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Documenti TQ

[Questi documenti sono un invito al dialogo e alla formazione di comitati TQ, rivolto a tutte le categorie di trenta-quarantenni che vorranno lavorare assieme, riconoscendosi in queste prime analisi e ipotesi di lavoro. Chiunque voglia aderire con proposte e idee può farlo scrivendo a: tq.adesioni@gmail.com ; per il sito: generazionetq.wordpress.com]

Manifesto TQ

All’inizio del suo secondo decennio, il nuovo secolo appare ancora come un Novecento svuotato di senso. Sono caduti insieme alle ideologie anche gli ideali, insieme all’autorità del passato anche la forza del futuro, insieme alle certezze morali anche quelle materiali. Nel nostro Paese quei diritti del lavoro che erano sentiti come naturali sono stati sempre più indeboliti, e hanno cambiato di significato a seconda di chi li nominava. Lungo i nostri confini, intanto, si agitano e premono ogni giorno, con le diverse ribellioni della migrazione e del tumulto, le urgenze di milioni di uomini e donne ai quali si è scelleratamente risposto quasi solo con i CIE, veri lager dissimulati.

Se questi tempi ci sono dati da vivere, e questi sono i tempi che possiamo leggere, in cui possiamo scrivere, è giocoforza per chi lavori nell’ambito della letteratura e dell’editoria passare, dopo molti anni di indignazione solitaria, ad analisi e azioni comuni da condurre con la nettezza radicale del dovere. Questo significa, innanzitutto, osservare il diffondersi del neoliberismo come un’epidemia dell’Occidente, non solo a causa delle destre ma anche di alcune presunte sinistre e dell’inconcludenza delle altre forze poltiche; riconoscere tanto quella pericolosa incarnazione demagogica del pensiero neoliberista che è il berlusconismo, con il suo portato insostenibile di autoritarismo, di sprezzo della legalità e di saccheggio, per bande private, dei beni comuni, quanto quell’ignobile razzismo padano che è il leghismo; constatare il decadimento della partecipazione democratica, il degrado dell’informazione, la distruzione del patrimonio culturale e lo smantellamento del sistema scolastico pubblico, nonché l’espulsione mirata delle donne dal mondo del lavoro e la rappresentazione deformata dei loro corpi nella pubblicità e nei media da parte di una società a cui sembra essere ancora estranea una vera cultura della differenza; ma significa anche, infine, agire, provando a correggere, nei limiti del possibile, il deficit di rappresentanza politica, la definitiva perdita di autonomia decisionale del Parlamento, la confusione e la volgarità del discorso pubblico, l’autodifesa a oltranza di quella che è un’oligarchia politica de facto, incapace di ascoltare le esigenze delle fasce più deboli, le rivendicazioni dei movimenti della società civile e le spinte di una moltitudine di cittadini senza cittadinanza in un Paese ormai multiculturale.

Reagendo a questo stato di cose e all’esclusione di almeno due generazioni di italiani dalla vita politica e produttiva, il 29 aprile del 2011 un centinaio di scrittori, critici, editori, giornalisti si sono riuniti nella sede romana della casa editrice Laterza sotto il nome di TQ, «Trenta-Quaranta», come l’età di chi ha partecipato, invocando quest’assunzione di responsabilità collettiva: con la certezza che la nostra generazione porta su di sé, per la prima volta, il fardello di mutamenti storici che riguardano tutti, e in particolare i più giovani. Nei mesi successivi a quell’appuntamento i partecipanti hanno dialogato tutti insieme in rete, concordando sull’importanza di coniugare l’uso delle nuove tecnologie e la partecipazione fisica a incontri e iniziative.

Se TQ si è formata e continua a operare, non è solo per discutere, ma per intraprendere un cammino condiviso di conoscenza e di azione. Per abbracciare, con l’analisi e la pratica, i temi vasti e intrecciati dell’istruzione, della ricerca, del welfare, del mercato, degli spazi pubblici, della produzione e della distribuzione di cultura. E per ricomporre, contribuendo a riscriverne i termini, quel patto sociale che si è rotto sia per il venir meno del rapporto diretto tra crescita del livello d’istruzione e crescita del reddito, che aveva costituito in passato il fondamento della mobilità sociale, sia per l’annullamento unilaterale del mutuo scambio tra la nostra generazione e quella precedente. TQ non cerca, tuttavia, uno scontro aperto da vivere simbolicamente come «uccisione dei padri» – o delle madri. Si propone, invece, di evitare gli errori della generazione precedente, e al tempo stesso di tenere con chi è venuto prima di noi uno scambio più autentico e profondo, che andrà impostato, comunque, su regole nuove; si propone, quanto a sé, di fare un costante esercizio di autocritica, sia individuale sia collettiva, e di assumersi obblighi – troppo spesso trascurati da molti, e forse anche, finora, da noi stessi – di chiarezza, correttezza e condivisione; si propone, infine, di agire anche e soprattutto con il pensiero rivolto alle generazioni che verranno.

TQ si è raccolta, dunque, non attorno a istanze estetiche, bensì politiche e sociali. Questo non è, infatti, un movimento artistico o letterario nel senso novecentesco del termine, ma un gruppo di intellettuali e lavoratori della conoscenza che ha l’ambizione di intervenire nel cuore della società italiana e nel tessuto ormai consunto delle sue relazioni materiali, di indicarne con maggior forza le lacerazioni – partendo dalla sistematizzazione della provvisorietà lavorativa, la vera ferita generazionale su cui si sono incistati molti dei mali contemporanei – e di avanzare una nuova visione operativa della cultura, in grado di contrastare finalmente l’incessante svalutazione che ha subito il concetto stesso di cultura e il ruolo di chi la produce e la diffonde. TQ considera la cultura un bene comune come lo è l’acqua: un bene a cui l’accesso deve essere universale e tendenzialmente gratuito e la cui gestione deve essere rigorosamente laica e basata sulla competenza. Solo in questo modo, solo combattendo ogni contrapposizione tra derive populiste e torri d’avorio, tra semplicismi anti-intellettuali e snobismi bizantini, si potrà arginare il dilagante disprezzo per il rigore e la fatica che lo studio richiede e restituire all’opinione pubblica adeguati strumenti di lettura del nostro tempo. Anche a questo scopo TQ promuoverà seminari pubblici sui saperi sia umanistici che scientifici ed economici, non solo in una prospettiva di interdisciplinarità ma anche e soprattutto di critica dei saperi stessi.

Nell’intento, poi, di contrastare una preoccupante identificazione tra qualità e quantità in ambito culturale, un ricorso esclusivo a misurazioni numeriche, economicistiche, della conoscenza, TQ si impegna a praticare e a pretendere l’uso di filtri critici in grado di riconoscere e premiare la qualità. Per questo TQ adotta come uno dei suoi principi d’azione la promozione della bibliodiversità, difendendo la complessità e la varietà delle scritture in un panorama editoriale prevalentemente orientato ai criteri estetici e produttivi del largo consumo.

Questo non è un appello che basti firmare: questo è un invito, aperto a tutti coloro che lavorano nell’ambito della cultura e delle arti, a pensare e ad agire assieme, deponendo egoismi e rivalità; a mettere in gioco parte del proprio tempo e in discussione il proprio ruolo artistico o intellettuale, e a essere fortemente, fieramente cittadini, operando da mediatori tra i saperi, intervenendo nel dibattito politico, immaginando nuovi modelli di pratiche sociali. È un invito che estendiamo poi a tutto il Paese, un invito al dialogo e alla formazione di comitati TQ, rivolto a tutte le categorie di trenta-quarantenni che vorranno lavorare assieme a noi: dai ricercatori agli economisti, dagli artisti di altre discipline ai lavoratori dello spettacolo, dagli insegnanti agli operai, dai free lance ai precari del terziario avanzato – molti di loro, proprio come noi, alle prese con una somma ennesimale di ruoli distinti: nella stessa giornata, più volte al giorno

In questo tempo di emergenza l’adesione a TQ si fonda dunque su un impegno etico in vista di un’azione politica, su un passo personale in vista di impegni collettivi. Siamo ormai pienamente convinti, infatti, che non sia più sufficiente dedicarsi ciascuno per sé, con distaccata purezza, all’arte e alla letteratura: oggi più che mai è necessario praticare un’alternativa umana e comune al lungo sonno della ragione.

*

Manifesto TQ/2. Editoria

In un tempo in cui l’editoria non si distingue ormai più da qualsiasi altro settore dell’economia, con l’aggravante dello sfruttamento che molti di coloro che la dirigono fanno della passione di coloro che vi lavorano, in un tempo in cui gli editori non scelgono più i bei libri sperando che vendano, ma i libri che vendono sperando che siano belli, TQ ritiene che l’editoria, pur essendo un mercato, non possa tuttavia essere solo un mercato senza rinunciare a essere anche uno dei luoghi elettivi in cui si forma la coscienza dei cittadini; e vuole che il libro sia sottratto allo statuto di merce e restituito a quello di un bene alla cui preservazione dev’essere interessato anche chi non legge.

Dovendo dunque contrastare i deserti e le derive che il consumismo e il capitalismo hanno prodotto nel campo della cultura, TQ si impegna ad agire secondo quelli che possono essere definiti come criteri di «ecologia culturale» al fine di proteggere e coltivare l’unicità e la varietà delle scritture, e assume come criterio cardinale la bibliodiversità, battendosi contro l’omologazione delle scritture indotta da una produzione editoriale sempre più orientata al largo consumo. In secondo luogo TQ, constatando come la quantità di libri pubblicata ogni anno sia ormai ampiamente oltre la soglia della sostenibilità non solo culturale ma addirittura commerciale, si fa promotore di una proposta di riequilibrio nella produzione dei libri che impegni gli editori a privilegiare la qualità rispetto alla quantità.

Nell’operare di TQ, due sono le preoccupazioni che ne dettano le scelte, l’una strettamente legata all’altra: etica e qualità.

Etica. L’etica di TQ editoria è improntata a un continuo impegno di trasparenza e di riconoscimento della competenza e del merito.

Trasparenza. TQ promuove la trasparenza e la pubblicità, da parte degli editori, delle modalità di ottenimento e di gestione dei finanziamenti pubblici (contributi, provvidenze, agevolazioni) e le eventuali forme di reinvestimento non lucrativo. TQ invita inoltre a compiere un’opera di divulgazione dei meccanismi – e delle anomalie – che governano la filiera editoriale.

Concentrazioni editoriali. TQ difende e sostiene l’indipendenza e l’autonomia in ogni segmento della filiera; intende inoltre individuare e formulare proposte di correzione per ogni stortura che provenga dalla concentrazione, nelle mani di pochi grandi gruppi, non solo della fase di produzione dei libri (concentrazione orizzontale attraverso la proprietà dei maggiori marchi) ma anche di quella di distribuzione e vendita (concentrazione verticale attraverso la proprietà delle reti distributive, delle catene librarie e di altri servizi editoriali).

