Su “Elisabeth”
di Gilda Policastro
Lo sappiamo dalla Poetica di Aristotele come la costruzione del personaggio tragico passi attraverso l’imitazione di vicende “paurose e pietose” occorse a uomini non interamente colpevoli né completamente innocenti: in un caso quelle vicende risulterebbero infatti riprovevoli, nell’altro, poco interessanti. C’è un genere editorialmente in voga che, caricando il peso dell’azione drammatica su un evento “pauroso” più che “pietoso”, pensa di risolvere o almeno di aggirare il problema: si tratta del thriller, in cui il “colpevole” (ma di una colpa circoscrivibile, meno eschilea o sofoclea), pur essendolo innegabilmente, come da attesa soluzione finale, può, tra l’altro, occasionalmente vestirsi di tenerezza, così come la sua vittima mostrare, di tanto in tanto, una sua spietata lucidità e freddezza, o, viceversa, compiacersi della propria inevitabile sottomissione per farne via di salvezza o, quanto meno, strumento di ricatto. A rivitalizzare un genere serve una novità, che di solito viene imposta in forza di iperboli: al posto dell’omicida singolo, un sadico torturatore seriale; invece dello stupro della giovane donna, magari suggellato dall’omicidio di rito, una sequenza di violenze che il sintagma d’obbligo vorrebbe inenarrabili. Quando l’oggetto della narrazione (ostinata, o furba, si direbbe) venga dalla cronaca, il genere del thriller pone qualche problema in più, di natura eminentemente etica. Si ha il diritto di evocare fatti e persone non solo realmente esistiti, ma tutt’ora in vita, e proprio con i nomi reali, inventandone (né potrebbe essere altrimenti, a meno che non si tratti di memoriale dei diretti protagonisti) di sana pianta i pensieri, gli umori, i terrori? Il problema, che in parte condividiamo, se l’è posto Christian Raimo in un recente dibattito apertosi sul romanzo di Paolo Sortino, Elisabeth (Einaudi, pp. 216, euro 19.50), dedicato al caso di cronaca austriaca il cui protagonista la stampa di qualche anno fa marchiava come “il mostro di Amstetten”, definendolo come il più efferato criminale, in Europa, dalla seconda guerra mondiale in poi: un padre che tenne segregata per 24 anni la propria figlia in un bunker da lui stesso costruito sotto la propria abitazione, arrivando a stuprarla un numero imprecisato di volte, e avendo con lei sette figli. Trattavasi, dunque, dell’agghiacciante delirio psichico di un singolo, non di un evento storico che implicasse «universalità»: termine che, viceversa, Sortino utilizza, piuttosto impropriamente, nella nota cautelativa di prammatica, in cui spiega come i nomi veri dei protagonisti dell’aberrante fatto, siano stati conservati per «offrire uno schema utile» al lettore. Schema utile: torture reali di cui ci si appropria per farne letteratura.
Letteratura, appunto, vediamola così. Nessun oggetto le è precluso: olocausto, terrorismo, camorra, fine del mondo. Il vero problema è, però, se come finzione va intesa, trovarle una lingua. A scrivere un’opera d’invenzione è indispensabile, anzi: è l’unico strumento che abbiamo, la lingua letteraria, per ricreare mondi, specie quelli che non conosciamo, quelli cui non possiamo avere accesso, quelli inenarrabili. Diversa è un’inchiesta giudiziaria, che ci darà, attraverso il resoconto puntuale e dettagliato dei fatti, e dunque una lingua che già esiste, quella del rigore analitico o dell’anamnesi scientifica, il profilo di un colpevole. Costruire romanzo, cioè narrazione organizzata, sull’indicibile, è di per sé un azzardo. E non si gioca d’azzardo senza correre dei rischi. Allora, com’è la lingua di Sortino? Piatta, non gioca d’azzardo: mai. Piuttosto indulge al kitsch e, imperdonabilmente, all’ovvio. Vediamone alcuni esempi, nel concreto: il padre-mostro sta per tornare dalla prima tranche di galera proprio alla vigilia di una vacanza in cui la figlia adolescente ha riposto le speranze di liberarsi da quella sofferenza che l’ha indotta a «scavarsi una stanzetta dietro il cuore» (e già, poco prima: «erano due coetanee costrette a giocare in un giardino di cemento, lei e la sua adolescenza»). Siamo all’occhietto al lettore, che verrà portato per mano, con studiata calma, verso un abisso di cui può facilmente presagire profondità e sgomento. Ma torniamo al testo: dal «cagnolino al guinzaglio» alla «puledra che attende di correre» alla «balena allevata nel budello di un abisso privato», le similitudini animali riferite alla protagonista, afferenti tutte alla metaforica della preda in gabbia (non solo Elisabeth, ma il bunker stesso, è «bestia», a un certo punto) sovrabbondano già nelle prime pagine, ma proprio nel senso che stuccano. E qualunque sforzo si faccia, poi, per raccontare lo strazio montante della violenza, diventa torturante per chi legge: ma non nel senso dell’insostenibilità del male, bensì nel senso della banalità dello stile. Tutto è troppo detto, spiegato anche quando si sarebbe narrativamente (o inenarrabilmente) imposta l’allusione, l’oscuro, la deriva psicotica anche linguistica, il mistero: lo scopo sin troppo atteso è quello di mostrare il rovesciamento dei ruoli dei protagonisti, la forza ostinata (e la follia crescente) della vittima, resistenza biologica e psicologica che è anche però al tempo stesso accanimento sul carnefice, la cui ferocia, viceversa, è sempre più controllabile, a parziale giustificazione dell’altrimenti incomprensibile (ma nella realtà dei fatti, lo rimane) resa finale. Niente, peraltro, che non si trovasse già nella cronaca giudiziaria dell’evento: «sapevo che sarebbe finito l’incubo, nessuno può togliere ad un uomo la propria libertà», pare abbia detto la vera Elisabeth. Rispetto ad altri casi similari, non abbiamo molte altre testimonianze dirette da parte delle vittime che quelle poche dichiarazioni rese al processo, e praticamente nessuna documentazione fotografica. Ma all’indomani della liberazione, i bambini allevati nel bunker hanno disegnato, chissà perché, delle mani. Nemmeno se passassero il resto delle loro disgraziatissime vite a raccontarceli nei dettagli, quegli orrori, potrebbero indurci a maggior “pietà”. E se la storia del padre-mostro ci fa ancora “paura”, la finzione romanzata della psicologia delle vittime ci è parsa, viceversa, aristotelicamente poco interessante.
(pubblicato su Alias, 2/7/2011)
Almeno è un libro che ha una qualità che la Policastro non dice:la leggibilità. Non è affatto vero che è scritto male o che sia nel complesso poco interessante. Che lo dica poi una che ha scritto il farmaco poi è da pazzi.
Condivido la lettura fatta da Gilda Policastro.
Il problema non è, a mio avviso (e in questo dissento da Raimo) cosa può toccare la letteratura e cosa no. Il problema è il come ci si accosta all’indicibile. E, a mio avviso, uno dei modi peggiori è quello di usare la spoglia del mito (il luogo narrativo per eccellenza che si dà per se stesso, come figura dell’inesplicabile, di ciò che eccede la misura umana) per dare una patina di universalità a una vicenda la cui sostanza umana è trattata con spirito notarile, direi (soprattutto se si tratta di una vicenda come questa, una vicenda che, se ci interroga nel profondo, è proprio per la sua oscura e inquietante umanità).
La voce narrante infatti – con un movimento antitetico a quello della narrazione mitica – spiega tutto, sa tutto, sa persino quello che Elisabeth non sa. Definisce la misura di ogni gesto efferato così come di ogni dolcezza. E, cosa ancora più intollerabile, impone una visione granitica, per esempio, a uno dei passaggi più delicati di quella vicenda: la maternità… presentata sempre come un dono, una gioia, senza minimamente toccare la drammatica tragica complessità affettiva, umana, esistenziale che da quella condizione emana (l’incesto, la violenza, la cattività).
Elisabeth-madre non è mai «il male», non è mai portatrice di male, è al limite, «come tutte le donne», astuta, capace di usare le armi della seduzione… Umanamente, Elisabeth, è una figura senza spessore, come la madre (nella realtà, figura inquietantissima), come il padre quando fa il «padre amorevole»…
Così, se Sortino ha talento fuori dal comune nel descrivere, raccontare, rendere in figure potenti la sopraffazione, l’annichilimento, l’annientamento della volontà, la precisa messa in atto di un disegno degno di un dio ((Elisabeth costretta a mimetizzarsi nel muro, a farsi muro; l’architettura lambirintica e millimetrice del bunker, il neonato bruciato), non dimostra altrettanta sensibilità e immaginazione, direi, quando sfida il male per raccontare la complessità dell’umano lì dove i confini si confondono.
Lì la sua prosa diventa sentimetale, dolciastra, sciatta, a volte addirittura ottusa, direi, incapace di arrivare al cuore di quelle contraddizioni insanabili che fanno paura proprio perché toccano l’inesplicabile commistione di umano e disumano, e in modo oscuro CI TOCCANO, innescando una mina nel cuore della nostra normalità.
