinare, come una bella donna. Delle cose qui proposte mi piace anche il “non soffrire” la forma chiusa, quel naturale fondersi di ispirazione e metro, di contenuto e ritmo. Ti consiglierei di lavorare ancora a compattare il metro, per rendere ancor più fluido il ritmo, hai talento e stoffa per fare ancora meglio. Tutto questo lo dico cosi’, al volo, di prima lettura. Alle prossime.
Se ti interessa, vai a qualche post più sotto, a quello di Andrea Inglese, “Ad alcuni poeti & affini nell’Italia dei malori”, al commento n.186 trovi sei miei sonetti di tutt’altro stampo e contenuto, ( non belli come i tuoi). E’ un paio d’anni che vado studiando questa forma e ne ho sfornato un duecentosessanta circa, la gran parte sono esercizi, credo, ma chissà, forse qualcuno si salva.
“Ridatemi lo sguardo che non ho mai avuto”. Forse è qui la chiave principale di queste poesie. Alcune davvero buone.
belle tutte
(le lucciole è splendida)
@Salvatore: Ti ringrazio per le tue parole e per l’incoraggiamento. Non sono però riuscito a trovare i tuoi sonetti. Quanto alla forma chiusa, sono completamente d’accordo. Secondo me, in poesia esistono ben poche forme chiuse. Il sonetto, in particolare, lascia una libertà molto grande. E se per secoli è stato così battuto (e lo è ancora oggi) è proprio perché si tratta di una forma plastica, una strana prigione-non prigione.
@Carlo: Grazie! Il verso che sottolinei riassume in effetti molto del mio rapporto con la forma e di quello che per me significa fare poesia.
@Natalia: Grazie!
Te li ricopio qui, col copia & incolla, scusandomi con gli altri lettori per l’invasione.
Salvatore D’Angelo
Pubblicato 13 Dicembre 2009 alle 20:58 | Permalink
SEI SONETTI NON OT FORSE,
A MO’ DI COMMENTO
DELLA DISCUSSIONE
1. (ai lettori di Libero, e a chi vi scrive)
Qui, noi che abbiamo visto il mare,
tiriamo un sospiro di sollievo,
guardiam’il cielo, ci lasciam’andare.
Basta con gl’affanni, nessun rilievo
all’orizzonte! Che siano altri
a darsi pena! E nessun inganno
ad personam né lodo degli scaltri
servitor di corte farà più danno!..
Pompieri, soubrettes e ragli d’asino :
l’orchestra del Magnifico Cartaro
è a regime pieno, che bàstino
per tutti i peti suoi da ricottaro.
Noi saremo qui, sedutï a riva,
a guardar le carogne alla deriva..
2. (a Marco Saya)
Il tramonto li coglie di sorpresa;
l’accompagna nella notte la luce
blu dei televisori, che l’induce
ad affrettare il passo. Qual ’intesa
spinge la vela al porto, in discesa,
come quella regata che produce
vento di bolina e li seduce
a occhi chiusi, o a mano tesa?
Straniero, apripista o corruttore,
il mare dei realities – borgata
immensa ridondante di colore –
è l’ombra che n ‘ ottunde ogni sapore.
Là cercano le stelle, è vellutata
la via dei ciechi, e non fa rumore..
3. (ad Andrea Cortellessa)
Il viaggio verso elevati traguardi
non è mai iniziato..lo psicomago
dispensa placebo oltre gli sguardi
di scetticismo…ma è com’un lago
alpino lo specchio del disincanto
che lo circonda..un ball’in maschera
che non dà più tregua ed è in pianto
Madame Sosostris in capo alla schiera
degli officianti a Pound ed Artaud..
Altri dan fuoco alle ideologie
ridono cantano bevendo pernod
martirio di crucifige e bugie..
Eccola dunque la vera partenza
È un delirio di sopravvivenza…
4. ( ad Andrea Inglese, con simpatia)
Forse domani i poeti diranno
che non abbiamo cantato la grazia
che imprecammo alla vita…sazia
la voce dei perché…senza più danno..
Forse diranno che d’un solo panno
non si veste la luce – oro che strazia
le nubi oltre il cielo ove spazia
l’arcobaleno – ma vi si confanno
molteplici spettri sotto il sereno.
Ora la ruggine brucia la rosa
nella fredda sponda del fiume in piena..
Diranno che non provammo più pena
per i perdenti per chi non riposa..
ma quella grazia fu puro veleno!..