Diritti del lavoro. TQ si impegna a promuovere la dignità e i diritti dei lavoratori editoriali stabilendo regole e parametri e approntando contratti e tariffari di riferimento per i mestieri dell’editoria, dai correttori di bozze agli impaginatori.

In particolare, prendendo posizione in favore di una delle categorie professionali più importanti e meno tutelate dell’editoria, TQ si farà promotore di una campagna pubblica affinché il nome del traduttore appaia quantomeno sul retro di copertina e nel frontespizio interno di tutti i libri e sia sempre citato nelle recensioni e nelle segnalazioni su giornali, radio, televisioni e internet. Inoltre TQ intende redigere e far adottare quanto più possibile un tariffario generale che, contemperando le esigenze degli editori e quelle dei traduttori, esprima standard minimi di compenso per le varie lingue. Nel suo sito, infine, TQ allestirà un database che favorisca il debutto degli esordienti più capaci e l’affermazione di traduttori che abbiano svolto poche traduzioni ma che abbiano dimostrato abilità e affidabilità.

Editoria a pagamento. Condannando senza compromessi antiche e cattive pratiche come l’editoria a pagamento o in conto d’autore e l’ottenimento di recensioni a pagamento o in cambio dell’acquisto di inserzioni pubblicitarie, TQ stigmatizza la legittimazione e la promozione che tali pratiche stanno ricevendo da gruppi editoriali di grande peso e prestigio in un processo di finta democratizzazione della cultura, in base al quale si considera ormai la pubblicazione come un diritto.

Sostegno pubblico. Esercitando una costante opera di pressione sulle forze politiche e sulle istituzioni competenti, TQ reclamerà l’attuazione di politiche di lotta al precariato in ambito culturale, nonché di promozione e sostegno ai libri di qualità e alle librerie indipendenti.

Ecosostenibilità. TQ promuove l’utilizzazione di carte, inchiostri, metodi di lavorazione dei libri e di smaltimento dei rifiuti pienamente ecosostenibili.

Qualità. TQ si impegna ad alimentare l’attenzione pubblica sulla questione della qualità letteraria, che è indipendente dal successo commerciale di un libro, e a fare ragionate battaglie contro le più deleterie derive mercatistiche dell’editoria italiana, come lo spostamento delle risorse delle case editrici dalla fase di produzione a quella di promozione dei libri.

Proprio in quest’ottica TQ intende costruire un circuito virtuoso per i libri di qualità che inizi anche prima della loro pubblicazione e che predisponga, attraverso i migliori critici letterari, librai e lettori, un’accoglienza attenta e qualificata in grado di aumentare la longevità, la risonanza e la redditività di quei libri.

TQ chiede anche agli autori di abbracciare e promuovere pratiche di qualità nel lavoro creativo e pratiche etiche in quello critico.

Sempre a tal fine TQ si ripropone di essere un riferimento e un raccordo tra le migliori voci della critica letteraria che sono, negli ultimi anni, sempre più isolate e inascoltate, così da conferire al loro impegno in favore dei libri di qualità ancora maggior forza e risalto e da fondare, insieme a loro, una nuova autorevolezza.

A testimoniare e consolidare questa militanza per la qualità letteraria vi è anche il proposito di TQ di segnalare opere miliari da tempo fuori commercio, creando un catalogo di grandi libri dimenticati.

Osservatorio sulle buone e cattive pratiche. TQ si impegna a realizzare un osservatorio sulle buone pratiche che censisca sul territorio i soggetti di qualità (case editrici, librerie, biblioteche, festival, agenzie letterarie e organi di informazione libraria) e a incoraggiare forme di solidarietà e cooperazione tra questi soggetti. Specularmente TQ si ripropone di denunciare in sede pubblica tutte le pratiche che contrastino con principi di etica e di qualità e in particolare quelle che tendono a erodere gli spazi della critica e a depotenziare il dibattito e la formazione di un’opinione pubblica: tra esse l’abuso delle anticipazioni dei libri e la pubblicazione, sui giornali italiani, di recensioni positive della stampa straniera fornite a spese dell’editore.

Anche in materia di premi letterari TQ eserciterà un ruolo attivo di osservatorio critico, al fine di documentare le dinamiche di selezione dei premi italiani e di segnalare pubblicamente le eventuali incongruenze tra le dichiarazioni di principio e gli esiti delle votazioni.

Infine TQ intende formare un nuovo pubblico, educare nel tempo una comunità di lettori forti, facendo riassaporare il piacere estetico della lettura attraverso interventi pubblici e seminari. Si ripromette di perseguire questo obiettivo anche proponendo e valorizzando, sia in ambito accademico che giornalistico, un’attività di critica letteraria in cui la recensione sia dialogo con il libro e con i lettori e bandisca gli slogan promozionali in favore di un giudizio complesso e competente.

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Manifesto TQ/3.  Spazi pubblici

Dopo una lunga stagione di vuoto partecipativo e individualismo ideologico, nell’intento di creare nuove forme di comunità culturale e di condivisione dei saperi e delle pratiche politiche, TQ non si limita alla dimensione immateriale della comunicazione letteraria e della proposta teorica. TQ ritiene infatti teatro della propria azione tanto gli spazi pubblici di carattere istituzionale, quanto spazi che TQ stessa contribuisca a rendere pubblici indipendentemente dalle istituzioni: luoghi dismessi, sofferenti, mercificati, di cui sia possibile riappropriarsi, restituendoli all’uso comune e modificandone la funzione.

TQ svolgerà le proprie attività in luoghi nei quali il dialogo possa avvenire in modo orizzontale, in spazi non elitari né commerciali. La definizione è ampia: può includere una piazza, una scuola, un centro sociale occupato o un festival letterario. Rispetto allo svolgimento delle attività, sarà importante mantenere una dimensione il più possibile aperta e conviviale.

TQ interverrà attivamente sul territorio e stimolerà la riappropriazione critica degli spazi pubblici e dei beni comuni, affiancando realtà già operanti e elaborando azioni autonome, come ad esempio:

  • il monitoraggio delle istituzioni del territorio e delle loro politiche culturali, affinché promuovano processi virtuosi di interazione col pubblico e progetti d’interesse comune, fuori da logiche puramente mercantili e clientelari. In questo quadro TQ considera una priorità la battaglia per la difesa e la riqualificazione delle biblioteche;
  • l’occupazione, temporanea o a lungo termine, di luoghi della cultura o da restituire alla cultura, e il sostegno a occupazioni già in atto;
  • azioni estemporanee di interposizione, disturbo o “guerrilla” culturale e artistica, in luoghi inconsueti o a forte connotazione politica e simbolica, come CIE, carceri, sedi di amministrazioni pubbliche, aziende.

per adesioni: tq.adesioni@gmail.com

71 COMMENTS

  1. Ho letto con attenzione.
    Mi piace il vigore del tono e della scrittura, cioè il tono di voce. Stentoreo ma non retorico, non reboante. Forte, vigoroso appunto. Tutta la pars destruens è talmente condivisibile da potersi ritenerla esatta al millesimo. La pars construens è molto buona nei principi, equilibratamente critica e decisamente interessante e sensata. Certo ci rendiamo tutti conto che c’è molto lavoro da fare, un’intera educazione da rifondare, una lenta conversione da operare su un intero sistema che è solido e ispessito abbastanza da opporre ostinata resistenza – è paradossale ma è così.
    Se posso aggiungere un’ulteriore tassello alla pars (ri)construens, vorrei suggerire che, a fronte dei principi sopra esposti, sensati, assennati, ci si impegni d’ora in poi tutti a non piegare il capo di fronte allo status quo nella ‘praticaccia’ quotidiana che è però esercizio doveroso e continuativo di tutto ciò si va giustamente praticando.
    Mi spiego.
    Gli editori che chiedono agli autori di contribuire acquistando copie dovrebbero piantarla e basta, oppure se proprio non possono non chiedere contributi si impegnino però in modo eccezionale e strenuo nella DIFFUSIONE delle opere, con tutti i mezzi.
    E’ solo un esempio ma forse è lì che si annida davvero il cancro del nostro sistema editoriale, nel quale molti editori sono stampatori – e non ci si illuda che questo riguardi solo i piccoli editori, anche i grandi e prestigiosi spesso non diffondono le opere, non creano attenzione attorno ad esse e agli autori. Anni fa, ed erano ancora gli anni Novanta, quando ancora qualcosa accadeva, un noto autore, certo eretico ma valido e molto, gridava giustamente alla PUSILLANIMITA’ degli editori piccoli e grandi, e aveva ragione da vendere.
    Cosa voglio dire?
    Voglio dire che le affermazioni di principio sono buone solo se si traducono in azione nel mondo reale. Sta a voi TQ mantenere le ottime promesse civili espresse nei tre documenti, ma a tutti noi, anche se postTQ per pochi mesi, continuare a svolgere un’azione di resistenza e di cambiamento avviata già da un pezzo e senza clamori.

  2. Seguo il progetto di TQ con interesse. La parte dedicata all’editoria mi ha convinta. Sono straniera, dunque sono “fuori”, ma la mia passione per
    la letteratura italiana si trova rinvigorita. Spero vedere emergere dall’ombra nuove scritture, in particolare poetiche nell’avventura del romanzo, forme diverse, allontanate da una forma aspettata, liscia, pulita. Mi pare giusto l’impegno sottolineato del traduttore ( vedere il mio commento su “all’ombra dell’altra lingua”).

    E’ un progetto vitale.

    Ringrazio Andrea Inglese per avere pubblicato qui il manifesto TQ.

  3. Ho letto con tutta l’attenzione che ho potuto. Se già il manifesto è un capolavoro, chissà le opere.
    Con la politica si fa sempre ottima letteratura, lo sappiamo.
    La guerrilla è però una tecnica pubblicitaria molto fighetta. Ormai la usano cani e porci. Dovreste casomai farvi arrestare veramente, oppure cercare di entrare con la forza a Montecitorio. Cose così.
    Farvi picchiare dagli accoliti di Borghezio. Questo funzionerebbe già di più.
    L’idea di lanciare volantini dagli aerei purtroppo è già stata bruciata da quel fascistone sdentato e cocainomane che sappiamo. Peccato, era bella.
    Impossessarvi manu militari delle più grosse case editrici del paese e stampare l’opera omnia di Scurati da distribuire nelle scuole.
    L’importante è non farsi scoraggiare. La Storia è dalla vostra parte.
    Diciamolo: siete pronti per l’assalto al cielo.

  4. Manifesto TQ/1. Ho due domande e una osservazione.
    Cosa si intende per “degrado dell’informazione”?
    A quali casi si fa riferimento con l’espressione: “espulsione mirata delle donne dal mondo del lavoro”?
    La rappresentazione deformata dei corpi delle donne nella pubblicità e nei media non è tanto una responsabilità di questa “società a cui sembra essere ancora estranea una vera cultura della differenza”, quanto una responsabilità di quelle donne che, forse con poca consapevolezza ma sicuramente con tanta volontà e soddisfazione, si prestano a farsi rappresentare in modalità deformi e svilenti (certo agli occhi altrui, non ai loro). Nessuno obbliga queste donne a prestarsi: domanda e offerta vanno a nozze (consensuali) come mai prima d’ora.