Forse anche per questo probabilmente, chiudendo il romanzo, non mi è rimasta nessuna eco dell’inquitedine che continua a suscitare nel mio intimo la vicenda vera, che è poi una di quelle vicende che solo la letteratura dovrebbe poter toccare, in verità… una letteratura all’altezza della vita, certo, una letteratura cioè che non presuma di spiegare l’esistenza, soprattutto lì dove l’esistenza è più labirintica, appunto, e non può mai trovare una via facile, piana, verso la consolazione di un senso.
In fin dei conti, a pensarci bene, non è poi così difficile raccontare l’efferatezza dell’uomo, quella che non ci riguarda mai. Molto più difficile è toccare la sostanza umana mescolata al disumano, lì dove c’è l’uomo… cioè (ci piaccia o no) noi.
premettendo che non conosco l’autore di questo delitto (di romanzo) (almeno sentendo la campana della Policastro), e premettendo pure che tengo un dente avvelenato da un giudizio che esce a singhiozzi da anni e mi gonfia le gote (per davvero), domando alla critica Policastro se ha letto romanzi di questo scrittore precedenti al libro in questione. bisognerebbe confrontarli. un buon cristo di diavolo sceglie la materia delle sue narrazioni in base allo stile che possiede. sembra una stronzata ma posso assicurare che sento continuamente di gente littereria che pensa di poter dire tutto colle proprie parole. mi sembra una sciocchezza.
per scrivere di naturalis historiae del genere (molto molto pre-scritte, soprattutto dai media, ma anche e fortunatamente dalla ricucitura popolare) ci vuole una manina mica da poco… bisogna prendere un oggetto di cui si conosce tutto e plasmarlo in un modo che non sia dossier quindi dessert giornalistico, ma divertissement letterario. il personaggione della cronaca incolonnata deve diventare panino librario. è un’operazione che spetta al grande pennello, e non a un pennello grande.
ecco perché mi auguro che il delitto di avetrana venga scritto da zio michelino che se scrive come parla può fare una grande cosa, una eccellente cosa, che editata come verrebbe editata da Mondadori, e forte della firma del misseri, troverebbe anche un pubblico savianico che finalmente (il grande pubblico di massa) potrà toccare con mano che differenza c’è tra chi scrive colla penna piena d’ovatta e chi va col rasoio.
aristotele o nassis?
Elisabeth è il primo libro di una trilogia.
Seguiranno Sarah e Debborah.
L’osservazione di Evelina sulla rappresentazione della maternità è – come sempre, del resto – molto giusta. Forse, il problema del romanzo di Sortino è che è permeato di uno sguardo maschile, verrebbe da dire maschilISTA con il suffisso che indica le ideologie per far capire che si appiattisce sullo stereotipo, del maschile. Lo è al punto che il vero protagonista è Joseph e non Elisabeth – secondo me.
Sulla scrittura, invece, dissento da Policastro. E’ tutt’altro che piatta, prima di tutto ed estrapolando pezzi è troppo facile individuare il kitsch in chiunque, soprattutto se prova ad alzare il registro come fa Sortino (scelta, va da sé, condivisibile o meno.)
Io, di mio, lo aspetto con una storia che non lo costringa a fare i conti con la sua giovane età, peraltro (che, nonostante tutto, vuol dire anche minor sensibilità, minor conoscenza del mondo, banalmente) e con la cronaca.
La critica della Santangelo è più efficace di quella della Policastro,
a mio parere. Sto terminando di leggere il romanzo, al quale concedo
l’attenuante di essere il primo scritto dal buon Sortino.
Forse lo scrittore si è confrontato con una materia al di sopra delle sue possibilità,
ma la storia della letteratura ci insegna che nasce un Dostoevskij ogni
duecento anni.
Sortino ha comunque talento nel portare avanti la narrazione, anche
se gli manca, forse, lo slancio (questo concetto l’ha espresso meglio
Evelina Santangelo, ma io non sono né intellettuale, né critico, sono un umile lettore), per assurgere a una scrittura consona
al tema.
Consiglio comunque la lettura del romanzo (io ne sono venuto a
conoscenza dopo aver letto una recensione di Alcide Pierantozzi
postata sul sito di Giuseppe Genna, dove entrambi – Genna/Pierantozzi –
esaltavano le
qualità letterarie di Paolo Sortino).
Buona giornata a tutti.
@ Santangelo: proprio per la difficoltà dell’argomento Sortino si mantiene in quel passaggio in una scrittura piana, non sciatta, né sentimentale. Avrebbe dovuto scrivere in modo tonitruante? Condivido in parte, ma non capisco questo battere sul modo di scrivere di Sortino.
Nei Supercoralli sono abituato (forse a torto) a leggere autori che r-esistono ancora oggi: Elsa Morante, Paolo Volponi, Italo Calvino, Vittorio Sereni, Dylan Thomas (tradotto da Ariodante Marianni, Eugenio Montale, Piero Bigongiari, Alfredo Giuliani), Velimir Vladìmirovic Chlébnikov (tradotto da Angelo Maria Ripellino), William Carlos Williams (tradotto da Cristina Campo e Vittorio Sereni), Céline (tradotto da Giuseppe Guglielmi, Gianni Celati, Lino Gabellone), Parise, Luigi Magnani, Antonio Delfini (a cura di Cesare Garboli e Natalia Ginzburg), Thomas Bernhard, Isherwood, Pasolini, Pessoa, DeLillo, Consolo, Walter Siti… Anche in campo editoriale (come in tutto il resto) osservo, divertito, un impazzimento generale…
Mi ero ripromessa di non intervenire, per lasciar campo aperto ad altri pareri sul libro, ma la questione posta da @andrea serti della leggibilità, pur essendo stata ampiamente discussa, ormai 50 anni abbondanti fa, da Moravia e Manganelli, a dir degli ultimi, m’interessa molto. Perché mai la leggibilità debba essere ritenuta un valore di per sé, intendo. È leggibile, dunque vale? Non tornava già a Manganelli, che a Moravia replicava con la necessità di aspirare a “inventarsi da sé” il proprio lettore, a “provocarlo” e “sfuggirgli”, piuttosto che a lusingarlo o a farsene ostaggio. Perché un autore di nemmeno trent’anni (visto che qualcuno ripropone anche qui l’eterna solfa della “giovane età”: ma Sanguineti a vent’anni – dico venti, non trenta-, aveva già scritto il libro di poesia che avrebbe rivoluzionato un’intera stagione letteraria, perché mai oggi la “giovane età” dovrebbe essere un vessillo, o un alibi, per non osare poi…) si costringe a usare una lingua che quando non è dannunziana (come nella pacchiana descrizione del neonato bruciato: puro kitsch, da manuale) è povera, lessicalmente, piana, sintatticamente, grigia, sul piano della torsione, dell’oltranza, dell’espressione? Perché deve accontentarsi di “farsi leggere” con agio, magari sprofondati, comodi noi, in poltrona, col cellulare in una mano e il sigaro nell’altra? E se invece si volesse propriamente farli stare scomodi, i lettori? Se si volesse trasmettere disagio con ardire, malessere con oltranza?
Ma, quel che è peggio, si persiste nel considerare il cosiddetto “semplice lettore” come una categoria non solo massiforme e totalmente astratta, ma in perenne deficit di comprendonio (il lettore “semplice”, quindi). E oggi che tutti (cioè quei pochi che leggono) leggiamo tutto, che sappiamo tutto, che possiamo apprendere/verificare/decriptare su google in tempo reale qualunque informazione, dato, citazione, rimando, fonte, la leggibilità (ovvero il dettato piano, disteso, denotativo, referenziale, senza incidenti, scosse, inciampi, imperfezioni, ”sbagli”, per dirla ancora alla Manganelli), la leggibilità, dico, è ancora considerata un valore di per sé? Ma possibile? Un “piccolo fatto vero”, occorsomi qualche giorno fa. Un brutale intervento redazionale cambia in una mia intervista all’autore di un bellissimo libro sul “fallimento” (il Tommaso Pincio di ”Hotel a zero stelle”) l’espressione “stigma”, in relazione al fallimento stesso, tema che improntava, ripeto, l’intero percorso pinciano nell’immaginario hotel, con il più vulgato “marchio”, termine certamente più improprio, nel contesto, con la motivazione che “i lettori non lo avrebbero capito, e quello che c’è scritto in una rivista si deve capire”. I lettori non capiscono, i lettori vogliono leggere libri, articoli, recensioni che si capiscano…ma chi l’ha stabilito? E, soprattutto, a chi si pensa quando si dice “lettori”? La demagogia populista ci infligge da vent’anni anni la tv dei varietà, dei reality e dei quiz dei pacchi (“li vuole la gente”), dobbiamo pure lasciare che in libreria ci sia più (o solo) Mazzantini che Frasca (e non dico a caso, visto che il ributtante ultimo libro della prima lo vedo ovunque e il nuovo , estremo romanzo del secondo non sta minimamente circolando)? Prego, accomodarsi, leggiamo il leggibile, e lasciamo la letteratura marcire nelle sue sacche di resistenza per pochi iniziati: quelli che se proprio non sanno cosa vuol dire ”stigma”, lo sforzo di andarselo a cercare sul dizionario (c’è pure on line, che costa meno sforzo), magari vorrebbero ancora farlo.
mi astraggo dalla fattispecie di Elisabeth, e della sua critica, perché non ho letto il romanzo di Sortino. detto questo, voglio sottoscrivere in pieno il commento di @Policastro, con una piccola riserva: torsione, oltranza, o più largamente e vagamente “espressionismi”, del lessico come della sintassi, possono non essere le sole vie alla scomodità, al malessere, al perturbante, all’impatto e richiesta cognitiva forte o viceversa sottilissima: penso, è solo un esempio, alla completa leggibilità di Kristof (non a caso la Trilogia della città di K. fu apprezzata dallo stesso Manganelli), leggibilità che non impoverisce ed anzi esalta la materia spesso agghiacciante che sostanzia le sue storie. ma, certo, immagino non sia *questa* leggibilità il bersaglio qui in questione.
starei anch’io poi attento a maneggiare come fosse una categoria tout court la giovine età, o l’esordire; specie se in rapporto a un’eversione che pare debba esserne il portato “fisso” : si possono infatti avere tirocini d’avanguardia, come, mettiamo, Ungaretti, seguiti da un percorso restaurativo e ampolloso; al contrario, sono possibili partenze pienamente tradizionali se non addirittura attardate, diciamo qui il primo Caproni, seguite da percorsi di crescente estremizzazione sperimentale, non deducibile dalle premesse. insomma gli autori, se non sono “instant writers”, vanno giudicati nel tempo.
un saluto a tutti,
f.t.
