I gialli stanno arrivando
di Andrea Inglese
Ero accartocciato in via De Castilla, un braccio infilato tra le sbarre di un cancello e la guancia aderente all’asfalto tiepido. Mi guardavo una scarpa. Uno spettacolo assai desolante.
La scarpa era vecchia, di pelle sgualcita, opaca, graffiata sulla punta. Le stringhe erano consumate dal continuo sfregamento contro gli anellini metallici. Ero stranamente allegro. Anche perché da qualche minuto campeggiava di fronte a me una bambina in bicicletta. Non aveva più di cinque o sei anni. La bicicletta sembrava un giocattolo. Eppure entrambe si stagliavano massicce nell’aria, come scolpite in un materiale pesante e perenne. Io meditavo una frase gentile, ma temevo che per parecchi minuti non sarebbe uscito alcun suono dalla mia bocca. Fu allora che la bambina cominciò a cantare: “Los amarillos ya estarán llegando, los amarillos ya estarán llegando”. A dire il vero, gridava più che cantare. Come in uno stato di trans. Io cercavo di capire se mi stesse guardando negli occhi, se insomma quella faccenda mi riguardasse. Forse si trattava di un piccolo oracolo femminile e nella sua cantilena astrusa si nascondeva il segreto del mio destino. Ma un raggio di sole, battendomi sugli occhi, disintegrava i lineamenti della bambina. Vedevo il volto, ma un punto cieco mi impediva di scorgerne la bocca e gli occhi. Mi spazientii. “Los amarillos sto’ cazzo! Basta! Vattene via!” D’altra parte, sono convinto che gli oracoli non vadano trattati troppo bene. Soprattutto non bisogna mostrare di averli riconosciuti. Ci sono oracoli pestiferi che, se riconosciuti, mutano all’ultimo momento il contenuto della loro profezia. Per puro dispetto. Chi può infatti punire un oracolo? Certificare della sua inefficienza o addirittura perfidia? A chi si dovrebbe rivolgere l’oracolato per denunciare il danno dell’oracolante? La bimba era tracotante. Non cessava di urlare. E non si era mossa di un millimetro. Forse dopotutto la faccenda non mi riguardava affatto. Venissero pure i gialli e si disponessero un po’ come volevano, alla buona. Di spazio in via De Castillia ce n’era a sufficienza. Mi misi anch’io a fare eco alle sue grida, dapprima mentalmente e infine anche in forma sonora. “Los amarillos ya estarán llegando!” Ero divenuto d’un tratto impaziente. Volevo un cambio di scena. Una conclusione spettacolare. Ma questi gialli, chi potevano essere? Una minaccia? Gentaglia del quartiere cinese? Una banda di cucitori clandestini di Paolo Sarpi, scesi con i coltelli per le strade e poi risaliti a gruppi sparsi verso l’Isola, correndo lungo il ponte che scavalca la stazione Garibaldi? Oppure erano i girasoli del Van Gogh che le picchiavano dentro la testa, alla piccola? Acidissimi e roventi girasoli, che roteavano dietro quella fronte fragile e battevano nello spugnoso cervello con petali di ferro? Era dunque solo una precocissima sbroccata e rompipalle? Non potevo certo darle corda, fare con lei coro e compiacerla nel suo divario psichico. Adottai un metodo violento. Mi addormentai.