  5. Oggi provavo inter TQ a discutere di alcuni nodi che vengono sollevati anche qui nei commenti, e ho scritto questo appunto

    ——-

    Non è vero che non si parla di libri. Vorrei fare un altro esempio facile che userò, quando cercherò di spiegare quello che intendo con qualità e etica:

    sul Corriere di oggi, un giorno a caso, ci sono molti luoghi in cui si parla esplicitamente di libri di letteratura:
    1) la prima pagina [in cui ci sono ben tre box pubblicitari che ricordano due diverse iniziative del Corriere – l’uscita estiva in allegato dei Classici dell’avventura (prossima uscita, Jules Verne, nell’edizione tascabile Rizzoli a un euro e 80 in più) e l’uscita estiva in allegato dei Racconti d’autore (prossima uscita, un racconto di Luca Di Fulvio, autore Rizzoli)]
    2) a pagina 23 (sezione cronanche) c’è un articoletto diciamo simpatico di Stefano Montefiori (corrispondente a Parigi) che cita un articolo del settimanale francese “L’express” che butta lì un gioco estivo per scegliere i libri da portarsi in vacanza: scegliere una pagina a caso. Per l’Express è la pagina 99 – da cui il gioco si chiamerà “test della pagina 99”. Nell’articolo si cita McLuhan che invece preferiva la 69, e Gide che leggendo poche pagine di Proust non ne avallò la pubblicazione.
    3) Nella sezione Cultura e Tempo libero sugli appuntamento dell’estate, a pagina 7, si ricorda invece le iniziative di Capalbio Libri, tra cui la presentazione del libro di Federico Moccia, L’uomo che non voleva amare (Rizzoli), di Walter Veltroni, L’inizio del buio (Rizzoli), Viaggio in Italia, con la presenza di Paolo Mieli
    4) a pagina 29 (sempre Cronache) tutta la pagina è occupata dalla promozione dell’iniziativa del Corriere, Racconti a un euro. Ci sono due presentazioni abbastanza lunghe, una di Ennio Caretto che parla del racconto “Kosher Mafia” di Luca Di Fulvio, e una di Franca Porciani che invece parla di “Behave” scritto da Valeria Parrella (autrice Rizzoli). Altri due pezzi nella pagina ricordano le uscite precedenti, e quelle che verranno.
    5) pagina 32 è una pagina intera di pubblicità dell’iniziativa del Corriere dell’uscita seriale dei Classici dell’avventura a un euro e 80. Slogan: “Perché le avventure più belle non ci lasceranno mai più”.
    6) a pagina 35 (Economia/Mercati finanziari) c’è un boxino di pubblicità all’iniziativa del Corriere Inediti a un euro, le prossime uscite Di Fulvio e Parrella.
    7) pagina 36 è una pagina intera di pubblicità dell’iniziativa del Corriere della Sera Inediti a un euro, prossime uscite Luca Di Fulvio “Kosher Mafia” e Valeria Parrella “Behave”. Slogan: “Libriamoci” e “Perché leggere apre la mente e la libera le idee”. La campagna pubblicitaria è stata realizzata dall’agenzia http://www.thebeef.it, che ha anche per esempio inventato concorsi di scrittura per il Corriere.
    8) a pagina 37 (sezione Cultura) c’è un lungo articolo di Nuccio Ordine sul progetto di nuovo libro di Jean Starobinski su Diderot, annunciato per Gallimard nel 2012.
    9) tutta pagina 38 (sempre sezione Cultura) è dedicata alla promozione di un’altra iniziativa del Corriere, l’uscita in allegato al quotidiano, a 6 euro e 90 più il prezzo del quotidiano, dei gialli di Agatha Christie, nelle edizioni Rizzoli. Accanto a un paio di box informativi sul piano dell’opera c’è un lungo articolo-presentazione di Matteo Collura, che cita i grandi estimatori di Christie, da Sciascia a Eco .In uno dei due box informativi si ricorda l’iniziativa del Corriere.it “Scrivi la tua recensione”, (iniziativa a cura di Antonio D’Orrico): tutti i testi pubblicati verranno pubblicati sul sito e l’autore della migliore verrà premiato con una copia personalizzata.
    10) a pagina 39 (sempre sezione Cultura) si parla di un libro appena pubblicato da Aragno, Scenari italiani, che raccoglie il diario di viaggio di Edith Wharton in Italia.
    11) A pagina 49 (sezione Meteo) campeggia un bel box pubblicitario sull’iniziativa del Corriere I gialli di Agatha Christie. Slogan: “Il vero delitto è non collezionarli”. Campagna pubblicitaria a cura dell’agenzia Pepe Nymi.

    Ecco. Questo non breve elenco per me pone un po’ di domande come urgenti: quale è il ruolo delle redazioni culturali dei giornali? quale quello dei critici? quale quello degli autori? Quale idea di autorialità, di editoria, di critica emerge da questi esempi?

  6. Di che si tratta infine?
    Di autopromozione. Di sè e dei propri sodali. Di un “politicamente corretto” nel fare scrittura, editoria, cultura e spettacolo.
    Sperando nel consenso e nello sfruttamento della militanza gratuita di un pubblico potenzialmente ampio, quello dei lettori “de sinistra”. E’ dalla fine del movimento che poteva ancora credersi rivoluzionario (cioè dal ’78 o giù di lì) che le conventicole intellettuali della galassia pseudo-radicale si comportano così. Il ragionamento è più o meno sempre quello: noi siamo i buoni, abbiamo provato a cambiare il mondo, se non è riuscito non è colpa nostra. Adesso potremo pure averne un po’ di rendita, in termini di credibilità e visibilità nell’inferno capitalistico, in quella nicchia dove si fabbrica l’unico prodotto per cui il concetto di merce vale e non vale, cioè quello culturale, o no?
    Così gli ex direttori di Lotta Continua sono diventati anchorman, Attila uno scrittore di successo, i fuorusciti dai centri sociali presidiano le case editrici e i blog alla moda. Ma prima lo facevano da singoli, la novità è che in gruppo e meglio, chiedendo addirittura di rappresentare un’intera generazione anzi due.
    Sotto un marchio che non essendo quello di una Chiesa o di un Partito può somigliare solo a quello di una loggia massonica.
    Mi spiace perchè tra i firmatari ci sono persone e scrittori di cui ho stima (Raimo, per esempio). Ma è malcostume.
    Non diverso dal familismo mafioso che dicono di voler combattere.

  7. Valter accetto la tua stima, e proprio per questo ti dico: eccoci, se non è centrale l’autocritica questa roba e qualunque discorso culturale non va da nessuna parte. Se è lobbismo à la Lotta Continua sarò ben contento di fare il fuorisede a sessant’anni. Però la fiducia, dev’essere reciproca.

  8. Christian, nelle persone, sempre.
    Suicidar,mi come militonto e settario e rinascere come persona, è stata la mia massima aspirazione (non so quanto realizzata) nell’ultimo quarto di secolo.

  9. Perché invece di fare manifesti non agite o programmate azione? Forse perché i manifesti fan clamori facili e rendono facile parlare di tutto un po’ senza quella complessità che pure voi invocate?
    A me questo manifesto pare generico, un po’ goffo e in parte decisamente qualunquista.

  10. @per anonimo
    Anche i Nuclei Armati Proletari, I Legionari di Cristo e i Pescatori di trota di Carognate Sotto hanno le loro brave procedure di adesione.
    Prevedono un perimetro ideologico ben definito.
    La richiesta di maggiore attenzione e risorse per l’editoria “di qualità” è pubblicamente condivisibile, ma il criterio qui risulta gestito da un gruppo generazionale e già attualmente legato a editori (Transeuropa, Minimum Fax), riviste (Alfabeta2, Nuovi Argomenti) blog (NI) piuttosto evidentemente connotate.
    Vediamo di non prenderci in giro e smettiamo di contrabbandare strategie legittime ma particolari per l’universale della Qualità.

  11. puo’ anche essere legittimo che “operatori della cultura” (mi pare ad occhio che si tratta di perone che hanno a che fare con il mondo dei libri, scrittori, editori, critici e forse anche acacdemici) che vivono ai margini del mercato editoriale-accademico italiano, che insomma hanno poca voce in tv nei giornali e nelle grandi case editrici, possano sentire il desiderio di contare di più (magari per le competenze e la qualità della loro pratica e della loro scrittura) e che perciò stesso sentano il bisogno di “fare gruppo” per acquistare piu’ forza e visibilità
    Cio’ che conta alla fine è la qualità delle idee e dei comportamenti .

    Essere di minimum fax o di NI di qualsiasi altro gruppo, di per sè non garantisce sulla qualità delle proposte ma nemmeno puo’ essere una condanna a priori.

    Capisco il disincanto di valter binaghi e di tutti quelli della sua generazione (che più p meno è anche la mia) una generazione “del fallimento” che ha vissuto sulla sua pelle il fallimento delle utopie rivoluzionarie, ma come dice Raimo un po’ di fiducia cazzo!
    Dobbiamo smettere di camminare aventi con la testa rivolta al passato, il che equivale a camminare all’indietro.
    Ma una critica va fatta a un malcostume tutto italiano:
    la tendenza alla creazione di famiglie e corporazioni che annebbiano la mente e impaludano questo paese.
    ESEMPIO:
    perchè da quando frequento questo blog, non ho mai visto un componente della redazione criticare negativamente un libro scritto da un componente della redazione ?
    Perchè ho l’impressione (e ditemi cari voi se mi sbaglio) se a volte qualcuno seleziona i testi con criteri estranei alla qualità?

    Ovviamente è solo un sospetto di uns emplice e sprovveduto lettore, e ovviamente ho moltissima stima di molti dei redattori di NI.

  12. Perché da quando frequento questo blog, non ho mai visto un componente della redazione criticare negativamente un libro scritto da un componente della redazione ? scrive Carmelo. Semplice, perché su NI non parliamo mai dei nostri libri (con qualche rarissima e legittima eccezione)

    ciau Carmè
    effeffe

  13. Andando oltre le premesse generali, mi pare che la cosa più interessante che emerge dai tre manifesti sia l’intenzione di costruire una sorta di “forza sindacale”. Un sindacato autonomo e dal basso dei lavoratori della conoscenza. Ciò potrebbe portare a un dialogo istituzionale e costruttivo con la sezione FLC-CGIL, per quel che riguarda specialmente i propositi del manifesto sull’editoria. O con il movimento dei precari (e a proposito si poteva anche citare in un rigo il tentativo di Sciopero Precario messo in piedi per settembre). Sul rapporto col pubblico si tratterebbe di potenziare attività già in corso, il che richiede soprattutto una maggiore assiduità e impegno.
    In generale, non trattandosi di manifesti letterari, non si tratta di un manifesto di soli scrittori. Ma perché dovrebbe chiamarsi “TQ”? Perché non fare riferimento ai lavoratori della conoscenza? Se questa è la posizione, e a mio avviso è questa la questione centrale, perché non chiamarsi per es. SALC – “Sindacato Autonomo dei Lavoratori della Conoscenza”?