Policastro, le scuole di pensiero su questo punto si scazzottano e scazzotteranno sempre, per fortuna.
Da lettore mi permetto il lusso di godere della lettura di Samuel Beckett e Tommaso Landolfi così come di Bukowski e John Fante. La pagina deve contenere elettricità, come un vasca piena d’acqua dove ci tiri lo stiracapelli.
Quando scrivo il mio (da vacanziero, dilettante, sempre per carità), preferisco il parlato allo scritto, anche se non sempre sempre. Forse sono per il leggibile, che non vuol dire per forza un antiellenismo, in quanto l’ellenico oggi sta nel infinitamente piccolo, nella sua cura maniacale.
Ho letto molte cose di Manganelli molto leggibili, nell’uso linguistico soprattutto dove era preponderante il ritmo incalzante della chiacchiera più che della pagina.
Ma il leggibile si relaziona più ai contenuti che alle forme (anche se è condizionato da entrambi).
Le Cosmicomiche di Calvino narrano dell’inizio del cosmo e delle progressive tappe conoscitive dell’universo, lo fa con una lingua comune medio-alta, più media che alta, ma è già molto molto meno leggibile di un racconto fantascientifico standard che è genere post-popolare (tra l’altro tanta critica crapulona ha scambiato le Cosmicomiche per fantascienza, ma per fortuna allora c’era Montale che disse Indietro tutti).
La cronaca efferata di Elisabeth come fa a non essere leggibile quando la cronaca di suo è un genere strapopolare?
Ci doveva mettere l’impegno per non farsi leggere…
E’ ovvio quindi che in questo caso la leggibilità non è un valore aggiunto, anzi, non poteva che essere tale.
un brutto romanzo,un autore che dissimula prosa. un caso montato.
Non è un po’, come dire, stupido prendere a criterio comparativo la ‘durata’ fra autore che, quali che siano i loro meriti, hanno avuto modo di durare essendo passati e autori viventi che, quali che siano i loro meriti, non l’hanno proprio avuto, il tempo di durare? Dire, con tono sicuro e definitivo, che non dureranno non è una strategia accettabile, non più di quella di quanti, nel passato, stabilirono la non durata dei loro contemporanei, gli stessi la cui durata oggi permette di fare certi sprezzanti e infondati paragoni.
(quanti ai ‘critici crapuloni’ che avrebbero scambiato le Cosmicomiche per fantascienza: Calvino negli anni Settanta fu candidato sia all’Hugo che al Nebula Award, i due più prestigiosi premi americani di fantascienza, con le Cosmicomiche e con le Città Invisibile – quegli americani ignoranti evidentemente non avevano letto Montale…)
Ho capito molte più cose del libro di Sortino dal commento di Evelina Santangelo che dalla stroncatura di Gilda Policastro. Piuttosto che indugiare troppo sulla premessa, ribadendo assunti che ci sono noti dai tempi del liceo, sarebbe stato meglio soffermarsi con più perizia sul romanzo in oggetto. Non basta decontestualizzare qualche frase denotativa o limitarsi a un campionario minimo di citazioni Kitsch per rilevare un deficit di lingua e di stile. Sulla nozione di leggibilità sono invece d’accordo con Policastro, a patto però che l’illeggibilità non diventi l’unico discrimine possibile per classificare un libro come vera Letteratura. E’ un equivoco cui non sfuggono molti poeti contemporanei.
Se il vizio di gran parte dei giovani autori in Italia è la mancanza di talento e di erudizione, sopperiti però abilmente da retorica e pubblicità (quella personale e quella degli editori — il caso Einaudi-su-Sortino è quanto mai esemplificativo); quello di critici giovani quali la Policastro è il narcisismo e il giudizio sempre previa ideologia. Per non parlare della supponenza/arroganza, come fosse utile e giusto mostrare di stare in cattedra, nel lavoro di critica e nello scambio di idee coi lettori; ma questo è solo un fatto di malcostume, che poco importa qui.
Il libro di Sortino, buono o no, se giudicato in base all’aderenza o meno a una certa idea di letteratura sarà sempre in difetto. Con questi presupposti dunque, quale critica è mai possibile? Sulla leggibilità/non leggibilità: la questione non è quella Moravia/Manganelli, entrambi diversamente leggibili. La questione è semmai, se ho ben capito quel che vuole dire Serti, quella della persuasività della prosa, della sua seduttività, se la tal scrittura sa insomma tentare alla lettura. Tanto Levi quanto Moravia quanto Manganelli sanno farsi leggere, sedurre, pur se l’uno scrive “chiaro” e l’altro “oscuro”.
C’è un’idea, che traspare dalle parole della Policastro: come se la Letteratura (con la maiuscola) debba stare, per stare, necessariamente all’ombra, in lotta costante per la visibilità. Una letteratura resistente. Ciò è fondamentalmente falso e sicuramente riduttivo. Il Farmaco, per fare solo un esempio, quello dell’autrice/critico, è la concrezione di questa idea — un libro che pensa prima a fuggire da certi stilemi/idiosincrasie che ad affermare in sé lo spazio insostituibile della creatività.
Alcune riflessioni sparse.
Il punto cruciale è la qualità dell’immaginazione d’uno scrittore. Se lo scrittore è di razza lo stile segue l’immaginazione, ne è forgiato più che forgiarla. Ci sono grandi scrittori assai leggibili (vedi Kafka o Flaubert o Flannery O’Connor o DeLillo o centinaia d’altri), e persino qualche titano dallo stile imperfetto (Dostoevskij, Dickens): a volte l’urgenza cognitiva deforma quella estetica. Se pensiamo a narratori contemporanei diversi fra loro ma tutti più o meno importanti come King, Lansdale, Ellis, Houellebecq, Littell, Roth, Auster, Kristof, Irving, Kundera eccetera eccetera, se pensiamo a costoro non è lo stile a ferire ma il fuoco drammatico, la capacità di creare o distorcere, la mania, la malattia ontologica, il delirio della conoscenza o dell’incoscienza. E un romanziere straordinario come Roberto Bolano possiede uno stile abbastanza leggibile (come lo possedevano Hemingway o Steinbeck o Fitzgerald o Carver o Borges, e come lo possiede persino Pynchon), che è frutto d’alto magistero. Dunque non occorre che lo stile stupisca o debordi per aprire la breccia; uno stile leggibile può essere il risultato d’un’ardua scalata.
In realtà la polemica sullo stile è molto italiana. Non a caso abbiamo la letteratura storicamente più povera di grandi romanzi: ho scritto “bene”, ma “cosa” ho scritto?
Riguardo al libro di Sortino, che non ho letto né posso giudicare, Policastro secondo me centra un punto: se tu vuoi narrare un fatto davvero accaduto, un fatto sconvolgente che usurpa la tua immaginazione, se vuoi farne letteratura allora lo stile (anche uno stile “semplice” e “piano”) diventa la tua unica vera arma per non fallire. Dovrà essere uno stile perfetto perché dovrà supplire alla carenza inventiva, al peccato originale d’una storia non tua. Se racconto Hitler non posso farlo come se raccontassi un uomo malvagio inventato da me, perché Hitler possiede già una personalità definita ed esige un proprio spazio, una propria identità inalienabile; ed è su quella precisa identità – inalienabile in quanto aliena, altra da me – che dovrò modellare il (non più del tutto) mio stile. Si verifica cioè uno slittamento, realtà e fantasia scivolano l’una dentro l’altra ed è lo stile a poter scongiurare un impatto sismico. Lo stesso accade però se provo a raccontare Don Chisciotte o Amleto, se provo a raccontare cioè non un uomo in carne e ossa ma la sua immaginazione; e un tale miracolo è figlio più della creatività che dello stile di Cervantes o di Shakespeare, non perché nel Don Chisciotte o nell’Amleto lo stile sia inessenziale ma perché quello stile è il risultato e la conseguenza, è il precipitato ultimo d’un modo di pensare e di vedere il pensiero. Ovvero: se rifletto su Amleto rifletto su come è, se rifletto su Don Chisciotte rifletto su come agisce, eccetera. Rifletto cioè su dati che trascendono la leggibilità o meno (che è un primo livello, uno strato epidermico) e che si collocano su un piano più psicologico o addirittura spirituale, in ogni caso più profondo.