5. ( a Francesco Forlani)
Il mare lava ogni storia memoria
ossessione mutamento… le onde
fermentano l’inflazione confonde
le menti un campo minato scoria
è la morte che ci riguarda boria
di corrotta politica… diffonde
mappe per lettori smarriti onde
bloccare mettere in fuga la storia..
Le chiavi del tempo cìngon d’assedio
le cale nascoste e lo sterminio
dei tonni nella rete epicedio
senza defunti: ecco è il tedio
d’un paese senza volto carminio
che cola sul lento stato d’assedio.
6. a tutti noi indiani della riserva
(sonetto variabile )
S’azzuffano i poeti s’azzannano
fratelli clandestini! S’affannano
a dir d’un mondo cui nessuno presta
fede qui nel trambusto della festa.
E tutti gridano!…ma che ci resta
del vino e del banchetto?! La cesta
è vuota del pane e dell’ affanno
l’angoscia è un ghigno e non fa danno.
Che sappiamo –noi- oggi della morte?*
Ma nessuno presta ascolto. Il morto
lo piangono i poeti – e a torto.
Il pesce e la fanciulla..lo sconforto
che li culla è quell’ oscuro/azzurro** porto
ove fluisce l’altrui – e nostra – sorte.
* da “Oggetti e argomenti per una disperazione”
Da Lezioni di fisica e Fecaloro(1964) di Elio Pagliarani
** a chi legge scegliere la variante che preferisce, o magari lasciarvele entrambe.
S.D.A.
e, si capisce, absit iniuria” narcisismis”.
Sono nati in altre circostanze e portano dediche occasionali, in quanto s’adattavano ad alcuni spunti d’intervento delle persone citate da quel post di Andrea Inglese.
Non credo siano gran cosa, però m’interessa il modo in cui la “forma sonetto” si adatta a qualsiasi registro e/o soluzione ritmica e metrica e circostanza. Ennesima prova della sua assoluta duttilità ed apertura.
Belle e maledette come sempre.
Ne hai fatta di strada da quando hai iniziato a scrivere(cioè da quando hai imparato a tenere la penna in mano,penso.)
Ho avuto l’onore di avere qualcuna delle tue prime poesie..sempre belle,ma diverse.
Ma la tua anima malinconica e randagia resta sempre..!
Complimenti.Ti meriti il successo che ti spetta.
ps: voglio leggere il tuo romanzo!Lo trovo nelle librerie?
e voglio l’autografo,eh!
un abbraccio.
Caro Salvatore, i tuoi testi mostrano in effetti che il sonetto si può adattare a realtà completamente diverse. Nel Cinquecento dicevano non a caso che il sonetto fosse l’epigramma perfetto, la forma che si adatta a ogni occasione…
che udissi il mio grido sommerso, il tuono
del mio silenzio. Ora il mio tormento
invoca solamente il tuo perdono
perché quest’odio, che nel cuore sento,
somiglia al volto cieco dell’amore
come un figlio somiglia al genitore.
Solo per citare versi che mi hanno commossa, che sento vivi.
Come tutto il resto, del resto far pulsare una poesia significa essere poeti.
Sono contenta di conoscerti.
Complimenti, continua ad alimentare il fuoco che hai dentro
@Sabrina e Chiara: grazie per le belle parole. Siete troppo gentili… :-)
Molto belle, curate ed espressive al tempo stesso. Un equilibrio che ammiro davvero.
Francesco t.
Ti ringrazio, Francesco.
E l’ultimo sonetto è stupendo.
G.
Ti ringrazio tanto, Gemma.
bravo, complimenti.
Grazie, caro Franz!
Caro Christian, se vai sul mio blog http://acapofitto.splinder.com, vi trovi postato qualcosa che ti riguarda. Mandami un messaggio quando “Prigioni” sarà disponibile in libreria. Anche “Amare ombre”, naturalmente.
Anche oggi sei postato sul mio blog. Se vuoi, puoi mandare altri sonetti da postare; a questa mail : saldan@libero.it
Caro Salvatore, ho visto: grazie, sei davvero gentile! Sicuramente ti manderò altri sonetti. Quanto a Lucciole in realtà non è un madrigaletto: hai fatto bene a interpretarlo così, e forse decontestualizzato non si capisce. Ma c’è un altro semisonetto, in un’altra parte della raccolta, che ha la stessa lunghezza e le stesse rime. Insomma, è la metà di un sonetto che idealmente si compone di due semisonetti quartina+terzina, hihihi… Un abbraccio e grazie ancora!