  14. Se ci si chiama SALC, poi è necessario mettere in acronimo anche l’altra metà, ICCIA. Si accettano proposte, democraticamente.

  15. Questa iniziativa e mi piace ed era proprio il tipo di “azione” che mi auguravo.

    Attendo sperando di potervi partecipare i seminari pubblici, specie sui temi dell’economia che mi riescono purtroppo alieni – che fatica inconcludente, leggere la sezione apposita dei quotidiani – e che mi fanno sentire un cittadino invalido.

    Offrire poi materiale divulgativo online sul tema sarebbe una vera manna.

    Unico appunto: certo, non si può far altro che augurarsi un riscatto della qualità sulla quantità, ma stare a sindacare su quanti libri vadano stampati, su qual è il loro limite numerico, rientra nella logica prettamente mercantilista, che non deve essere esclusiva ma non deve essere neanche esclusa, nel senso: non si può, e secondo me non fa neanche onore il volerlo fare, impedire la produzione commerciale dei libri quando per libri non si intende nessuna esperienza di crescita o di confronto o di civilizzazione ma proprio un ninnolo da perditempo, spesso causa di ulteriore imbarberimento.

    Quello che si può, e che è onorevole che lo si voglia fare, è dare vita a un settore del libro basato sul merito e sull’eccellenza, che, se saprà affermarsi, dovrà comunque sapere che non può abolire il mercato solo perché nel mercato sa di non avere nessuna speranza di primeggiare.

    Non intendo dire che l’iniziativa TQ ( il nome resta bruttissimo, ma ok, uno vale l’altro ) deve partire sapendosi sconfitta, ma deve continuare sapendo che nei suoi obiettivi ci deve essere quello di costruire un circuito anche economico differente.

    E lo spazio per creare questo circuito alternativo oggi esiste ed è proprio la Rete.

    Un saluto!,
    Antonio Coda

  16. Arma Letale 1: Mel Gibson, meno che trentenne, affronta a cazzotti e revolverate una decina di cattivoni. Gli sparano, schiva i proiettili. Si lancia dal terzo piano sparando a sua volta mentre vola come un angelo. Dietro di lui, Danny Glover più che cinquantenne, arranca e annaspa per stare dietro al giovane collega. Ma anche lui fa la sua parte. Prende e dà cazzotti, spara. Poi prende una randellata e va per terra. Dal suolo riesce comunque a mordere il polpaccio a un cattivone. Quindi, con la 38, uccide l’ultimo cattivone rimasto. Mel Gibson si avvicina al socio: “Visto? Per noi, dieci figli di puttana sono anche pochi”. E Danny Glover replica: “Sono troppo vecchio per queste stronzate”.
    Ora, TQ non è una stronzata. Ma c’è davvero il rischio che chi sia “over” abbia qualche difficoltà a capire.
    Se, per esempio, nei TQ esiste una sorta di ispirazione politica be’, sinceramente non mi pare la parte essenziale a meno che questa non sia una specie di tesseramento virtuale quanto obbligatorio. Personalmente credo che la “non-politica” sia cosa divera dalla “a-politica”. Per cui Liala è cosa diversa da Flaiano.
    Poi, quali sono i “nemici”? Leggo (ma forse ho inteso male) riferimenti al Novecento. Leggo di scrittori e di scrittura “asservita” a non so cosa. Di cosa si parla? Certo, un manifesto ha valore in sé ma è auspicabile che negli incontri reali e “umani” si facciano nomi e cognomi. Il Gruppo ‘63, per esempio, sparò a zero contro Cassola, Pratolini e Bassani. I TQ a chi sparano? A Eco? A Moravia? A Patti? Alla Ortese? Alla Sapienza? Ad Arbasino?
    Dove sarebbe, per esempio, il “male” di un Ercole Patti? Un narratore come oggi ce lo sognamo. Così come ci sognamo Chiara e Gadda.
    Poi, rivoluzione nella filiera editoriale. Bene. Devo quindi pensare che nei TQ ci siano editori e/o editor che, non solo aborrono l’editoria a pagamento, ma anche le scorciatoie. Meno male, Perché a me è capitato di parlare in camera caritatis (e quindi non faccio nomi) con editori grandissimi, medi, piccoli e piccolissimi. Una cosa, per loro ammissione, li accomuna nel 90 per cento dei casi: la falsità del “leggiamo tutti i manoscritti che ci inviate”.
    In realtà mi è stato detto: “embe’, questo è quello che diciamo, ma come si fa a leggerli tutti? meglio se la persona è già conosciuta… se ce lo presenta qualucuno. si sa, no?”.
    Diciamo che ufficialmente non si sa, ma si immagina. Si immagina che i manoscritti passino direttamente dalla “posta in arrivo” a “cestino”. Se il manoscritto è cartaceo, invece, va direttamente nella macchinetta tritacarta per ricavarne coriandoli per il Carnevale.
    Ci sono editori che nel sito scrivono: “non si accettano manoscritti di esordienti se non espressamente richiesti”. Evidentemente hanno in redazione dei simil rabdomanti che riescono a carpire telepaticamente se a Cornillo Vecchio o a Pollena Trocchia c’è un esordiente che ha un buon manoscritto nel cassetto.
    E poi i costi. Che il libro venga acquistato in una libreria in muratura o in un negozio virtuale, si spendono sempre e comunque degli euro, e non i soldi del Monopoli.
    Per alcuni, il best seller deve e può costare di meno rispetto a una raccolta di mie poesie (non ne scrivo ma faccio un esempio senza tirare in ballo situazioni reali) perché di best seller se ne vende a tonnellate quindi il prezzo può essere contenuto. Per altri, invece, sono le mie poesie a dover costare poco se si vuole che le legga almeno il mio doberman.
    Poi, ho letto da qualche parte che i TQ “partirono in 100 e sono arrivati la metà”. Succede, per carità, ed è anche sintomo di fermento intellettuale. Ma i TQ non sono il parlamento europeo né l’Onu. Parlano di questioni importanti, va bene, ma non così importanti come l’opportunità o meno di sganciare un’atomica sull’Iran. Per cui, se si sono divisi già sull’incipit, c’è da temere che questo romanzo possa essere tormentato quanto mal assemblato.
    Ciò detto, mi piace lo spirito. Mi piace il tentativo di essere nocciolo nella marmellata culturale italiana. Purché in buona fede (e non ci sono retropensieri né allusioni), altrimenti con il nocciolo ci si spacca i denti.

  17. [Pubblicato in vibrisse, qui].

    La cosa che più mi colpisce e mi interessa, di ciò che si chiama Generazione Tq e che sento chiamare volta a volta “movimento” o “associazione” (con prevalenza del primo), è che coloro che hanno dato vita alla cosa lo ha fatto prsentandosi non come “intellettuali” bensì come “lavoratore professionali”. E in effetti, se guardo la lista di chi sta in Tq, vedo che (c’è qualcuno che non conosco, ma sono proprio pochi) si tratta in buona maggioranza di lavoratori dell’editoria. Spesso (per quel che so delle loro vite) piuttosto precari; talvolta (id.) consolidati; altre volte (id.) situati in quella zona intermedia nella quale non sai se sei un precario o un libero professionista (e magari sei semplicemente un libero professionista in un mercato fermo, ecc.).

    Ora: nei “manifesti” di Tq queste persone esprimono dei desideri che a leggerli sembrano elementari, quasi infantili nella loro elementarità, addirittura ovvii: facciamo un po’ meno di libri, per piacere, e magari diminuiamo la produzione di quelli orridi piuttosto che di quelli belli; facciamo un po’ meno di corruzione tra “mediatori culturali”, per piacere; facciamo un po’ meno di lavoro sottopagato, per piacere; facciamo un po’ meno di lavoro fatto alla cazzo, per piacere; eccetera: vedi il manifesto per l’editoria. Il fatto è che le persone che esprimono questi desideri – che condivido – sono talmente implicate, talmente prese dentro il lavoro editoriale, talmente incastrate nei meccanismi aziendali, che…

    …che potrebbero, ciascuno in una diversa misura, ciascuno in un diverso momento, ciascuno con diverso potere contrattuale o potere decisionale o autorevolezza, nella quotidianità del loro lavoro professionale, addirittura agire per la realizzazione di quei desideri. Che è tutt’altra cosa dallo scendere in piazza, per dire, o dal redigere appelli. Questi “manifesti”, infatti, o almeno quello per l’editoria – limito il mio discorso a un ambito che conosco – non mi sembrano essere degli appelli rivolti ad altri, quanto degli impegni presi da chi li sottoscrive. Il manifesto per l’editoria non chiede a me di fare certe cose: impegna chi l’ha scritto a fare certe cose e, soprattutto, a comportarsi in un certo modo. Ad adottare determinare pratiche. A fare ciò che può per far adottare certe pratiche ai colleghi, all’azienda (o alle aziende) nella o per la/le quale/i lavora, eccetera.

    Peraltro – si potrebbe dire – chi sottoscrive questi manifesti, o queste dichiarazioni di desideri e d’intenti, entra esplicitamente nel regno dell’ambiguità. Tizio prenderà un lavoro da un certo editore, ad esempio, e l’editore gli chiederà di impegnarsi a svolgerlo in un certo modo, con certi tempi, eccetera; e nel contempo non potrà negare di essersi pubblicamente impegnato a lavorare in un altro modo, con altri tempi, eccetera. Come agirà Tizio? Agirà come potrà, nell’ambito del suo possibile, eventualmente con l’appoggio o l’aiuto (materiale) di altri che si sono impegnati con lui e allo stesso modo. Ed è possibile che l’editore si ritrovi, quasi senza accorgersene, con un lavoro ben fatto, o fatto meglio del previsto; e che il lettore si ritrovi tra le mani, alla fin fine, magari senza sapere bene perché, un libro particolarmente ben fatto, o almeno fatto meglio della media.

    In realtà, questo già succede. Già ci sono persone che, senza dare tanto nell’occhio, agiscono in questo modo. Tuttavia è evidente che dietro questo agire, magari moralmente gratificante per il singolo, magari fonte di fierezza (ho lottato contro il moloch del complesso editoriale-industriale: ho lavorato un sacco di ore non pagate, ma alla fin fine ho consegnato un lavoro fatto come si deve, che il lettore apprezzerà, ecc.) si nasconde – anzi no, non si nasconde proprio, ma appare in piena vista quella cosa che si chiama autosfruttamento. Gli editori lo sanno, e si può dire che confidino sulla capacità di autosfruttamento dei lavoratori dell’editoria: considerano la passione per il lavoro ben fatto, che conduce all’autosfruttamento, una risorsa legittimamente a loro disposizione.