“Su Elisabeth”, ovvero: come il quotidiano riesce a colonizzare e corrodere l’estremo (Elisabeth che rende abitabile l’orrore, che trasforma il bunker in un nido).
O della Policastro che passa la vita a stroncare, a sputare veleni, a spettegolare di tutti mentre le basterebbe accettare con serenità il fatto di essere stata incapace di scrivere un romanzo e tornare a svolgere una critica letteraria non competitiva né rancorosa.
OT: Certo che “marchio” al posto di “stigma” fa proprio schifo!
Con la questione della leggibilità (ma che vo’ ddi?) non si va da nessuna parte. Non tutti i libri che richiedono – per stile, struttura o altro- più fatica al lettore, sono per questo capolavori. Ma quasi sempre c’è una ragion d’essere. Lo sforzo di andare contro le inerzie e gli automatismi del narrare mainstream denotano o un velleitarismo dilettantesco, o una consapevolezza di ciò che comporta voler fare letteratura. Tutto questo può esprimersi anche in una lingua semplicissima: penso a Kafka, o per stare più vicini, a Tommaso Pincio. Ma dire che sono bravi in quanto leggibili, non mi pare l’apprezzamento più adeguato.
Trovo in gran parte molto condivisibile il commento di Macioci.
E per quel che riguarda il libro di Sortino (che tra l’altro non rappresenta ciò che comunemente si intende per ” romanzo leggibile”) concordo non solo con le osservazioni di Evelina sulla rappresentazione della maternità di Elisabeth e, in genere, sull’eccessiva genericità dei personaggi (senza che per questo somiglino a figure davvero mitologiche o tragiche), ma anche su alcune delle osservazioni stilistiche di Gilda.
Il problema di questo libro, per me, sta proprio in ciò che ne rappresenta la sfida comunque più interessante. Voler trasfigurare un caso-monstre in un racconto nient’affatto cronachistico, mimetico, “realistico”, ma in una narrazione radicalmente astorica, arcaica, simoleggiante trame eterne. In certe parti il racconto del padre-demiurgo che rinchiude la figlia nel suo mondo ctonio e la reifica sino a renderla simile alla pietra del muro, mi è parso agghiacciante e “riuscito”. Poi cominciano a infilarsi sempre più frasi come quelle estrapolate da Gilda, con un eccesso di metafore e similitudini che anch’io avverto come stucchevoli e stonate.
Il problema è l’impostazione. In certe prospettive alto e basso si equivalgono, e voler sondare il fondo dell’abisso si traduce in uno sguardo e una scrittura che vuole sempre segnalare di occuparsi dell’estremo e dunque deve sempre segnalare di essere “alta”. Il problema è il connubio tra l’orrore, il male, e il sublime. Operazione che, a prescindere dal fatto che esistano ancora la vera Elisabeth Fritzl e i suoi figli, produce quegli effetti che Gilda definisce “dannunziani”.
La vicenda che Sortino reinventa è qualcosa che trascende la nostra capacità di immaginare, di immedesimarci, di capire. E’, come sostiene Gilda, indicibile. Il che non significa che per questo non possa eleggerla come materia narrative. Ma le troppe similitudini, le troppe figurazioni, le troppe interpretazioni arcane che Sortino ci offre, coprono proprio quella voragine conoscitiva. Anzi: la stuccano (e ci stuccano). Il kitsch non è che un effetto collaterale temo inevitabile.
Un giorno, per puro caso, mi sono imbattuto in una recensione (immagino che volesse esserlo, ma non ho avuto modo di appurarlo) “elisabethiana” che esordiva con la parola “capolavoro”. Stop! Un’occhiata alla firma e via, felice di poter aggiungere una nuova perla alla collana dei libri che non ho letto e che non mi piacciono.
fm
Sono perplesso dalla premessa teorica di GP, : laddove lei vede limiti di ordine etico, io vedo una pietas – ma evidentemente come nelle questioni etiche, si potrebbe discutere all’infinito.
GP dice che alla letteratura nessuno oggetto è precluso ma poi scrive “Tutto è troppo detto, spiegato anche quando si sarebbe narrativamente (o inenarrabilmente) imposta l’allusione, l’oscuro, la deriva psicotica anche linguistica, il mistero”..ddipende: Boris Pahor di Necropolis – oppure a J. Littell e al suo Le Benevole sul piano della finzione: si sarebbero duvuti fermare all’allusione?
Naturalmente se consideriamo questi due autori meritevoli.
Sul libro: a me è piaciuto, molto (vedi la prima parte delle le osservazioni di Evelina Santangelo sopra nei commenti) proprio perché ha preso – in un momento come il nostro in cui non solo si discute molto nel trinagolo: cronaca-scrittura-letteratura (e mettici autofiction ecc) ma anche di invasione di “verità-reality”, affrontare di petto un “inenarrabile” e provare a ri-raccontarlo, mettendone in luce altri aspetti che – proprio perché di fronte ad un orrore del genere ci diciamo ‘preferisco non pensarci’ – Sortino ci costringe invece a seguire i suoi personaggi che replicano i fatti veritieri con notazioni interiori che Sortino “inventa” da scrittore, con il rischio dell’eccesso e di metaforizzazione inevitabile, ma secondom e riuscite.
Evelina S. trova limiti nel racocnto della maternità, ma io credo non fosse questo l’intento, piuttosto mostrare come la vita si attacchi a qualcosa che non considereremmo vita in condizioni normali. insomma Siamo dalle parti degli “stati di eccezione” (alla GAgamb)..
se pure qua e là c’è, lo si potrebbe imputare a tanta altra letteratura che si misura con l’eccessivo e l’inenarrabile. GP scrive che l’intento è “prevedibile”, ovvero mostrare ribaltamento e la follia della vittima nel resistere e controllare la violenza del carnefice.
si può obiettare:
1) spesso i libri ci raccontano sempre la “stessa cosa” che so, il lutto e seppur prevedibile conta il modo, no?.
2) non è proprio solo il ribaltamento vittima-carnefice quel che racocnta Sortino, ed è qui che non è banale o ripetitivo (ma non sto a dilungarmi perché, è scritto altrove).
Lingua piatta: la penso come Mario nei commenti: semmai l’ho trovata l’opposto e se Sortino ha coroso qualche rischio è nel senso contrario..
c’era chi scrisse dei limiti letterari di Primo Levi per i suoi due primi libri. E’ chiaro che la “verità del racconto” si impone – e qui colpisce tutti questo lager domestico dei Fritzl – e fa si che tutti i canoni letterari si possano rivedere
(l’idea di stroncare un libro in termini di “lingua piatta” poi rischia d’essere lo stesso errore ideologico al contrario dei tuoi capi di redazione, ovvero ritenere come unica verità una certa idea di stile e linguaggio…. va bene la passione e l’ideologia, ma attenzione alla rigidità nel privilegiare per forza il “difficile”, per dirla facile, vedi cosa dice Fabio T al riguardo, c’è una leggibilità dell’inqietudine che mi fa dire che Giudici dica di nevrosi storiche e individuali come Sanguineti, ma “facendosi capire” – e farsi capire è anche etico! e politico.. )
Credo Sortino si collochi proprio in una zona “grigia” della letteratura, difficile da cogliere se si ragiona con modalità di lettura accademiche (ancora aristotele??..)
Ripeto, dentro un contesto di confronto tra una invadente cronaca nera che se ne fottte di aristotele e di tutti noi e la letteratura che sta cercando strade di “altra-verità” l’aver preso questa storia in questo momento e in questo modo per me è significativo.
Naturalmente il tempo ci dirà meglio, ma per ora è un libro degno di nota.
E Naturalmente la discussione è infinita, come dice Dinamo S.
mi auguro però sempre meno perentorietà nel giudizio, anche io godo di autori differenti e opposti come Dinamo, non si deve ragionare sempre in termini di barricate.
OT, ma non tanto, naturalmente l’esercizio di critica da parte di GP di questo romanzo come nel caso di quello di Viola di Grado nel momento in cui contro gli stesso si concorre in competizioni per un premio mi lasciam olto perplesso sul piano etico, per l’appunto, e perplesso è un eufemismo in lingua “piatta”.
Secondo me se la letteratura non si mette a sforzare il Verosimile è destinata a smettere, ma non è un proclama di apocalisse dell’arte-romanzo come se ne fanno una volta al dì. anche perché per come la vedo io il romanzo è in crisi finché non arriva un buon libro o romanzo che ne rialzano le quotazioni. il macchinario editoriale continua a defecare romanzi, mentre di parti ce ne sono pochi. l’estratto conto è in passivo, certo, ma io non dispero almeno per qualche decennio ancora, il tempo di chiudere l’occhi, speriamo.
A Sortino forse va riconosciuta la cosa d’aver provato a fare letteratura con un fatto di cronaca sputtanato in tutto e quindi di grido (il che rende sempre tanti dindini). La strada è disinteressarsi del fatto in quanto tale, creare una sacca, una pancia verminosa di parole: verosimiglianza vero reale sono categorie che ormai fan ridere il pollaio. altrimenti è meglio vedere un dossier o lo speciale che Matrix non avrà mancato di girare per l’occasione.