Come mi succede spesso, dormo poco, ma così intensamente che quando mi risveglio non mi ricordo neppure più chi sono. Il mio sonno è come un’evacuazione, un dormire letale. E infatti non mi ricordavo di essermi assopito in una cucina, con la faccia poggiata su di un tavolo ingombro di stoviglie e tovaglioli. Né mi ricordavo di indossare una cravatta così elegante e delle scarpe di vernice nere. Invece sotto il tavolo scivolavano su e giù sul pavimento, in una falsa pedalata, le due lucidissime scarpe che calzavo. Mi preoccupai persino che potessero lasciare scie di vernice fresca sul piastrellato chiaro. Non accadde nulla di così spiacevole. Dunque accolsi con un gesto di cortesia il caffè che mi veniva servito e mi concentrai sul suo profumo eccitante. Assunsi forse un’aria beata. “Ma che t’atteggi, che t’atteggi, managgia a’ muorte!” Mi gridò immediatamente un tizio, che sapevo chiamarsi Punzo, infilandosi il bordo della mano destra in bocca, con il palmo rivolto verso l’altro, e mordendoselo. Non riuscivo a capire se stesse scherzando oppure fosse davvero arrabbiato. Era stato proprio lui a servirmi la tazza di caffè. Dovevo guadagnare tempo per trarmi da quell’impaccio senza peggiorare la mia situazione. “Non ti piacciono le mie nuove scarpe?” provai a dire. “Ma va fa’ mocca!” mi rispose lui secco. Era un napoletano, evidentemente. E molto aggressivo. Indossava una vestaglia gialla, che quasi lo confondeva con la parete, anch’essa gialla per un raggio di sole che si diffondeva come un piccolo incendio, riflesso dalla superficie di legno chiaro in cui era incastonato l’acquaio. “Senti” gli dissi “se ti urto a tal punto, è meglio che me ne vada.” Lo dissi con un tono conciliante, ma nel contempo mi ero alzato in modo risoluto. Pensavo che questa condotta ambigua l’avrebbe disorientato e un po’ calmato. Non fu così. Togliendosi la mano dai denti, gridò: “E vattìnne omm’emmerda.” Si girò di schiena e se ne andò lui, trascinando i piedi in un’altra stanza.
Rimasi fermo come un allocco in mezzo alla cucina, senza risolvermi a fare qualcosa. In un certo senso, la mia reazione era stata efficace, ma non si trattava di una strategia di lunga durata. Ora dovevo inventarmi qualcosa di nuovo. Una giovane donna comparve sulla porta della cucina. Era bionda e aveva i fianchi come scolpiti nella pietra. I seni di porfido. Li sentivo compatti, minerali, sotto il cotone giallo della maglia. Reso audace da questo diversivo erotico, mi balenò un’idea. “Mi chiami un taxi” le dissi “torno in via De Castilla”. Era ora che tornassi a casa. Là da dove ero partito.
La risposta della bionda mi sorprese appena: “Il taxi ti sta già aspettando da basso, datti una mossa!”. Tentai di stringerle la mano, ma lei si ritrasse con fastidio. Davvero incazzato mi precipitai fuori dall’appartamento e poi giù per le scale battendo i piedi come un forsennato. Avevo capito il loro gioco. Erano dei napoletani. Di sicuro si erano accordati con il taxista. Li conosco io i napoletani. Vedi un registratore stereo bello che costa poco. Lo paghi, te lo mettono nello scatola. Arrivi a casa, e ci trovi dentro un mattone. Oppure hai voglia di comprarti un babà e non hai soldi in tasca. Ti sposti verso il primo sportello bancomat. Infili la carta e digiti il codice giusto. Compare una scritta: “Si è verificato un errore di tipo Ebb-Y, pregasi ritirare la sua carta presso la sua agenzia”. Te ne vai smadonnando contro il blocco militar-industriale. Cerchi di contattare la tua agenzia. Loro non ne sanno nulla. Torni allo sportello bancomat, ma è stato smontato un quarto d’ora prima. Era infatti di polistirolo. E c’era un piccolo sciuscià chinato dentro. Così funziona a Napoli. Non esiste quel senso di responsabilità diffuso, quasi capillare, che caratterizza noi popoli nordici, discendenti dei longobardi. Quindi avranno fatto una combina con il taxista. Io gli dirò “Alla stazione delle ferrovie statali!” e lui annuirà, virando verso Formia, e poi a zigozago tornerà verso il centro. Simulerà un malore e accosterà di lato, buttandosi con le braccia a croce di Sant’Andrea sul volante e la faccia sulle braccia. Ma non staccherà il tassametro. Accuserà un attacco di labirintite. “E io non pago, e io non pago”, cominciai a gridare, uscendo dal portone del palazzo.