    Rendere manifesto, scrivere manifesti, serve appunto (tra le altre cose) a snidare e svelare queste situazioni; a mostrare l’esistenza di una (questa è una; e ce n’è altre; prendo questa come esempio) questione comune tra i lavoratori dell’editoria (e, presumo, tra i lavoratori delle produzioni culturali in generale). Serve spiegare che se lavori un sacco di ore non pagate per consegnare un lavoro fatto come si deve, che il lettore apprezzerà, non avrai per nulla combattuto il complesso editoriale-industriale: lo avrai sostenuto. Rendere manifesto, scrivere manifesti, serve dunque a uscire dal regno dell’ambiguità (poiché è ambiguo chi non si manifesta pienamente) per entrare nel molto più interessante – secondo me – regno della doppiezza. Rendere manifesto, scrivere manifesti, serve a notificare che c’è un legame tra tutte le cose: la bellezza dei libri, la qualità della loro fattura, la remunerazione dei traduttori e dei correttori di bozze, le concentrazioni editoriali e distributive e del dettaglio (o di tutto insieme), l’escalation dei servizi di autopubblicazione, eccetera.

    La doppiezza è la virtù di chi dichiara esplicitamente l’adesione a una pratica che confligge con le pratiche esistenti, senza però ritirarsi né nel deserto né sull’Aventino: ma restando qui, nel campo dove tutto si gioca. E le associazioni di persone che abbracciano la doppiezza si chiamano, per antica tradizione: congiure. I congiurati sono legati tra loro da un giuramento, da una dichiarazione condivisa, mettiamo un manifesto, che essi considerano prevalente sugli impegni che il mondo può chiedere loro. I congiurati hanno generalmente uno scopo, che è ovviamente quello di produrre un mondo migliore; e tuttavia, avendo scelto di congiurare e di restare nel mondo (anziché, ad esempio, di confessare la propria purezza e uscire dal mondo), sono disponibili ad agire tortuosamente alla luce del sole. Sono interessati al compromesso, perché è un passo avanti. Evitano lo scontro frontale, perché sanno che sarebbero sterminati. Combattono una guerriglia, stando bene attenti a restare al di qua delle scelte che potrebbero convincere il moloch dell’opportunità di ridurli all’impotenza. Coltivano la loro rilevanza economica, professionale, intellettuale, artistica: perché sono convinti – e hanno ragione, secondo me – che il moloch abbia bisogno di loro più di quanto loro abbiano bisogno del moloch, e non vogliono che questo squilibrio si alteri.

    Una congiura dei professionali è, secondo me, proprio quello che ci voleva. L’anagrafe (ho cinquantun anni) mi vieta di far parte del cerchio magico dei congiurati. Ma su questo – che mi pare giusto – scriverò un altro giorno.

  18. cerco di tornarci in giornata ma volevo almeno segnalare che la questione del “professionale” sottolineata da giulio mi sembra molto significativa e, in qualche modo, compone l’altra faccia del “problema” che sottolineavo sotto a un altro post a tema “tq”, ovvero l’idea che buona parte della discussione si basi su un’idea di pubblico e di relazione con lo stesso forse davvero troppo datata. in questo senso, anche la professionalità, la collocazione più o meno congrua e stabile nell’industria culturale, fattispecie editoriale, suona in qualche modo d’antan, come tutto il set di immagini che le si lega (prima di tutto questo continuo parlare di “libri” come se davvero il problema fossero i libri e non i testi ;-). va beh, scappo.

  19. “Questo non è un appello che basti firmare: questo è un invito, aperto a tutti coloro che lavorano nell’ambito della cultura e delle arti, a pensare e ad agire assieme, deponendo egoismi e rivalità; a mettere in gioco parte del proprio tempo e in discussione il proprio ruolo artistico o intellettuale, e a essere fortemente, fieramente cittadini, operando da mediatori tra i saperi, intervenendo nel dibattito politico, immaginando nuovi modelli di pratiche sociali. È un invito che estendiamo poi a tutto il Paese, un invito al dialogo e alla formazione di comitati TQ, rivolto a tutte le categorie di trenta-quarantenni che vorranno lavorare assieme a noi: dai ricercatori agli economisti, dagli artisti di altre discipline ai lavoratori dello spettacolo, dagli insegnanti agli operai, dai free lance ai precari del terziario avanzato – molti di loro, proprio come noi, alle prese con una somma ennesimale di ruoli distinti: nella stessa giornata, più volte al giorno

    In questo tempo di emergenza l’adesione a TQ si fonda dunque su un impegno etico in vista di un’azione politica, su un passo personale in vista di impegni collettivi. Siamo ormai pienamente convinti, infatti, che non sia più sufficiente dedicarsi ciascuno per sé, con distaccata purezza, all’arte e alla letteratura: oggi più che mai è necessario praticare un’alternativa umana e comune al lungo sonno della ragione.”

    Mi pare che questo estratto cancelli tutte le critiche, le obiezioni, i sospetti e le acredini nei confronti di questa iniziativa. E mi pare che sia la parte su cui si sia posta meno l’attenzione.

    Ma santo cielo, è possibile che bisogna sempre tirare fuori la parte destruens che c’è in ognuno di noi? La mancanza di fiducia ed il complottismo hanno inciso così tanto sulle nostre personalità paranoidi da impedirci di rimanere lucidi almeno fino al momento di prendere una decisione?

    Tutto quello che è stato scritto nei manifesti dei TQ sembra arrivare direttamente dalla sagra dell’ovvio. Non lo dico in senso dispregiativo, bensì voglio sottolineare il fatto che tutto ciò che in questi documenti si afferma di voler fare sarebbe condivisibile dal 100% della popolazione civile (e civilizzata) senza batter ciglio. Sono cose talmente tanto scontate da non dover nemmeno ragionarci su. Un po’ come la democrazia e la libertà: chi direbbe di no?

    Ora, la questione non è tanto ciò che hanno detto e dicono (che sicuramente andrà modificandosi con il passare del tempo e lo scorrere degli eventi), ma ciò che faranno e come. E non capisco perché tutte le energie che spendiamo a farci delle serie pippe mentali non possano essere investite in una paziente e fiduciosa attesa o, meglio, in una fiduciosa adesione e contribuzione con un atteggiamento più costruens.

    Anche a me non convince molto il discorso sulla decrescita e sulla qualità, come mi insospettisce non poco il “comitato etico” che verrebbe a costituirsi in rappresentanza di un mondo molto vario e vasto. È però pur vero che la situazione TaleQuale è fa letteralmente cagare. E piuttosto che stare lì a fare i soliti discorsi da bar di cui ne ho piene le palle (pardòn) e discutere con i soliti noti e meno noti sulla disastrosa situazione del mondo culturale, preferisco cogliere al balzo la possibilità di partecipare (direttamente o indirettamente) ad un discorso in fieri che non ha ancora deciso e fatto nulla, tranne invitare a decidere e soprattutto a fare qualcosa.

    Mi sono soffermato anch’io sulla portata degli abbandoni o delle mancate adesioni di personaggi Della cultura absolutamente rilevanti. MA non avendo a disposizione un cuadro chiaro Della situazione hop referito anche in questo caso sospendere il giudizio ed attendere: cosa diavolo ne so io di Wu Ming e Genna e Antonelli? Li conosco forse personalmente? Ho forse parlato con loro? O forse pensiamo che essendo dei follower su Twitter basti a conoscere una persona?

    Anche è abbastanza evidente la ristrettezza della cerchia iniziale che è un po’ dappertutto – TQ, Nazione Indiana, Alfabeta2 etc. Mi sembra però che la cerchia voglia allargarsi a chiunque voglia offrire il proprio contributo. Forse si sono resi conto che se davvero si vuole cambiare il mondo (culturale) c’è bisogno di tutti e non di quattro Robespierre che finiscono per cantarsela e suonarsela da soli mentre fuori si formano le fazioni dei pro e dei contro (ciò che invece sta accadendo prima ancora che qualcosa avvenisse realmente).

    E dunque la mia conclusiones è la seguente: sospendere il giudizio o usarlo in maniera costruttiva, con suggerimenti, proposte e soluzioni alternative. Alla fine possono accadere solo due cose: che qualcosa davvero si muova, rendendo tutti un po’ più felici; che tutto gattopardianamente cambi per lascire tutto com’è e allora TQ avrà segnato la sua fine poiché le persone a cui si rivolge sono le stesse che leggono e comprano i libri (e non solo).

    Luigi B.

  20. a Luigi B, che scrive:
    “Tutto quello che è stato scritto nei manifesti dei TQ sembra arrivare direttamente dalla sagra dell’ovvio. Non lo dico in senso dispregiativo, bensì voglio sottolineare il fatto che tutto ciò che in questi documenti si afferma di voler fare sarebbe condivisibile dal 100% della popolazione civile (e civilizzata) senza batter ciglio. Sono cose talmente tanto scontate da non dover nemmeno ragionarci su. Un po’ come la democrazia e la libertà: chi direbbe di no?”

    In qualche modo la penso come te. Ho partecipato insieme agli altri TQ alla stesura dei documenti, sapendo che in qualche modo prendiamo atto, in un momento comune, di cose per certi versi assodate. Io lo chiamerei il “livello elementare di decenza”, nella consapevolezza etica e politica. Non c’è quindi grandi novità da cercare nei documenti. Semmai la novità è che questi documenti siano assunti da persone anche molto diverse come vincolo degli atteggiamenti futuri e come premessa per proposte alternative. Premesse per l’azione. Tutta la tenuta di TQ sarà poi da verificare sul terreno dell’azione, delle pratiche. E quindi su di un medio periodo.

    Il tuo atteggiamento mi sembra, quindi, più che sensato.
    “E dunque la mia conclusiones è la seguente: sospendere il giudizio o usarlo in maniera costruttiva, con suggerimenti, proposte e soluzioni alternative.”

    a Gherardo,
    sui testi si fanno battaglie, inevitabilmente, di poetica, di teoria letteraria. Sui libri si fanno battaglie che possono avere obiettivi politici. Combattere per fare in modo che la piccola editoria, ad esempio, sopravviva e non venga strangolata dalla grande distribuzione, non tocca direttamente la questione dei testi. Ma noi sappiamo che dei testi di valore, che non passano attraverso la grande editoria, possono avere opportunità nella piccola.

  21. @Gh

    Mi pare bizzarro, invece, distinguere fra libri e testi – credo che invece “libri”, nel manifesto, sia inteso come testi prodotti, testi messi in circolazione, non necessariamente in formato cartaceo e non necessariamente in termini venali. E’ forse antiquata l’interpretazione del termine “libro” che rimanda solamente a carta, cartone, inchiostro e colla.