Ecco allora che Sortino, ben strombazzato ovunque, è un caro caso editoriale per i dindini (come sopra) e quindi si capiscono tutte le riserve che ha per lui la Policastro e i limiti della sua prosa
@Stefano
Uno che dice che Calvino è uno scrittore di racconti fantascientifici è da legare da qualche parte, opterei per un banco dove impara a leggere. Le Città invisibili o Le Cosmicomiche non hanno nulla di fantascientifico, parlano del passato non del futuro e lo dice lui stesso che era una lettura alla cazzodelcane.
«Ma le troppe similitudini, le troppe figurazioni, le troppe interpretazioni arcane che Sortino ci offre, coprono proprio quella voragine conoscitiva. Anzi: la stuccano (e ci stuccano). Il kitsch non è che un effetto collaterale temo inevitabile». Sottoscrivo le parole di Helena Janeczeck.
La «maternità» cui ho fatto riferimento era solo uno degli esempi più eclatanti di questa sfida altissima che, a mio avvio, non è arrivata lì dove voleva arrivare, per le ragioni che ho detto: DIFFICOLTA’ DI AFFONDO CONOSCITIVO NELLE ZONE D’OMBRA DELL’UMANO dove s’intreccia tutto il male possibile e tutto il bene possibile… quelle zone d’ombra CHE CI CHIAMANO IN CAUSA, ci fanno sentire che quella vicenda ci riguarda, proprio perché comunque «umana» Iin quell’accezione più ampia dell’umano che contempla la peggiore disumanità.
Flannery O’Connor in un saggio scrive che i I PERSONAGGI più potenti sul piano dei significati e dell’affondo conoscitivo sono quelli «angular», cioè non monolitici, ma complessi.
In Sortino i personaggi sono troppo esili, individuati in tratti rigidi cui manca quella fluidità umana affettiva emotiva che, in un romanzo del genere, a mio avviso, era una scelta obbligata, direi.
Qualcuno potrebbe giustamente contestarmi che i personaggi di KAFKA sono figurine bidimensionali, ridicole. Vero! Ma quella scelta è funzionale a tutto l’impianto narrativo dove l’umano è spesso ridotto a pura funzione narrativa o è comunque in balia di una Volontà, di un Disegno… che eccede la comprensione, e rende l’uomo un essere ridicolo, un insetto, un segno, un nonnulla.
Non mi sembra affatto sia il caso di «Elisabeth».
Sia chiaro, la mia non è una critica in termini di talento (che sarebbe ridicolo e inopportuno), ma in termini di scelte narrative. Il confronto con grandi autori aiuta a capire quando una scelta è narrativamente coerente (e dunque significativa) e quando no.
Ultima considerazione sullo STILE.
Cortazar in un saggio sulla narrazione dice due cose che ritengo molto interessanti: «Attenzione alla facile demagogia di esigere una letteratura accessibile a tutti!» (spiega poi anche il perché, cfr. «Alcuni aspetti del racconto»).
E, però, Vargas Llosa in («Lettere a un aspirante romanziere»), parlando proprio di Cortazar, dice: «Cortazar si vantava, negli ultimi anni, di scrivere ogni volta peggio», intendendo con questa espressione la ricerca di forme il meno possibile sottoposte alla forma canonica, la ricerca cioè di una lingua che fosse il più possibile incarnazione di un’immaginazione, di un universo di senso, di un’umanità… etc.
IL PROBLEMA DUNQUE, a mio avviso, NON È AFFATTO SCRIVERE BENE O MALE (in termini puramente stilistici), è piuttosto quanto tutta una serie di scelte narrative (tema narrativo, natura dell’immaginario, uso del tempo, articolazione dello spazio, natura dei personaggi, registri, toni, lessico, sintassi…) si coagulino in un tutt’uno CAPACE di PORTARE SINO IN FONDO LO SGUARDO, L’IMMAGINAZIONE, IL SENSO rispetto al mondo (piccolo o grande che sia…) che si è scelto di narrare.
«Il fallimento, dice Vargas Llosa, si coglie quando il lettore sente un abisso che il romanziere non riesce a colmare tra ciò che racconta e le parole he impiega per raccontarlo».
Ecco, IN SORTINO ACCADE QUALCOSA DEL GENERE: lì dove l’autore domina il senso di quel che sta narrando (l’annichilimento, l’efferatezza, il delirio di onnipotenza, la riduzione a pura materialità…), Sortino trova una lingua capace di diventare tutt’uno con l’immaginazione, la sensibilità, riuscendo così a narrare con profondità una condizione che eccede l’umano (giustappunto).
Lì dove invece si dovrebbe aprire il cono d’ombra in cui i conti non tornano, in cui tutto (umano e disumano) si mescola in modo insotenibile, direi, l’autore-Sortino si perde, perde la forza d’immaginazione, perde la capacità di affondo nelle pieghe dell’essere, e perde, ahimè, anche la lingua (cosa abbastanza ovvia, visto che LA LINGUA È IL MODO PROPRIO DI UNO SCRITTORE DI DARE FORMA ALLA CONOSCENZA, ALL’ESPERIENZA, ALLA SENSIBILITA’…)
Qualcuno potrebbe dire: «Ma è un ragazzo, come fa ad arrivare fin lì…»
Vero!
Ma io non posso giudicare un’opera in base all’età. Devo giudicarla (nel bene e nel male) in base agli esiti. Non mi piace quando sento dire quell’autore a dodici anni già… Non mi sembra un argomento per criticare o osannara un altro autore, ecco.
POSSO SEMMAI GIUDICARE LE POTENZIALITA’ DI SORTINO IN QUANTO SCRITTORE, ESORDIENTE.
Così, ritengo che Sortino abbia grandi potenzialità. Quando lo rivedrò all’opera certo il mio giudizio sull’autore Sortino sarà più completo, ma questo non cambierà il mio giudizio su «Elisabeth» e sui suoi limiti, che trovo profondi porprio perché tutti concentrati lì dove dovrebbe partire quella «DOPPIA VISTA» che è il sale della letteratura, visto che comunque, di letteratura, stiamo parlando (cosa di cui a Sortino si deve dare atto, a mio avviso).
sulla letteratura la penso in generale come evelina e dai libri pretendo più del mero intrattenimento, prediligo i testi che una volta chiusi hanno contribuito a darmi una visione più complessa di quello che ho intorno. quando ho chiuso il libro di sortino nn ho sentito di essere nulla di più di quello che ero prima di leggerlo, ma ho ammirato cmq il suo lavoro proprio per quella lingua e stile che qui si definiscono sciatte, piatte, ecc. Mi domando infatti se uno stile personale, meno “notarile”, nn avrebbe reso il racconto perverso o pruriginoso. Perché io penso che il rischio, quando si narra di certi argomenti, sia proprio questo, di risultare eccessivi o patetici o “malati”. riguardo la questione dei libri leggibili o meno, credo che sia figlia del pregiudizio tutto italiano che un romanzo, per essere tale, debba essere letteratura. credo invece che tutti i testi abbiano legittimo diritto di essere pubblicati, anche quelli meno complessi, perché diversi sono gli approcci dei lettori: come dire, a ogni lettore il suo libro e lo stesso lettore, in certi momenti della sua vita, può chiedere a un romanzo di essere meramente distratto, intrattenuto. salvo poi provare nervosismo, entrando in libreria, quando noto che sugli scaffali in evidenza ci sono sempre e solo libri “leggibili”, di puro intrattenimento.
Vorrei dissipare l’equivoco sorto a partire dal mio riferimento, nella recensione, alla polemica avviata da Christian Raimo, circa la liceità di un’operazione testuale che prenda spunto, per trasfigurarli letterariamente, da fatti occorsi a persone tutt’ora in vita. Questa è, appunto, come ribadisco, una remora di Raimo, non mia. Il mio discorso è un altro, e riguarda i due punti essenziali, e proprio nell’ottica di indagine dei fondamenti dell’umano e delle tensioni che lo animano, introdotta da @Evelina e, mi pare, da @Helena. Il primo è il carattere di necessità: credo di aver espresso molto chiaramente la mia opzione in favore di una letteratura che osi al di là dell’indicibile, e dunque non è il drammone o l’orrore a spaventarmi, ma la mancanza, in Sortino, di un acquisto gnoseologico che tale ardire tematico (l’orrore degli orrori, poi: un padre che rinchiude e stupra una figlia) giustifichi. Lo avete sentito mai nella narrazione, questo carattere di necessità, al di là della singola pagina o della singola sequenza più o meno riuscita?
E qui arriviamo al secondo requisito per me indispensabile in una narrazione che voglia osare l’inosabile e raccontare l’irraccontabile e viceversa da Sortino ampiamente disatteso, che è la sorpresa. Vorrei sapere dai supporter di Sortino se e quando, leggendo il suo libro, si siano mai sentiti sorpresi, stupefatti, sconvolti da qualcosa (una descrizione, un’immagine, un paragone, una sequenza, un volto, un’allusione) cui non avessero pensato già da soli, leggendo la quarta di copertina o essendo anche solo vagamente a conoscenza del fatto di cronaca in questione.