Non c’era nessun taxi. Solo una vecchia, con le calze nere, lo scialle nero, la maglia nera e la gonna nera. Aveva per fortuna i capelli grigi. Mi scrutava con occhi fessurati. Tutta orgogliosa delle sue duemila rughe. Della sua mano tremante sul bastone. Delle gambe divaricate, per non perdere l’equilibrio. Dei pochi denti che affioravano dalle quasi labbra. Dopo tanto orgoglio, fissandomi mentre la fissavo, mi disse: “Non paga?” Risposi alla provocazione: “Ha capito benissimo, signora, non pago!” “Le tasse?” mi incalzò ancora. “Il tassi.” “Fa bene lei che è giovane, può ben andare a piedi, che si conserva la salute.” “Esattamente.”
Ma arrivò il taxi in un osceno bagliore, sollevando polvere e diffondendo un odore di capra. Ecco, le vertigini del basso mediterraneo cominciavano a conquistarmi. Non volevo cedere facilmente. Posai la mano destra sul polso sinistro e fissai l’ora, compresa di minuti e secondi, nel quadrantino al quarzo dell’orologio. Respirai con calma. La tecnologia era la mia ultima boa. Diradata la nube, il taxi si disvelò in tutta la sua africanitudine. La carrozzeria era di un giallo ridipinto infinite volte, un giallo a macchia di leopardo su gialli anteriori, precedenti, atavici. Il nero pulsava minaccioso sui fianchi, intorno alla ruote, e sul tetto. Anche il nero era stato più volte dipinto e liberava nell’aria, ad intervalli regolari, una polvere sottile, una fuliggine. Ma la fibra dell’auto, l’armatura metallica, era il vero capolavoro: scartavetrata, randellata, crivellata in ogni minimo centimetro. Una superficie devastata minutamente e altrettanto minutamente ricucita, saldata, stuccata. Si percepivano organi motori congestionati, arrochiti da ruggini e intasamenti, che tossivano sotto il cofano, sbilencamente fissato con dei laccioli di cuoio. I fari mi guardavano fessi, con le orbite vuote, senza copertura e luci interne. Il parabrezza era una ragnatela di crepe, attraverso cui era impossibile scorgere la sagoma del conducente. Ad un tratto la portiera si aprì, come sotto una pressione rabbiosa, sganciando a terra piccoli frammenti di ferro. Una voce affiorava. Calma e impudente. Mi chinai sull’interno della carcassa. Al volante c’era un negro. Ci mancava anche questa.
Mi raddrizzai di scatto, cercando intorno a me personaggi indaffarati, che con occhiali da sole filavano nel futuro, stringendo una samsonite nella mano. Cercai uomini abbronzati, dalle camice blu, intenti a parlare nei cellulari, ciondolando sul posto. Ma alle mie spalle c’era la vecchia. Di fronte il relitto ridipinto. Intorno un anello di sabbia che girava ad un metro da terra con estrema lentezza. La vertigine del mediterraneo basso. E forse oltre, più giù ancora, in uno scivolamento antropologico inquietante. Come avrei dovuto comportarmi con un negro? Un autista di tassi negro? La domanda era forse anche ben formulata, ma non riuscii a cavarne fuori alcuna risposta. Tentai di penetrare nel taxi, da una portiera posteriore. Niente da fare. Niente maniglie. Un unico blocco fuso senza fessure. Lo vidi tuffarsi sul sedile di fianco e lottare come una tigre. L’altra portiera si aprì. Sprofondai in una poltroncina sfondata accanto a lui. Chiusi la porta, che si incastrò definitivamente. Ora nessuno sarebbe mai più riuscito ad aprirla.