  22. @Inglese
    con “sagra dell’ovvio” intendevo precisamente “livello elementare di decenza”. Sinceramente, non mi fossilizzerei poi così tanto sul fatto che TQ abbia scritto un manifesto “antiquato” con un linguaggio “vecchio”. Ormai dei manifesti personalmente non me ne faccio più nulla: di parole ce ne sono fin troppe e non sento l’esigenza di aggiungerne delle altre – per quanto originali ed innovative. C’è bisogno di fatti (e non pugnette) e mi pare che le premesse perché si compiano ci siano tutte. Per lo meno c’è la voglia, se ne sente la necessità, ed è questo ciò che importa. La verità: fosse stato un manifesto letterario non avrei speso nemmeno un secondo per leggerlo, figuriamoci commentare qui e lì che mi viene particolarmente difficile.
    Dici che il mio atteggiamento ti pare sensato. non mi sento più intelligento per questo, perché credo sia così scontato (il mio atteggiamento) che ciò che mi sorprende è quello contrario al mio. E non tanto del primo commentatore di NI o del primo twittero che passa, ma di alcune persone che stimo molto (almeno sotto il punto di vista artistico). Mi piacerebbe capire perché… La logica vuole che un giudizio si formuli attraverso la valutazione di elementi, dati, informazioni. Qui invece si sta sollevando un gran polverone (con le solite fazioni pro e contro) assolutamente sul nulla – perché un manifesto se non è seguito dai fatti è nulla.

    Buon tutto
    Luigi B.

  23. Hanno fatto clamore, nei giorni scorsi, le conclusioni di uno studio rigoroso sulla classe politica italiana di un accademico italiano che mi pare insegni negli USA: una classe vecchia, incompetente, privilegiata e corrotta.
    Questi aggettivi per non usarne di peggiori (mafiosa, parassita, corporativa, clienteleare) posson oessere applicati a tutta la classe dirigente di questo paese.

    Mi piace pensare che TQ voglia in qualche modo manifestare il disagio dei “figli”, delle nuove generazioni, intrappolati e impotenti in questa palude dove il nostro paese sta lentamente affondando.
    Un calcio nel culo a questa classe dirigente un bel calcio nel culo
    sarebbe ora che i vecchi (non in senso anagrafico) si togliessero di mezzo da ogni ambito della società per afre spazio alle energie nuove e da anni represse, che pure ci sono.
    Se anche questo vuol dire tQ ben vengano mille tQ

  24. @andrea e vincenzo:

    non riesco ancora ad intervenire adeguatamente alla quantità di questioni. dico solo che sulla questione libri vs testi, mi rendo conto di averla fatta troppo facile (e di aver sperato troppo nell’emoticon ;-). per essere corretto avrei dovuto forse parlare di libri vs contenuti e argomentare meglio ma scrivevo di corsa dall’ufficio e, quindi, hélas, ho detto una mezza cazzata.

    quello che intendevo, cmq, è che il quadro di riferimento che viene implicato da questi documenti è pur sempre quello della “vecchia” industria culturale che ha avuto (ed ha ancora) parecchi pregi ma di cui oggi, per diversi motivi, subiamo parecchi difetti. ora, sarà il mio pallino e probabilmente fra 5/10 anni andrò in giro a dire “no ma mi sbagliavo, etc. etc.”, però la mia impressione, adesso, è che davvero quel quadro non stia più insieme: troppi pezzi si sono indeboliti, troppi concetti suonano insoddisfacenti, troppe dinamiche, sociali ed economiche, stanno prendendo delle strane pieghe e così via.

    non è che non veda il problema della grande distribuzione o della piccola editoria ma, proprio per come si sta trasformando la produzione e la fruizione culturale, mi sembrano legati ad un modello di diffusione che sta concludendo la sua vicenda (non domani, sia chiaro). mi sembra urgente, per esempio, uno degli epifenomeni di questa parabola discendente, ovvero la sempre più diffusa “prestazione d’opera gratuita” che sostiene una parte significativa dell’industria culturale (non raramente, anche se in modo paradossale, proprio quella di maggior qualità). e mi sembra urgente nella misura in cui le vedo corrispondere, nei nuovi scenari che si stanno mostrando, la creazione e la condivisione gratuita (lecita o illecita) dei contenuti.

    ecco, mi verrebbe da dire (per fare il solito benaltrismo ;-) che sia questo un nodo da analizzare. ovvero, come costruire un’industria culturale degna e dignitosa (una sua porzione, una sua filiera) sullo scambio gratuito? eppure nei documenti qui sopra mi sembra che non ci siano gli strumenti per affrontare un nodo del genere e neppure per rilevarne la presenza.

    all’inizio del manifesto si dice: “il nuovo secolo appare ancora come un Novecento svuotato di senso”. ecco, forse il novecento è più nello sguardo che nell’oggetto. o, almeno, questo è il dubbio che mi viene.

  25. C’entro per poco. Ancora per un poco nella Q. E forse un poco di più nei lavoratori della conoscenza (essendo, come si dice, “incardinata” da un po’ di anni all’università come associato di Filosofia teoretica). Ma per quel poco che c’entro vorrei dire un paio di cose. Ossia che penso che questo manifesto sia molto importante e che però avverto un problema. Diciamo che è un problema di spirito e di lettera. Nel senso che condivido fortemente quel che in principio mi è sembrato lo spirito del manifesto e non avrei esitato ad aderire in modo anche operativo, se poi non fossi rimasta disorientata da passaggi letterali che, trattandosi di un documento steso da letterati, fatico a pensare siano ingenui o casuali. Ma ditemi voi.

    Mi lascia perplessa il fatto che un manifesto avverso alla “epidemia neoliberista” si lasci però impassibilmente contagiare da termini, concetti e parole simbolo del lessico neoliberale, elevandoli persino a punti programmatici. “Gestione della cultura basata sulla competenza”, si legge. Se piace, passi per “gestione della cultura”. “Competenza” però è una parola compromessa: la sua programmatica distinzione da “conoscenza” serve oggi a divaricare il sapere operativamente utile (skills per capirci) dalle presunte oziosità da intellettuali. Capisco, almeno credo, la buona intenzione di rivendicare il ruolo dell’“intellettuale specifico”, dedito al proprio oggetto, contro l’“intellettuale universale mediatico”, che svolge il suo servizio alla modernizzazione delle forme di assoggettamento fornendo concetti rassicuranti sull’intera estensione dell’esperienza, e con ciò di fatto reclamando il diritto alla banalità di contro a “professionisti considerati arcaici, scansafatiche, ed elitistici” (vedi l’Appel des appels – un bel manifesto, che ha qualosa da dire anche sugli ex militanti poi convertiti). Però avanzare contro di questo formule come “impegno di trasparenza e di riconoscimento della competenza e del merito” risulta proprio disorientante. Sono slogan che ci si aspetta in altre bocche. Quelle dei ministri dell’attuale Governo, o in quelle della sinistra in perenne ansia di intercettare le battaglie della cosiddetta modernizzazione (su cui, guarda caso, la destra è solita anticiparla)… insomma, sono formule da Gelmini o Giavazzi, da Brunetta o Abravanel: che ci fanno in questo manifesto?

    La stessa domanda sorge quando il richiamo alla “qualità” diventa addirittura voce programmatica. Di per sé, è vero, il termine qualità ha una grande storia e lascia margini in più rispetto ad altre espressioni univocamente connotate in senso neoliberista; ma come trascurare che da tempo esso è stato sequestrato dalla retorica neoliberista e desostanzializzato a designazione di qualcosa che può avere valore solo in funzione di altro (e mai in sé)? Se si cerca qualità su Wikipedia s’incontra un invito alla disambiguazione, e poi come primo significato quello di una “conformità” variamente declinata che rimanda a “una misura delle caratteristiche o delle proprietà di una entità (…) in confronto a quanto ci si attende da tale entità, per un determinato impiego”; la cosa è indicativa dello statuto corrente di questo termine e l’elenco sotto “Definizione di qualità” merita davvero di essere letto. Del resto il mondo della valutazione e dell’audit è tutto un fiorire di acronimi con qualità dentro (MCQ, QA, ENQA, QMS, QFD, APQP, CQAF, EQARF, QANRP, EQAVET, BEQUAL, EFQM… ci si muove oramai nell’ordine delle centinaia, senza che manchi naturalmente – un monito? – TQ). Queste confusioni sono qualcosa di completamente estraneo all’orizzonte del manifesto? Forse no, se è vero che nel dibattito è persino balenata l’idea di adottare un marchio di qualità da apporre ai libri “meritevoli”… Ma per fortuna il bollino è scomparso nella redazione finale.

    Non così un altro topos che tradizionalmente si accompagna alla “volontà di sapere” della governamentalità neoliberista panopticamente orientata all’efficacia e all’efficienza: la “trasparenza”. Dove, ancora una volta, si capisce il desiderio di evitare tante torbidezze che possono attraversare la storia di un libro, ma davvero è strano che sfugga la coincidenza oggi tra trasparenza e controllo sociale, ossia controllo dell’opinione comune di un pubblico di consumatori preventivamente formato, costantemente foraggiato e accuratamente misurato e sondaggiato… Quando più avanti s’insiste sull’uso di “buone pratiche” e “cattive pratiche”, viene da chiedersi quale cattiva coscienza abbia frenato dal metterle in inglese, best practices… E’ disattenzione? Cedimento inconsapevole ad immagini oramai consuete? O cos’è se no? In tutti i casi spiazza.

    Perché è evidente che evitare il ricorso al “merito”, alla “qualità”, alla “competenza” e alla “trasparenza” e così via non significa che si voglia il demerito, l’incompetenza e l’opacità. Significa però un po’ di scuola del sospetto o anche solo sapere che “quando accetti un frame, hai già perso” (Lakoff, “Non pensare all’elefante”, e Nori su). Non si tratta perciò neppure di idiosincrasie, vezzi morettiani. Non è che queste parole diano fastidio. E’ che suonano all’unisono con una “logica della situazione” che “si presenta come una sorta di ordine delle cose al quale non ci si può sottrarre, anonimo e analogo al martello senza padrone che non cessa di picchiarvi nel modo più regolare e più sordo” (Laval). Perché le incontriamo anche qui? Che cosa significa?

    Penso che ci voglia una risposta, perché si tratta di distinguere tra due prospettive.

    Una è che tutto alla fine si risolva in una sorta di richiamo etico, in una deontologia professionale dell’operatore della conoscenza (in effetti oramai tutti – oltre alla corsa ai bollini di qualità, o meglio nella cornice di questa corsa – si danno un codice etico, dalle università agli ospedali passando per le banche; e “etica sociale di impresa”, “bilancio sociale” e così via sono espressioni di grande successo nel neoliberismo). In questa direzione mi sembra andare la lettura di chi vede il manifesto come un invito affinché le persone “prese dentro il lavoro editoriale, incastrate nei meccanismi aziendali” facciano “ciò che si può per far adottare certe pratiche” apprezzabili: così Giulio Mozzi, che giustamente in questa prospettiva osserva che allora non si sta proponendo nulla che non sia ovvio. E in effetti in questa prospettiva il riferimento a competenza, merito e trasparenza non suscita la minima increspatura (né la suscitano altri forse inconsapevoli cedimenti del manifesto ad immagini consuete e rassicuranti, come l’auspicio – politicamente un po’ problematico per la verità – alla ricomposizione del patto sociale che garantiva un “rapporto diretto tra crescita del livello d’istruzione e crescita del reddito”).