Qualcuno prima citava “Le benevole” di Littell, che è un libro molto più crudo e anche molto più romanzato di “Elisabeth”, pur partendo da una situazione storica “reale” o verosimile. Benissimo: ma perché mi costringo a subire, in quella lettura, descrizioni dettagliatissime di morti ammazzati e dei vari sistemi orrorifici di trucidamenti e punizioni corporali senza provare il senso della ripetizione e della noia che mi invade implacabile quando leggo degli stupri del mostro nel libro di Sortino? Probabilmente perché Littell mi costringe, sin dall’attacco, a compiere un rovesciamento di prospettiva, impedendomi di sentirmi estraneo ai fatti, alla maniera, diciamo, di un tranquillo spettatore un po’ masochista che s’infligga filmettini truculenti per esorcizzare qualche suo mostro interiore, e, viceversa, chiamandomi a correità, costringendomi a sentirmi implicato, perché avrei potuto trovarmi “lì”, “come lui”, nella necessità di agire “a quella maniera”. Sortino questo scarto non lo compie: non mi sento implicata in questa vicenda come lettore/essere umano nemmeno per un istante, e nemmeno per un istante sento, da parte del narratore/essere umano, quel carattere di necessità, ripeto, che solo avrebbe fugato il sospetto della trovata commercialmente accattivante.
[A margine, vorrei chiedere a chi sostiene, in questa discussione e altrove, che avrei “stroncato” Sortino per ragioni estrinseche all’opera, se si sentirà mai, qui o altrove, di compiere un passo oltre la frustrazione personale e il risentimento che vede, evidentemente, riflesso nell’operato altrui, e arrivare serenamente a pensare che la critica esista anche a prescindere da chi la esercita: come metodo, come indagine, come discussione con una comunità – e non col proprio ego – e nel merito dei testi. To be continued…].
sull’ultimo capoverso di Policastro, prima della parentesi: a me (intendo, a un lettore possibile) è successo il contrario: ho trovato Littell prevedibilissimo, chissà, magari perché il “rovesciamento di prospettiva” era più che annunciato, e non solo dal paratesto, ma – non ho il libro sottomano – dalle prime pagine; una volta individuata la specola del punto di vista, saputo che era quella, benché (o proprio perché si voleva) disturbante, non poteva che annoiare
http://www.ilrecensore.com/wp2/2011/07/elisabeth-un-esordio-importante/
1) «compiere un rovesciamento di prospettiva, impedendomi di sentirmi estraneo ai fatti», chiamare a una «correità», sentirsi implicati…
Anche in questo caso, concordo con Gilda Policastro. Questo credo sia davvero un limite dell’opera di Sortino. Tantopiù che, verso la fine, si allude proprio a una tale condizione psicologica (il sentirsi implicati e chiamati in causa) quale misura del disagio umano profondo provato dai poliziotti costretti ad ascoltare quel che è accaduto in quel bunker.
2) Una notazione di ordine generale.
Ogni testo letterario che si possa definire tale è un universo narrativo molto compatto, in realtà (anche il testo più imprevedibile ha una sua «regola» compositiva). Ed è sempre segno di fragilità narrativa il dire quel che, di fatto, non si riesce a far accadere.
3) Un’ultima considerazione di metodo.
Riconoscere quel che non va in un testo, così come riconoscerne il valore (come ho detto precedentemente proprio a proposito di Sortino e di questo romanzo), è una forma altissima, a mio avviso, di rispetto del testo, dell’autore, e del proprio mestiere di scrittore o di critico. L’importante è argomentare il proprio giudizio in modo circostanziato, non pedante, e anche in modo intellettualmente generoso, se si riconosce comunque che il gesto compiuto da un certo autore si porta con sé un progetto letterario magari ancora non-pienamente-realizzato.
Personalmente, credo che questa tensione a Sortino si debba riconoscerla (nonostante l’irritazione che hanno ingenerato in me come lettrice certe ingenuità abbastanza eclatanti). Per il resto, beh, si verdà. Ogni «progetto» ha bisogno di tempo per rivelarsi tale o per esibire tutta la propria velleità.
Concediamo, com’è giusto che sia, a Sortino il tempo di cui ogni autore avrebbe bisogno.
@ Santangelo: difatti, non è questione di tifare per o contro Sortino – io faccio fatica anche a tifare per me stesso; e ho detto all’inizio della mia recensione che era solo un tentativo di lettura preliminare perché le cose che il romanzo mette in gioco sono tante
D’accordo, assolutamente. Il tifo è cieco. Per leggere i libri davvero, ci vogliono occhi vigili…
L’ultimo intervento della Policastro è molto più chiaro. Detto questo,
concordo con il suo punto di vista. E sono d’accordo sul fatto che è
bene che si parli di letteratura, e che il dibattito diventi “cosa da
condividere con una comunità”. Chissà, magari stiamo aiutando lo
stesso Sortino a migliorarsi, e non solo lui.
(Vorrei anche capire, io che sono fuori dai certe logiche, quanto poi incida
veramente la scrittura di Sortino, e quanto quella di un editor
nella gestione finale di un testo. Forse sia la Santangelo che la
Policastro ne sanno qualcosa a riguardo – la Santangelo in particolare
in quanto scrittrice Einaudi. Voglio dire: magari il libro di Sortino in
origine aveva una natura leggermente diversa, che è stata poi
“messa a posto, edulcorata” da un editor per renderlo più “leggibile” e quindi abbordabile per un pubblico più eterogeneo. Penso che in genere
funzioni così, o no? Ricordo un intervento di Giorgio Fontana che, dopo
aver pubblicato giovanissimo il suo primo romanzo con Mondadori,
diceva di riconoscere ben poco di quello che aveva scritto lui. In sostanza, il libro stampato era stato riscritto da un editor).
@Gilda: nemmeno a farlo il paragone con Littell. Sortino sembra veramente incolore di fronte all’autore de “lE BENEVOLE”. Siamo su livelli di scrittura che non possono essere comparati e non basta come alibi del “ROVESCIAMENTO DELLA PROSPETTIVA”. Nondimeno Sortino, coi suoi difetti, resta leggibile, che è l’unica condizione delle letteratura odierna.
Dino, ti rispondo volentieri sia come scrittrice che come editor.
Prima di tutto, ogni editing non è mai uguale a un altro. Dipende dal libro, dall’autore, dalle aspettative che si hanno riguardo a un certo libro e a un certo autore.
Dunque, anche il peso specifico di ciascun editing è molto diverso.
Ci sono libri molto editati e libri poco editati. Questo complica molto le cose, perché spesso risulta davvero difficile per un lettore comprendere quanto abbia giovato (o meno) un editing a un certo libro o autore. Vedi il caso di Carver.
Detto questo, direi che in casi come quelli di Sortino il ruolo dell’editor (almeno così come l’ho appreso lavorando in Einaudi) è quello di aiutare l’autore a far venir fuori quanto di meglio possa e sappia dare. In casi come quello di Sortino, molto sta alla capacità dell’autore di trarre il massimo dalla storia che ha deciso di raccontare, cercando di fare tesoro delle osservazioni dell’editor che, per libri del genere, sono tutte squisitamente di ordine letterario. Per questo, molti esordienti (e anche molti scrittori-scrittori) lavorano tantissimo di riscrittura prima che il testo giunga alla fase dell’editing.
Le logiche di leggibilità, commercializzazione riguardano un altro genere di libri, collane o case editrici, che di solito però puntano sulla leggibilità nella scelta originaria di libri già fatti così, diciamo. Il che non è affatto il caso di «Elisabeth».
Non mi è mai successo di sedermi per fare un editing e dire: «Adesso lo rendo leggibile e commercializzabile…»
Un buon editing rende un libro migliore ma non ne fa mai «un altro libro».
Spero di aver dato qualche delucidazione utile su un mestiere di cui tantissimi parlano, senza averne esperienza professionale diretta.
«L’esperienza rende muti», dice la O’Connor a proposito della scrittura. Beh, nell’editing, l’esperienza rende molto molto cauti, visto che è davvero difficle fare delle generalizzazioni.
