LETTERA A LEOPARDI
di FRANCO BUFFONI
Il suddito pontificio Giacomo Leopardi – che per terrore del freddo rinunciò alla cattedra universitaria in Germania (filologia classica e studi danteschi) – a Roma non potè lavorare nemmeno come bibliotecario per il rifiuto a indossare l’abito talare. Lo stato in cui era nato, di cui aveva il passaporto – uno stato che aveva sudditi da Pesaro al Garigliano – gli chiedeva solo di essere ipocrita. Come ogni stato etico.
A Leopardi – suddito pontificio dissidente – mi accade di pensare quando certi eventi pubblici e parlamentari contemporanei paiono costituire delle vere e proprie rese “ai preti”, che “possono ancora e potranno eternamente tutto”. (Dalla Lettera a Luigi De Sinner del 22 dicembre 1836: “La mia filosofia è dispiaciuta ai preti, i quali e qui e in tutto il mondo, sotto un nome o sotto un altro, possono ancora e potranno eternamente tutto”).
Caro Conte Giacomo,
con riferimento al Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, è stato da molti osservato che, facendo risalire all’ignoranza e alla credulità acritica l’origine delle credenze magico-oracolari pagane, tu in realtà abbia liberato te stesso da tutte le nozioni che non reggevano alla luce della ragione.
Anche Ghan Singh, uno dei tuoi migliori traduttori in lingua inglese, sostiene questo; tuttavia da cattolico naturalizzato irlandese aggiunge: “Ciò in effetti provocò in Leopardi un altro dualismo: la sua condanna della ragione e, nello stesso tempo, la sua incapacità ad aderire a quelle idee e credenze che non reggono ad un esame critico. Così, suo malgrado, Leopardi è, insieme, l’apostolo e il critico del razionalismo”.
Capisco, stai per arrabbiarti. Per favore non farlo. Lo so bene che alla ragione intesa come ragionevolezza continui a tenerci molto.
Per te il vero è nella filosofia; il bello nella poesia. C’è una famosa lettera dello Zibaldone in cui dichiari esplicitamente che in ogni grande filosofo è un grande poeta e in ogni grande poeta è un grande filosofo. Una volta raggiunta – invero molto precocemente – la convinzione della impossibilità di rigenerazione – o persino di conoscenza – attraverso una palingenesi di stampo salvifico, anche per te la filosofia diventò scienza. E come Bacone, come i primi grandi greci, ti occupasti di scienza dichiarando di star facendo filosofia. Sempre temendo, naturalmente, l’alterigia, la supponenza dell’”arido vero”, ma fortemente percependo come irrinunciabile tale propensione alla ricerca.
Se penso che poi furono Gladstone e De Sanctis, Croce e Gentile principalmente a divulgare il tuo pensiero, posso ben capire le ragioni dell’equivoco (tanto duro a morire) circa il rapporto tra te e la ragione. Pensa che, nel Novecento, quando – giustamente – si tentò di tracciare un parallelismo tra il tuo pensiero e quello di J. S. Mill – sulla linea dei giudizi di Gladstone prima e di Matthew Arnold poi – lo si fece in tono negativo, considerando “distruttivo” il pensiero delle Operette e definendo, come fa Helen Zimmern, “nata morta” tout court la tua filosofia.
Ti prego, non stracciare il foglio, continua con la tua coppa di gelato al pistacchio, versati il rosolio e ascolta quanto il pregiudizio teleologico possa ancora obnubilare le menti. Tre sono i punti cardine su cui Zimmern vede convergere “negativamente” il pensiero di Mill e il tuo: “Entrambi credono che un cieco caso governi l’universo, che il male trionfi più spesso del bene e che la natura segua le sue leggi inesorabili senza tener conto dell’uomo”.
Dopo aver letto la Autobiography di Mill, mi sono convinto che la convergenza tra le vostre concezioni non solo resti, ma sia ben positiva: basta rileggere i tre punti anzimenzionati scevri da pregiudizi di carattere teleologico. E al primo punto basta togliere l’aggettivo “cieco”; al terzo confermare letteralmente l’affermazione che la natura segue le proprie leggi (che lo faccia inesorabilmente è solo una prova della sua serietà; e che lo faccia senza tener conto dell’uomo fa sorgere l’inevitabile contro domanda: perché mai dovrebbe tenerne conto?).
Quanto al secondo punto – la convinzione che il male trionfi più spesso del bene – la riflessione potrebbe articolarsi molto a lungo, ma appare arduo sostenere che una concezione finalistica dell’esistenza possa portare a compiere più facilmente il “bene”.
«…Non io / Con tal vergogna scenderò sotterra».
Qual è, quindi, la “vergogna” di cui, nella Ginestra, giuri che non ti saresti mai macchiato? Ricorrendo alla terminologia già usata, si potrebbe affermare: la vergogna di aver ceduto ad una credenza finalistica, ad una concezione teleologica dell’esistenza. E in questa prospettiva viene ad essere completamente ribaltata l’accusa che per tanti decenni ti è stata mossa. La vera alterigia è quella di chi, non sapendo accettare umilmente il proprio stato di mero caso biologico, giunge a ritenersi – per via forse di rivelazione – un essere in qualche modo “eletto”, e spregiando il “finito” persegue la propria finalistica elezione sopra a tutte le altre specie.
“Io tengo per fermo”, afferma il Folletto nel Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo, “che anche le lucertole e i moscherini si credano che tutto il mondo sia fatto a posta per uso della loro specie”. Ma non è ai cinquant’anni che separano questo tuo dialogo dalla teorizzazione darwiniana che voglio pensare a conclusione della mia lettera. Sarebbe pertinente, ma consolatorio. Molto più in sintonia col tuo pensiero non consolarsi affatto, scorrendo le proposte del vicepresidente del Cnr per l’insegnamento delle scienze, e apprendendo che il creazionismo è stato reintrodotto nei programmi scolastici di alcuni stati americani con pari dignità rispetto all’evoluzionismo.
Ti lascio, conte Giacomo, pensando alla tua solitudine intellettuale: per esempio a quando cogliesti la nozione di tempo profondo e non avevi nessuno a cui dirlo. Te l’ho già scritto in poesia – si parva licet – due domeniche fa. Ti abbraccio.
Il naufragar
m’è caro in questo mare.
Mi pretendo spirito
iniziato agli artifizi
stupefacenti del voluttuario
che l’ozioso sorridere
della consapevolezza
al dire e al fare deliberato
allude e pretende
per discipline maturate
capaci di trarre profitto
da tale ambito.
Disinvolto adolescente lo spirito,
mai riesce a corrispondere
al corpo
troppo determinato
troppo dipendente dal tutto,
lo sguardo ebete
di quella matta che è la vita
rende fertili i cervelli
li illude
poi li cestina.
Glauco bordato di nero
come un pensiero vago
è il mio desiderio di fuga.
Comunque il naufragare
m’è caro in questo mare.
“e infine anche il sole venire in dissoluzione”.
con dopo il nonostante del fiore, in questa, comunque, difeso.
una delle molte lezioni leopardiane ancora irrinunciabili, credo. grazie per questa bella lettera.
f.t.