Tempo medio di percorrenza
di Maria Cerino
Ninnella seduta aspetta l’ora del torcicollo. Tra un po’ prenderà a guardarsi le mani, a contarsi le linee tra i palmi e penserà a cosa potrebbe fare per distrarsi dal dolore che le pizzica, come se avesse le unghie, i nervi alla nuca. Sulle ginocchia il libro è fermo da novembre alla pagina cinque e pure il titolo ricorda a sillabe mischiate; se lo tocca con le dita – dà piccoli colpetti per misurarne la consistenza, indovinarne il peso, impadronirsi della sfida: vincere qualcosa, perché no, chi glielo vieta, in fondo (spera) –: portare la brossura agli occhi le diventa impossibile. Ed è solo la raccolta di rosari per le preghiere alla Madonna, eppure una volta credeva di averle imparate, di conoscerla a memoria la definizione della parola augurata in copertina.
Ha la schiena dritta, Ninnella. La schiena di chi non si gira. E due accompagnatori, alla destra e alla sinistra, i braccioli. Solo i braccioli misurano dalla magrezza della pancia, la sua vita. I piedi – da quando le sono diventate pesanti le gambe e fa fatica ad alzarle a cinquanta centimetri da terra – non li ha più visti. Qualche volta le sale il dubbio che l’aria la stia divorando dolcemente prendendosi la carne partendo da sotto millimetro per millimetro, silenziosamente.
Giovanna manda Marco e Luisa a farle compagnia, i nipoti che Ninnella conosce di profilo. Marco ha il neo sotto al naso del padre e Luisa i capelli sottili con le doppie punte di ogni donna di famiglia. La ragazzina da qualche mese ha smesso di laccarle le unghie e le fa ribrezzo il pensiero che la zia possa – con uno scatto di due centimetri del mento a indicare lo smalto tenuto tra i biscotti, nella dispensa – richiederglielo. Ninnella ricorda ancora quanto lungo le era parso il tragitto, per le curve della carne, del piscio e quanto fosse rimasta più immobile di ogni volta che rimaneva immobile per fermare con la volontà il flusso d’urina. A raccoglierlo erano state le mani di Luisa tenute a coppa sotto l’alluce. Ci aveva provato Ninnella a tirarla via, a chiamare la gamba destra per farsi servire, E muoviti, smuoviti figlia mia. Poi aveva visto quella goccia, la prima, fissare l’ovale del dito grosso, chiuderlo in una specie di luce il rosso fresco della vernice, con la nipote che restava paralizzata non dal puzzo rancido ma dall’annuncio di una qualche a lei estranea sconfitta. Ninnella non sposta il mento neppure per cacciare una mosca se in casa c’è Luisa.
Giuro che non mi ammazzi, ripete mentre sente arrivare sulla nuca il pizzico del folletto invisibile. Ninnella a vent’anni aveva visto la malattia sulla faccia di Cristina mentre camminava per strada e la sorella s’era girata a parlarle. Aveva guardato il folletto fare le smorfie, pizzicarle la nuca, aprirla con un ago e soffiarci dentro bolle piccole di saliva. Una ad una, le aveva accompagnate tutte le cinque figlie del padre Andrea sulla via che fa il funerale. E ora le era davanti l’ultima superstite con lo sguardo stretto e asciutto del tumore. Non l’avevano ancora visitata ma Ninnella riconosceva, oramai nell’espressione, i lineamenti della fine nell’ombra che struscia sulla schiena. Dalla madre nulla era cambiato, neppure l’odore del malato che smette di lavarsi quando capisce di dover morire. E le aveva viste tutte girarsi verso di lei mentre le camminavano avanti prima che cominciasse il declino. Come se la torsione del busto sprizzasse in testa ogni cellula impazzita e di colpo concedesse le sembianze alla malattia, permettesse alla presenza incarognita di trovare un’apertura nell’osso sacro e venire. Erano morte di cancro in nemmeno due anni, tutte e cinque. Sulla bara di Cristina, Andrea aveva preso a chiamarla Ninnella, Ninnella. Accompagnami a casa, ma Ninnella era rimasta ferma finché il padre non si era allontanato dalla sua schiena. Quel giorno stesso ha inchiodato il suo collo alla testa e alle spalle, dritto, imponendo alla paura di fabbricare impalcature fisse.
Così quando il sangue corre nell’arrivarle alla testa e ha l’impressione che le puntine allentino la presa, che lo gnomo crudele la pizzichi con mani più piccole ma più acute quasi a voler far credere di esser stanco e che morirà lui per primo e stringerla poi di sorpresa in un sussulto, mentre la vita le attraversa la gola, le viene di nuovo il terrore di finire. Ferma il sangue dalle gambe stringendo tra la carne le vene con le dita, beve dal bicchiere tenuto sul tavolo dell’acqua vecchia, quasi tiepida e respira piano. Fa bene attenzione, poi, a battito calmato, a non abbandonare la testa ad alcun sospiro. Poco importa che la sua faccia non sia da tempo più quella di prima, che la fine potrebbe raggiungerla e prenderla nelle rughe – nascondersi in quelle piaghette che ha alla schiena da cui escono e ammuffiscono carne e ossa vive – e non nel sorriso, come avrebbe fatto una trentina di anni prima. Ninnella concentra il peso di tutto il corpo nel collo e a volte crede che il dolore da cranio spezzato siano solo le dita dei piedi che spuntano sotto la testa e che sia proprio questo, in assoluto, l’unico modo per andarsene via.
Un ritratto della vecchiaia minuto. E’ molto riuscita l’impression di leggere con il suo corpo, di sentire il dolore, la stanchezza. Accade un tempo dove anche il dolore diventa rassegnazione. Un tempo ritmato del pizzico, la fitta. Dov’è scomparso il piacere?
E’ un racconto bellissimo.
Grazie a Andrea Raos per aver proposto questo testo.
Sì, sì. Proprio bello.
Parole piene zeppe di sorprese…
proprio brava, sì.