La questione però, Evelina, a me pare assai più complessa (anche solo sul piano psicologico, che non è di poco conto in questo tipo di rapporti). Perché mai un editor dovrebbe, di per sé, garantire che un libro editato sia un libro ”migliore”? E perché il libro di un autore, specie il primo, non dovrebbe poter conservare quel carattere inevitabilmente ansioso della nascita, per dirla ancora alla Manganelli, che si tradurrà altrettanto inevitabilmente in goffaggini, imperfezioni, ma anche, allo stesso tempo, in qualcosa di profondamente originale, unico, suo proprio? Prendiamo l’arcinoto caso Carver: era una specie di luogo comune editoriale che i famigerati tagli gli avessero grandemente giovato e quando poi si è avuto accesso alle versioni originali dei racconti si è avuta, invece, tutt’altra impressione. Il rapporto tra autore ed editore è assai intricato, specie se l’editor è anche, come spesso avviene, scrittore a propria volta o aspirante o ex tale. Ed è un rapporto che io ritengo virtuoso solo se funziona in senso maieutico, cioè se aiuta lo scrittore a liberarsi, specie rispetto al primo libro, ripeto, da una serie di autocensure e inibizioni che agiscono inevitabilmente sulla stessa scrittura, ancor prima che nella revisione editoriale. Ho scritto così perché altrimenti il lettore avrebbe pensato che…oppure, ancor peggio, perché il lettore potesse avere una speranza (ho avuto anche una risposta del genere, da un autore). Innegabilmente, su un editor agiscono altre pressioni introiettate, anche quelle della spendibilità commerciale, nasconderselo secondo me è inutile, perché diventa lampante a partire dalla lingua. Leggere i libri di narrativa, ultimamente, è leggere un po’ sempre la stessa lingua, mutatis mutandis (ma poco). C’è una koinè Einaudi, una koinè minimum fax, ma lo dico senza eccessiva polemica. (Bourdieu sostiene che gli autori scrivano ormai i loro libri pensando direttamente agli editori e alle collane in cui vorranno pubblicarli). Forse però sarebbe il caso di rifletterci, e di aiutare gli autori, quando di autori si tratti, a non omologarsi. Con questo non intendo dire che l’editor di Sortino gli abbia esplicitamente detto: dissemina il testo di metafore teriomorfe, specie la bestia in gabbia che rende bene l’idea. Spesso l’editing è un’operazione meno diretta e meno immediata di quanto non si tenda a pensare, ed è fatta più di aria, cioè di impressioni, percezioni, divieti impliciti, che di segni materiali sui fogli. Nei casi che conosco direttamente, è andata così.
Sì Santangelo, ma se uscissi fuori dall’ermetismo in cui ti sei barricata, con la citazione ad hoc che ti rende muta. In somma che fa precisamente un editor, le pagine editate in cosa cambiano rispetto a quelle da editare?.
Vorremmo saperne di più senza scomodare torri d’avorio su un mestiere che ha indubbiamente un suo fascino. Anche un esempio che tiri in ballo Sortino ci allargherebbe i cuori. Poi i tuoi segreti professionali non li diremo a nessuno e staremo zitti, infine.
Policastro
o getta il sasso e spacca qualche vetro oppure è inutile tirare a salve. lei non può dire quello che dice “senza eccessiva polemica”. ma stiamo scherzando?
in più non sono certo dalla parte degli scrittori io, almeno non del sindacato degli scrittori, assolutamente no. anzi.
l’editor di Carver tal Gordon Lish fece di Carver un grande scrittore, perché è il minimalismo carveriano a fare scola, e non il brodino dentro cui annaspano I principianti, che non avrebbero mai e poi mai appiccicato a Carver alcuna qualità distintiva letteraria.
gli autori dovrebbero avere più rispetto di sé stessi e di quello che fanno, difendere coi denti e coi rifiuti alla prostituzione il proprio risultato. Invece il campo è disseminato di papaverini che non sanno cosa stanno facendo dove vogliono andare e perché hanno imboccato via nomentana invece che scendere a largo preneste.
Uno che presenta un romanzo a diciotto anni io editor o lettore di casa editrice o editore glielo rispedirei senza leggerglielo e con allegata una copia della Divina commedia e uno spinello: “… poi ne riparliamo”. Giudizio finale.
Policastro, parli di omologazione linguistica, tieni raggione, ma lì l’editor non credo faccia molto di più che rimettere a posto qualche doppia siamese o qualche virgola alla Totò…
gli autori che presentano i loro cosi non sanno nemmeno dove sta la musica né il muscolo né la mucosa della lingua viva o di quella morta. l’editor gioca in casa.
Gilda, come tu dici, la questione è assai complessa, e parlare di editing in generale, a mio avviso, è un errore.
Almeno lì dove si discute di autori più prettamente letterari e consapevoli, come nel caso di Sortino.
Quell’uniformità, ripeto, ammesso che ci sia (e a me non sembra affatto che nella narrativa italiana Einaudi ci sia, e meno che mai un’uniformità di scrittura), deriva da scelte fatte a monte, non dal lavoro sul testo. Non si lavora su un testo per renderlo più leggibile o appetibile, a meno che non si tratti già di un testo scritto in quel modo. il che non fa affatto al caso di Sortino.
Né mi sembra che il testo di Sortino non abbia conservato, accanto ai suoi pregi i suoi difetti. Difetti che, come vedi, io stessa ho sottolineato – mi sembra –, senza alcunissima remora, dal momento che il fatto di essere anche un editor non ha modificato di un millimetro la mia passione per la letteratura. È mio dovere, in quanto editor, capire anche dove c’è un’autorialità e dove non c’è affatto (in quel caso intervengono ben altre ragioni prettamente commerciali… Così non ti nascono che mi stupisco non poco quando vedo certa critica accanirsi a celebrare o distruggere non-autori, palesemente tali, mescolando la letteratura con quel che letteratura non è né vuole essere…)
Quando dico «rendere migliore» un testo mi riferisco proprio al dialogo fittissimo che spesso si instaura tra editor e autore, che non è un dialogo tra analista e paziente, ma un dialogo tra una sorta di lettore che ha imparato a conoscere profondamente un certo testo (il testo su cui deve lavorare) e l’autore.
Andrea, nessun ermetismo. Il fatto è che l’editing non è una teoria è una pratica. Ogni editing che ho fatto non è stato mai simile a un altro. Chi ha avuto modo di seguire delle mie lezioni di editing lo sa. Prendiamo i testi e guardiamo cosa è accaduto, come e perché.
Sortino ha talento e tigna (per dirla con sanguinetiane parole piane). Policastro, la linea e’ sottile.
ELIZABETH – di Paolo Sortino (Einaudi)
[nota pubblicata da Daniela Matronola il giorno lunedì 23 maggio 2011 alle ore 18.24].
Paolo Sortino (forse) non lo sa ma quell’immagine a pagina 46 di Elizabeth: Josef Fritzl emulo di Buck Mulligan in vestaglia gialla, tenuta su dall’aria mattutina, che dall’alto delle scale, in mano un bacile pieno di schiuma con rasoio e specchio incrociati, intona tonante: Introibo ad altare Dei, è più di una citazione letterale dalla prima pagina dell’Ulisse di Joyce. Interrogato opportunamente su questo dettaglio, Sortino schermendosi riferisce di aver voluto solo attribuire a Josef Fritzl quello che si può ascrivere a qualunque comune lettore (a qualunque persona comune, ordinaria e spettrale), e cioè di essere uno che, per esempio, nei grandi libri, ordinariamente, non sa andare oltre le prime pagine.
Ma la questione non è per niente così banale, quel dettaglio è una spia, terribile e preziosa.
Leggere Elizabeth è un’esperienza all’inizio scioccante. Si fa fatica per almeno le prime 50 pagine ad affrontare la tremenda materia segregazionista, l’orrendo catenaccio che avvinghia una figlia ad un padre, il quale, dunque, come in un celebre dipinto di Lucien Freud, è un enorme topo, dal capo smisurato, dallo sguardo feroce, (nel caso di Josef, un uomo dal corpo forte e scattante, macchina violenta perfetta), che soggioga i figli, li controlla dall’alto, dalla posizione di vantaggio di adulto autoritario [il quadro in questione è Reflection with Two Children (Self-Portrait) 1965 © The Artist Collection Museo Thyssen-Bornemisza, Madrid]. Qui non si tratta certo di esercizio dell’autorità, ma di un diritto di proprietà arrogato da un padre orco, che evidentemente ha una sua visione, distorta e arbitraria, della facoltà, anche questa arrogata con prepotenza, di disporre della giovane figlia, la diciottenne Elizabeth, vedendo in lei (questo è il punto) non una creatura umana con dei diritti ma un simbolo – il simbolo del mondo sotterraneo in cui Josef finisce con volontà oscura per ricreare l’omologo strutturale della propria famiglia emersa (creata con la debole Rosemarie), ormai dispersa con la diaspora dei figli (messi in fuga da simile padre), per riorganizzare una rete di affetti appropriati, arrogati, pretesi, presi con la forza, imposti con la violenza, ma tenuti al riparo, sottovuoto, in cassaforte. Un tragico mondo ideale in cui si affaccia subito la deformità – la stessa Elizabeth, provata dalla privazione e da una sofferenza inaudita che le sfonda la coscienza e la obbliga a ipotizzare nuove forme di rapporto col proprio carceriere e violentatore, a ingaggiare rapporti di forza sempre nuovi secondo equilibri impossibili mai stabili, è devastata, imbruttita, ‘abbrutita’, sdentata, piagata, emaciata.
Un quarto, il primo 25%, del libro, è terrificante. Scritto in modo avvinghiante, e inaffrontabile per il dolore vivo che dà. Anche Ulisse, con tutt’altro tono e con scrittura masticata e ispida (anche se Joyce opera quella trasformazione della prosa in flusso autonomo e bizzarro nel corso di tutto il romanzo, partendo quasi, apparentemente, realista – dopo si abbandona a tutti i funambolismi che la sua stessa scrittura aveva in serbo per lui), anche Ulisse dunque per un buon centinaio di pagine iniziali è respingente.
Di questo è piuttosto, dunque, spia quel Buck Mulligan che qui, nel romanzo di Sortino, fa capolino a pagina 46.