    L’altra prospettiva è che il manifesto voglia essere l’invito (nonostante il prezzo da pagare in termini di ampiezza di adesioni e di consenso: le prime defezioni ne sono un sintomo) ad una “insurrezione delle coscienze” di carattere davvero politico, che oggi significa anzitutto chiarezza nel riconoscere i dispositivi messi in opera ovunque dalla mano per niente invisibile della razionalità neoliberale. La quale, sia detto per inciso, risulterà forse una categoria mediaticamente vaga (cfr. “Il Foglio”), ma tra i lavoratori della conoscenza impegnati in studi specialistici sul tema (ad esempio in ambito filosofico, o, più genericamente e se più gli si dà credito, nelle Humanities di oltreoceano) è assai meno vaga di tante altre categorie euristicamente fondate. Solo in questa chiave politica, credo, acquistano spessore le pratiche di resistenza suggerite nel manifesto: una resistenza all’altezza del mutato orizzonte, che non ha più il carattere della sollevazione generale e dello scontro frontale, ma la forma di un’opposizione reticolare di disinnescamento, smascheramento e anche boicottaggio di norme e prassi per lo più interiorizzate (tra cui rientrano anche i termini e parole chiave denunciati sopra!), ossia un lavoro su di sé che nell’interdire determinati comportamenti propri non ha lo scopo di moralizzare condotte ma di smontare dall’interno una macchina, o meglio una rete di congegni, che non può funzionare se non grazie a inavvertiti consensi.

    In questo senso, per esempio, la battaglia sistematica di chi lavora nell’università, oggi che sono all’ordine del giorno i nuovi statuti, potrebbe essere quella di esigere che in essi il sapere venga riconosciuto come “bene comune”, come appunto suggerisce questo manifesto; e, ancora, oggi che si comincia a intravedere l’impronta tecnocratica della neonata agenzia nazionale di valutazione, quella di rifiutare, smontare, portare in secca ogni approccio bibliometrico e di fitness intellettuale nelle pratiche di valutazione, comunque confezionato e a tutti i livelli, scuole comprese… e così via.

    “Questo non è un appello che basti firmare: questo è un invito, aperto a tutti coloro che lavorano nell’ambito della cultura e delle arti, a pensare e ad agire assieme”. Pensare ed agire assieme mi piacerebbe molto; anzi, penso che sia necessario; per questo, ripeto, trovo questo manifesto un fatto importante. Però ditemi perché è scritto così.

  26. Alcuni appunti veloci:

    Recupero del “mandato sociale” degli intellettuali, unificazione dell’azione culturale con quella politica, sguardo esterno allo specifico letterario, consapevolezza della crisi “dei valori”, critica sociale, schiaramento “a sinistra”, volontarismo, dialettica tra richiesta di spazi istituzionali e autonomia del “gruppo”, ricerca dell’unificazione con altre realtà in movimento, sindacalizzazione di alcune istanze … In un certo senso, il Manifesto TQ invita a percorrere il passaggio che dall’intellettuale “separato” porta a quello “impegnato”, in piena concordanza con l’armamentario “engagé” del passato. È diversa la situazione, non esiste più un riferimento “forte” (partito o classe), eppure è simile la volontà di reagire alla condizione di “crisi” e alla proletarizzazione/marginalizzazione dell’intellettuale. In linea generale, tutto condivisibile. Storco il naso quando leggo i “nomi” degli aderenti, ovvero quando mi metto di fronte al lavoro intellettuale svolto da alcune delle individualità che compongono il TQ. Ora, un intellettuale è sempre un “creatore di contenuti”, uno di quelli che un tempo venivano chiamati “tecnici della comunicazione sociale”. Un intellettuale produce sempre “ideologia”, all’interno di un’ampia forbice che va dal momento del “consenso” a quello della “insubordinazione”. Come lo fa? Lo fa nel suo operare quotidiano: lo fa, per così dire, “dentro l’opera”, in quello che è il suo intervento specifico sul “codice”. Gli estensori del Manifesto TQ non sono interessati ai discorsi estetici o alle disquisizioni di poetica. Se prendo questa intenzione e la faccio interagire con alcuni “nomi”, direi che molti TQ non sono interessati a operare uno scarto all’interno del codice; più che trasferire il momento della critica dentro il segno o alle loro pratiche, provano ad agire politicamente nella società. A parte il fatto che mi viene da ridere nel pensare che un intellettuale aspetti TQ per agire (il minimo della decenza presupporrebbe la partecipazione alla cosa pubblica, sempre e a prescindere), paradossalmente potrebbe capitare il caso (accaduto realmente, per quanto qui usato come metafora) di un famoso attore che firma un appello contro “la cultura del berlusconismo” dopo aver recitato in una fiction spiccatamente berlusconiana … Insomma, potrebbe aderire alle istanze del TQ un intellettuale che contribuisce, con la sua pratica specifica, al mantenimento di quelle stesse condizioni che enuncia di voler combattere. In questo cortocircuito risiede il limite più grosso del TQ. E qui si inserisce il discorso sui “fatti”. Il Manifesto dà molto rilievo alla precarietà, allo sfruttamento in ambito editoriale e alla svalutazione della cultura. Ne deduco, del tutto logicamente, che da subito gli editori (o le figure che coprono ruoli di responsabilità) che hanno aderito a TQ smettano di sottopagare, poniamo, un traduttore, o di stipulare contratti di “prestazione occasionale” o “a progetto”, privilegiando forme contrattuali non precarie. Se così non fosse, tra le intenzioni e le azioni l’incoerenza la farebbe da padrona … Io ritengo che le condizioni non lo permettano, e che tutto si ridurrà a mere indicazioni di principio; ma aspetto di essere smentito. Allo stesso modo, mi aspetterei che quanti, a diverso titolo, collaborano con alcune di quelle “grandi” case editrici responsabili dell’odierno scadimento culturale (perché, insomma, diciamocelo chiaramente: le case editrici hanno una responsabilità enorme, e non può bastare sapere che al suo interno ci sono persone che lavorano bene!), mi aspetterei, dicevo, che operino al loro interno per cambiare la politica editoriale. Anche qui, ho i miei dubbi sull’esito. Se la letteratura “la fa il mercato” (perché così è, piaccia o non piaccia), non vedo come, a fronte di una società priva(ta) di cultura e poco incline alla lettura “di qualità”, le case editrici possano cambiare rotta. Anche in questo caso, l’azione che implica il Manifesto mi pare poco perseguibile; tutto si ridurrà a petizioni di principio. Potrei continuare così per tutti i punti toccati dal Manifesto. Ciò solo per dire che alcune delle attese rispetto ai “fatti” e alle “azioni”, come, ad esempio, quelle di Luigi B., possono essere valutate a partire dalle loro premesse. La coerenza tra ciò che si professa e la riuscita delle azioni è facilmente misurabile (la lotta è una scienza). Anche (e forse soprattutto) a partire dai “nomi”. Per quanto mi riguarda, non potendo parteciparvi (essendo, anche se solo per un paio di mesi, fuori dalla “generazione” TQ), continuerò ad osservare con attenzione i “fatti” di cui si faranno promotori. La mia perplessità l’ho già espressa. L’ho fatto, certo, solo sulle “parole”; ma solo parole hanno, sino ad oggi, prodotto i TQ, a partire dalle premesse pubblicate sul Sole 24 Ore (!!!). Nel labirinto ogni spazio è collegato ad un altro; per quanto, almeno all’apparenza, non offra un’uscita, in realtà l’uscita esiste. Il Manifesto TQ riesce, per quanto mi riguarda, a dimostrare la pervasività del labirinto e, allo stesso tempo, l’incapacità di staccarsi da esso. Ciò che manca, infatti, è la contestazione al ruolo e alla funzione dell’intellettuale; ciò che manca è il rilevamento del legame tra questa figura e la gestione del potere, scandagliando i nodi critici che fanno dell’intellettuale una “articolazione strutturale” dell’amministrazione del presente. La lettura che offre Mozzi è emblematica. Ho l’impressione che la scelta di evitare lo “scontro frontale” è un modo elegante di evitare lo scontro tout court. Cosa manca? Manca quella semplicissima frase che Brecht disse ad un congresso di intellettuali: “Parliamo, compagni, dei rapporti di proprietà”. Ma io, notoriamente, sono infarcito di ideologia, e dunque non faccio testo …

    PS (piccola nota teorica su un punto del Manifesto): sottrarre il libro “allo statuto di merce” è impossibile finché esiste un sistema fondato sulla merce. Un intellettuale, ancora di più se “collettivo”, dovrebbe saperlo.

    NeGa

  27. @valeria pinto
    il tuo testo dimostra ottime conoscenze e competenze specifiche.
    Immagino che nel campo della filosofia teoretica, dellam ricerca e della didattica, abbia più competenze di un musicista o di uno scrittore.

    Cosa c’e’ di neoliberale o liberista o oreazionario nel dire che un falegname ha competenze tecniche e artiginali nella lavorazione del legno?
    anche se non ha vaste e universali conoscenze sul legno la sua composizione chimica le diverse qualità al mondo, le sue proprietà fisiche.

    Insomma le parole si sa sono usate abusate e stravolte, malgrado loro
    ma

  28. Aggiunta:

    È illuminante leggere (su Vibrisse) gli apprezzamenti di alcuni estensori del Manifesto al commento di Mozzi. Parrebbe che la scelta ricada sulla prima prospettiva delineata da Valeria Pinto (“che tutto alla fine si risolva in una sorta di richiamo etico”). In fondo, Mozzi, pur sottolineando la sua “alterità”, sta dicendo che è impossibile non essere complici. Qui le cose sono due: o i “mozzi” sono, anche dal punto di vista quantitativo, pochi, e allora incapaci di incidere effettivamente sullo sporco dei ponti, o è la stessa azione “dall’interno” ad essere costitutivamente impossibilitata a trovare la forza adatta a togliere le incrostazioni, soprattutto a fronte di una carenza, per così dire, “esterna” (l’assenza di un “movimento” che metta in dubbio tutta la società). In entrambi i casi, resta, a dispetto dei corpi curvi dei “mozzi”, il movimento lento e impassibile della nave.

    NeGa

  29. Nevio, premetto che i mozzi sono effettivamente due, come si può vedere qui sotto (spero che l’immagine appaia, sennò è qui):

    [caption id="attachment_11996" align="alignnone" width="102" caption="Ingrandisci"][/caption]

    Poi: un “richiamo etico” serve spesso a poco; invece la definizione di una “etica professionale” o deontologia serve, secondo me, parecchio.
    E questo c’è, secondo me, in nuce, nel manifesto Tq per l’editoria.