Sbirciai il taxista. Sembrava un pugile, il cranio rasato e squadrato come un’incudine, da poter sfasciare un muro di sassi. Ridacchiava con gli occhi semichiusi. “Al mare” dissi. “Seimila” rispose. “Non se ne parla neanche.” La radio continuava a ronzare fuori sintonia, senza che lui si decidesse a spegnerla o a trovare un canale. “Seimila.” Non sapevo in quale moneta pretendesse quella cifra. Ma decisi di mercanteggiare comunque, con decisione. “Millecinquecento.” Scoppiò a ridere, incassando la testa nelle spalle e tremando tutto nella pancia. Poi si appisolò. Io fissai la strada in controluce. Vedevo i napoletani che andavano a zonzo per le strade. Si davano un gran daffare, ma per ridere. Alcuni scavavano buche, posavano piastrelle, caricavano pulmini, strofinavano i vetri, ma per scherzo. C’erano pure quelli che si menavano, ogni tanto. Ma mai sul serio. Quando ci rimaneva qualcuno, bocconi sull’asfalto, con un proiettile che gli aveva spaccato il cranio, allora si facevano tutti seri per un po’. Si ricordavano della gravità. Capivano la tristezza del caso. Ma non durava molto. Già nel caricarlo sulla lettiga, per portarlo all’obitorio, i barellieri si sfottevano e sfottevano il morto. Facevano finta di rovesciarlo per terra, inciampavano apposta. E ricominciavano a ridere.
Senza preavviso il tassi partì. E viaggiò. Viaggiò, viaggiò, viaggiò. Di tanto in tanto perdeva pezzi, ma l’autista virava verso grumi di pattume in bilico sui marciapiedi. Rallentava, allungava il braccio fuori dal finestrino, e pescava al volo gli aggeggi di ricambio che gli servivano. Poi frenava. Lo vedevo scomparire sotto il veicolo. Lo sentivo sacramentare in wolof e dare testate nel metallo. Tutto allegro e sanguinolento se ne tornava alla guida. Per più di un giorno viaggiammo. Poi non feci più attenzione a nulla.
Il taxi frenò di colpo. “Seimila” mi gridò nelle orecchie il negro. Eravamo arrivati al mare. C’era una lunghissima spiaggia. La sabbia era gialla. E un sacco di persone correvano da una parte all’altra. Li riconobbi. C’erano molti napoletani. Giocavano per lo più a calcio, ma in modo anarchico e adrenalinico. Alcuni anche a morra e a rincorrersi. Notai come parecchi napoletani fossero alti, di pelle nera, con le labbra carnose. E parlavano malinké o wolof. Ma oltre ai napoletani bianchi e neri, c’erano dei senegalesi e dei bambara. Alcuni erano biondi, altri avevano il culo piatto e gli occhi a mandorla. Anche loro giocavano a pallone, ma in modo anarchico e flemmatico. Ogni tanto napoletani bianchi e neri, e africani biondi e con gli occhi a mandorla organizzavano delle complicate e caotiche partite, coinvolgendo più di sessanta giocatori. Le regole erano assai difficili da stabilire. I giocatori continuavano a passare da una squadra all’altra e le squadre stesse potevano suddividersi in formazioni più piccole. A volte si affrontavano cinque o sei squadre, altre volte il gioco si faceva noioso, perché tutti erano confluiti in un’unica squadra. Le risse non si distinguevano nettamente dai momenti di festa, ma di tanto in tanto qualcuno rimaneva ferito.
Decisi di unirmi anch’io alla folla che stava giocando a pallone. “Millecinquecento” dissi con fermezza all’autista. Ma si era assopito di nuovo e russava leggermente. Sbucai fuori dal finestrino. Mi sgranchii le gambe. Decisi di giocare come stopper. Raggiungendo il campo di gioco, dai bordi imprecisati e dalle porte inesistenti, mi chiesi se fossi ancora a Napoli. Il giallo della sabbia mi ricordava Dakar. Ma quei neri che, dribblando gli africani biondi, urlavano: “chi t’è muorto”, erano dei napoletani belli e buoni.