Ma non solo di questo. Il rapporto che si instaura con questo libro è contraddittorio e dolente. La scrittura è portentosa, quasi priva di sbavature. La materia è irreggibile, quasi del tutto inaccettabile.
Per giunta il caso di cronaca vera che ne è tessuto narrativo è recente (la vicenda venne alla luce nel 2008, 24 anni dopo la sparizione di Elizabeth, avvenuta appunto nel 1984), i dettagli ci sono noti, sappiamo “come è andata a finire”. Ma il punto è che il libro ricostruisce un tessuto relazionale che ci è ignoto, perché non può essere immaginato.
Giustamente qualcuno ha parlato, per questo romanzo, di una parentela con i primi libri di Ian McEwan, con Il Giardino Di Cemento – in realtà la materia torbida, che questo libro condivide con una fase del lavoro di McEwan, era ingente e bullicante anche in Cortesie per gli Ospiti, in Cani Neri, in Lettera a Berlino, in Primo Amore, Ultimi Riti, in Fra le Lenzuola. Raccontare l’uomo come carne e ferinità. E tirare fuori l’essenza ancestrale che è tenuta a bada dalla civiltà, dalla civilizzazione, ma dopotutto è lì, pronta forse a emergere a sorpresa, o ancora di più a ricacciarci nelle viscere della nostra animalità, a tradimento, a nostra insaputa, a dispetto di noi.
In questo Sortino è qui decisamente potente, arcaico, inclemente.
Ed è la sua scrittura a alzare il tiro, a far approdare questa vicenda e i suoi ‘eroi’ sulle plaghe glabre dell’esemplarità.
C’è un nitore gelido, una pulizia operatoria nel dispiegamento dei dettagli degli oggetti dei gesti delle azioni degli scambi tra le creature atroci di questo fatto. E’ pazzesco, per dire, come sia resa perfettamente la perfezione e il perfezionismo con cui Josef nel tempo fonda radica struttura edifica e poi amplia il mondo sotterraneo di sussurri e bisbigli costruito attorno a Elizabeth – come Josef era stato mostrato scattante atletico piccolo ed efficiente e dunque imbattibile come sopraffattore così è mostrato preciso accurato metodico sistematico come fabbricatore.
Ascoltandolo alla radio, ho sentito Sortino raccontare come abbia lavorato con metodo alle sue metafore. E’ pazzesco, in ogni pagina di questo libro c’è almeno una metafora visuale che ti rende familiare l’orrore. E’ pazzesco l’allarme in cui si viene tenuti, pagina per pagina, con la percezione netta che quell’assurdo feroce che ci viene raccontato verosimilmente ci è prossimo molto di più di quanto crediamo. La differenza con McEwan forse è questa. O forse, come succede con le parole di cui non riusciamo più a scorgere le origini, qui conosciamo l’antefatto vero perché ci è temporalmente e cronisticamente vicino – per le storie di McEwan no.
Ho sentito parlare per questo romanzo di mitologia, di archetipi.
Forse converrete anche voi che Freud, non il pittore (nipote, figlio di suo fratello) ma Sigmund in persona, con la psicanalisi ha smantellato la mitologia, l’ha esposta al concreto rischio di farsi oggetto di consumo – e così facendo l’ha privata d’ogni aura adoratoria smantellando anche, fondamentalmente, ogni residuo di riservatezza, ogni riparo o spiraglio d’appartamento per l’anima. L’anima s’è trovata nuda … così ignudata! Si è volatilizzato quel sacro che è l’ermetismo dell’anima, non tanto e non solo come mistero sigillato e inattingibile quanto come luce dinamica che si manifesta per lampi, per vertici visuali.
In modo completamente distorto e distorsivo Josef e la sua Elizabeth replicano nel sottosuolo sottovuoto spinto un nucleo familiare apparentemente regolare – nascono figli, ipovedenti, deformi, malaticci. Uno dei gemelli (nati nel 1996) muore, ed è pazzesco il racconto di come Josef, col suo know-how di falegname e fuochista, elimina il cadavere del neonato, un bambolotto via via sempre più rigido tenuto per il tallone, punto-chiave achilleo. E’ pazzesco come l’uomo pratico, il pragmatista, guarda fondere il cadavere nella stufa e per la prima volta sente vacillare la sua interezza di malvagio naturale. Il dolore più grande dato da questo libro non è neppure, o non solo, la cattiveria pura e selvaggia di Josef (cattiveria in senso originario, è un captivus, un recluso mentale, che non fa che costruirsi gabbie di cemento in cui però trascina anche chi desidera) ma la cautela politica di Rosemarie (moglie certamente atterrita e desiderosa di non conoscerne in dettaglio i motivi) e l’adattamento di Elizabeth che si trasforma in disperata devozione.
Dopo 24 anni di sposalità forzata in cui Elizabeth ha intrattenuto con Josef rapporti di forza peraltro non scontati, in cui spesso è passata a condurre facendosi armi dei figli, la struttura chiusa della loro relazione ha scavato un pozzo profondo verso le viscere della Terra e delle loro coscienze, e la proditoria scoperta della mostruosità che li costringe a risalire in superficie apre all’esterno come un apriscatole il loro mondo orrendo, affacciando nella loro ‘normalità’ l’anormalità minacciosa del mondo normale con le sue regole le sue leggi la sua morale il suo senso etico. Allora cogliamo un altro prodigio letterario (la vicenda orrenda ha perlomeno donato frutti alla letteratura, e questa non è in ogni caso una consolazione): c’è un al di qua reclusorio dentro il quale i pensieri, le parole, gli affetti, le relazioni pur assurdamente hanno trovato terreno aspro ma fruttuoso, la tenacia della vita ha proliferato, nel canale separato è fluito discorso, un flusso continuo e ininterrotto di coscienza arrembante, a dispetto di tutto, disordinato e inarrestabile – questa è un’altra, certo estrema o estremistica, parentela joyciana, magari fortunosa ma a conti fatti documentabile. Come appare documentabile la parentela stretta di Josef, più che col Prufrock che già sapeva tutto e conosceva tutti ed era stranito dalla visione delle donne vocianti che nella stanza parlavano di Michelangelo mentre lui provava a intonare il suo misero canto d’amore, col laido Sweeney agonista…
Intanto il corpo sociale inconsapevole e sordamente sofferente, progressivamente incosciente, ridotto a vegetare e definitivamente ignaro, aveva covato un male che nel chiuso delle sue strutture nel tempo, con aggravamento lento e inesorabile, e con esito quasi infausto, ha prodotto sottostrutture di materia – è tristemente vero alla storia che Kerstin, la primogenita dell’incesto, aveva sviluppato una fibrosi cistica, ma è anche una prodigiosa metafora.
Aggiungo un paio di cose:
1. so, da Sortino medesimo, che un lavoro di editing, una sorta di ‘scultura in tandem’ gomito a gomito con un editor, Sortino li ha attraversati – avrei sperato che qualche lieve sbavatura che pure io continuo a vedere (ma proprio pochissima roba) riuscisse definitivamente a sparire, ma tant’è, sta là, senza peraltro inficiare l’autorevolezza del libro, né incrinare la meravigliosa brutalità della voce nella pienezza della lingua;
2. la questione della madre, cara Evelina Santangelo, mi interessa parecchio, anzi mi riguarda – intendo dire, come problema letterario, come tema da affrontare letterariamente …
In “Elizabeth” la forza di Elizabeth-persona è la sua maternità, come status acquisito in cui consiste il suo percorso di consapevolezza del sé. In una presentazione, Sortino ha detto: la condizione estrema, di privazione assoluta di Elizabeth, cui è tolto tutto, rendono il ‘gioco di questa pedina’ una partita col niente che è a disposizione. Il campo arato dalla sopraffazione totale e orchesca di un maschio assurdo che è un padre incestuoso, Joseph, è arido totalmente. E’ Joseph che ci mette alla lettera il seme, e questo rende Elizabeth madre. Molte volte. Bene, anche questo le viene dato, direi inflitto: essere madre, e Elizabeth lo diventa. Prima animalescamente, inesorabilmente. Ma noi sappiamo che le madri sono leonesse, per definizione, per fisiologia. La maternità è una forza. Elizabeth ha solo quello, il suo corpo, di umana e di donna, con il suo funzionamento, la sua idraulica, il suo metabolismo increscioso, e con la sua potenza creatrice che ringhia protezione e tutela dei figli. Elizabeth nell’essere madre, nel tutelare entro le ristrettezze del bunker per il poco che può, prende spesso il controllo della sua situazione, prende il sopravvento sul marito/padre. Essere madre non solo le dà dignità ma la rende forte, e ne fa una protagonista di una vicenda assurda in cui il suo ruolo dunque non è solo subire.
E’ alla fine piuttosto significativo il fatto che una volta tornati in superficie e esposti al giudizio dell’attonita comunità, delle sue autorità che 24 anni dopo scoprono tutto quello che non anno voluto vedere e possono consolarsi e assolversi nei riti giudiziari che rimettono tutto a posto, Joseph e Elizabeth si guardano confusi, ed è Elizabeth a rivolgere sguardi di pietà a suo padre…
Ciò che conta, poiché parliamo di un romanzo, è la prodigiosa reificazione di una vicenda incredibile grazie al dettato di una scrittura romanzesca (appunto).
… ovviamente “non HANNO voluto”… roba da pazzi