  30. Chissà se come sessantenne posso commentare qui sotto, probabilmente no, mi sento le spalle gravate dalla colpa. Puoi cancellarmi senza che io protesti, Inglese. Se lo facessi direi, vedo che tutti vi concentrate sui manifesti 1 e 2. a me non interessano, mi pare evidente che sono il frutto di tali e tante mediazioni da essere diventati assieme massimalisti e generici. un esito probabilmente inevitabile. ma ho una forte curiosità per il 3. Mi piacerebbe assistere a qualche azione di «disturbo o “guerrilla” culturale e artistica» da parte di questa generazione TQ. Ne ho una certa nostalgia, anche se preferirei vederci dei ventenni. In ogni caso, lì si parrà… non altrove, a mio avvviso. Anche se le azioni di disturbo non procurano al sistema che pochi frissons, sono capaci a volte di creare in una generazione un sentimento collettivo, che questa e forse anche la successiva palesemente non hanno. Cosa farsene poi, beh, è tutto da vedere, e non totalmente nelle mani di chi lo promuove, ma è sempre qualcosa, a volte è molto.

  31. Ho ripreso in “vibrisse” il commento di Valeria Pinto che si legge poco sopra. Poiché in “vibrisse” Christian Raimo ha risposto, penso sia sensato riportare anche qui la sua risposta.

    Valeria, la tua è un’analisi preziosa. I manifesti stanno per fortuna ricevendo quello che chiedevano, critiche capillari nel merito anche da chi non li ha elaborati. La tua fin adesso è la migliore, a mio parere, e mette il dito su una piaga di cui tu stessa devi prenderti a questo punto una responsabilità: partecipare a un’elaborazione comune dall’interno.
    La piaga è la difficoltà utilizzare un linguaggio chiaramente devastato da anni di marketing culturale e politico. Competenza è una parola inutilizzabile? Forse sì. Merito anche? Sono convinto di sì in questo momento. Etc… Il lavoro pubblicitario sulle retoriche è stato così efficace che oggi buona parte del lavoro politico è un lavoro di destrutturazione e ristrutturazione di quelle retoriche. Le buone e le cattive pratiche, sono come le buone e le cattive retoriche. Socrate e i sofisti, stiamo sempre là.
    E come vedi, anche nella parte che chiama all’azione, molto di quelle che si pensa di fare è anche restituire una dimensione politica a pratiche di conformismo mercatista. E “Guerrilla” evoca il Che in Bolivia o i Tupac Amaru come le più invasive campagna di guerrilla marketing. Per noi, si sperava evocasse anche il guerrilla gardening.
    La stessa “doppiezza” evocate da Giulio nel precedente intervento va contestualizzata sempre di più. Per me vuol dire “essere nel mondo, ma non del mondo”, per altri vuol dire paraculaggine.
    Per questo, ti dico, è fondamentale, più di ogni altra cosa, questo ritrovarsi: per slegare le parole e i concetti da una comunità che non esiste, e legarli invece a una comunità che esiste.
    Grazie (questo era anche il senso).

  32. @ Giulio Mozzi. Onorata dell’accoglimento in “Vibrisse”. Credo che la divaricazione sia illuminante, e cerco quindi di illustrare meglio la mia perplessità (che – @ Christian Raimo – non è lessicale, o meglio lo è in rapporto a una scelta di campo, dunque grazie, parliamo, ma la piaga per me va affrontata a partire da questo). Per continuare a discutere qui: io appunto non ho parlato di “richiamo etico” in senso generico o morale (un appello che parla alle coscienze, il foro interiore ecc.) ma precisamente di una “deontologia professionale dell’operatore della conoscenza” – in questo caso qualcosa di non diverso, secondo me, da una “etica sociale di impresa”.

    Se una grande azienda dà il proprio sostegno a una campagna di Save the Children o dell’Unicef in vista di questo o quest’altro obbiettivo benemerito; se una multinazionale mette sui propri prodotti un bollino che certifica che non si fa ricorso al lavoro minorile; se piccola azienda fuori dai grandi circuiti di distribuzione adopera il marchio “Indy”, per certificare che si sono seguite certe procedure (“buone pratiche”) e non altre e così via… tutto questo può andare bene non andare bene, essere molto o essere poco: dipende dall’obbiettivo perseguito. Se l’obbiettivo è una prassi che disinneschi la “messa in concorrenza generalizzata” propria dei meccanismi neoliberisti (i.e. il “Parliamo, compagni, dei rapporti di proprietà” che cita Nevio), tutto questo è pochissimo. Il “neoliberismo epidemia dell’Occidente” (e l’Oriente no?) di cui parla il manifesto è all’avanguardia in queste pratiche “etiche”, che anzi esso stesso formalizza, incentiva e promuove. Il bollino etico può andare, anzi va, tranquillamente insieme al contratto di lavoro NewCo di Pomigliano, il quale può essere presentato proprio come una scelta etica di responsabilità. Lo stesso per la cosiddetta valutazione, che è un meccanismo di controllo mai visto prima (e dai rilevanti interessi economici), che si presenta appunto come uno strumento di moralizzazione, avverso ai privilegi di casta e agli sprechi (value for money) e a favore della responsabilità sociale (accountability).

    Il fatto è che non è vi è per nulla, come anche si sente dire in giro, un indebolimento, un declino della politica; piuttosto le politiche (al plurale) neoliberiste funzionano non più nella forma dello Stato che legifera dall’alto e dall’esterno, ma bensì funzionano delegiferando e impiantando ovunque “politiche di autogoverno” (governance), centri di responsabilità, in breve un’etica (pubblica) produttrice dei valori. Questi devono essere incorporati (embedded) affinché il meccanismo funzioni, perché esso in realtà funziona soltanto col consenso, o anche, si può dire, con la complicità di tutti gli attori. Ad esempio – per parlare di un meccanismo che conosco meglio – tutti gli “esperti” di valutazione sottolineano la necessità della diffusione capillare di una “cultura della valutazione”, ossia che attorno a queste pratiche si crei un clima di intima convinzione anzitutto da parte di coloro che vi sono soggetti; la “naturalizzazione”, l’incorporeamento del meccanismo rappresentano un processo consapevolmente lento (qui la differenza di questo progetto di educazione permanente da una semplice propaganda, che lavora sullo shock e non incide nel profondo), sicché molte stime individuano un tempo non inferiore ai vent’anni per il funzionamento ottimale di questi dispositivi. I “valori etici” hanno qui un senso etimologico di formazione dell’ethos – dell’ethos cioè (dalla guerra umanitaria alla valorizzazione del merito) più congruente con l’affermazione delle pratiche neoliberiste.

    Queste sono le mie riserve sulle prospettive etiche, per quanto nobili e attraenti: nella migliore delle ipotesi vanno a costituire delle enclave, ma nella peggiore, ovvero per lo più, assumono una funzione di lubrificante, un (diabolico) effetto di vanificazione di ogni attrito e resistenza. (Per fare qualche esempio di come – @ Christian Raimo, con o senza “paraculaggine” non importa – riferimenti al piano morale finiscano con l’essere funzionali a trasformazioni politiche di destra: Report che magnifica il “bellissimo editoriale di Giavazzi e Alesina” sull’esclusione dei giovani; Anno Zero che, nell’empatia per il comprensibile risentimento dei “cervelli in fuga”, dà spazio alle lodi per le più aggressive “enterpreneurial universities” statunitensi; in un altro contesto, la concordia, eticamente motivata affinché non “siano i poveri a pagare l’università dei ricchi”, con cui uno schieramento parlamentare che va da Pietro Ichino a Ignazio Marino, da Tiziano Treu a Francesco Rutelli, sollecita al Governo l’aumento delle tasse universitarie sul modello britannico…).

  33. @federica pinto
    scusa la mia incopetenza ma io il tuo discorso proprio non lo capisco.
    Per anni anzi decenni la formazione e la selezione della classe dirigente di questo paese è avvenuta secondo criteri corporativi e clientelari. Dappertutto nelle università negli ospedali nel parlamento e finanche nelle aziende il prodotto di tutto questo è una classe dirigente incompetente, corrotta, privilegiata, impudente.
    Non capisco perchè ti fanno schifo parole come “valutazione” e “competenza” (a meno che tu non gli vuoi dare un significato forzatamente negativo) e regalarle al neoliberismo.
    Non capisco perchè mai un giovane senza raccomandazioni e relazioni non debba rivendicare il merito come criterio di valutazione e selezione.
    O pensi che sia rivoluzionario il modo in cui quella ragazza è divenuta consigliere regionale ?
    O pensi che l’università italiana prima dell’attualle colpo di grazia inferto dal gogoverno, fosse il paradiso della cultura?

  34. “Competenza” però è una parola compromessa:
    grazie Valeria
    le più belle parole sono piccoline alate:non so
    c.

  35. no problem carmine! :-)
    chiamoli saperi, conocenze, risorse.
    Diciamo pure che tutto cio’ richiede fatica, metodo, rigore, studio, costanza e che tutti dovrebbero avere pari diritto ad accedervi.

    Diciamo infine la cosa piu’ importante che qualifica un comportamento individualista, cinico ed egoista per l’appunto neo-liberale è la ricerca del profitto personale (l’illusione di poter estendere il desiderio oltre ogni escludendo qualsiasi limite fino a diventare perversione) della propria famiglia, gruppo, clientela, non importa se ciò provochera dei danni o dei disastri o dei dolori alla collettività.

    Se questi saperi, queste intelligenze, sono messi al servizio del bene comune (è questo il criterio di valutazione che dovrebbe guidare i comportamenti, le decisioni, i processi di selezione delle”competenze”, infine delle classi dirigenti), se cioè un gruppo si prefigge di dare un calcio nel culo a questa mortifera e puzzolente classe dirigente, con l’idea di voler mettere in pratica una nuova etica pubblica, beh non vedo perchè non esserne contenti e nutrire almeno una speranza. la speranza cioè che nella società possa affermarsi questa nuova pratica e questa nuova etica dietro la spinta dei V e non solo dei TQ.

  36. Spero di riuscire, per parte mia, a rispondere quanto prima all’intervento di domenica pinto.

    Intanto una piccola nota che ho lasciato anche su Vibrisse. E che riguarda una questione decisiva, ossia il tentativo che TQ ha avviato di articolare il discorso etico e quello politico. Ovviamente, è questa articolazione a generare ovunque più diffidenze. Quelli per cui tutto sommato non bisogna cambiare lo stato di cose esistenti, vogliono cancellare la propaggine politica. Facciamo tutti un buon lavoro, e non se ne parli più. La minoranza di ultramilitanti, invece, ha già chiare tutte le risposte (politiche), prima ancora di scendere sul terreno specifico delle pratiche reali, della condizioni storicamente nuove, dove emerge la contraddizione etica.

    Il punto sollevato da Vincenzo (rispondendo a Mozzi su Vivrisse) è molto importante, anche se si chiarirà nel tempo. Si tratta dell’articolazione tra etica e politica nel progetto TQ. Su questa articolazione mi riservo di intervenire in seguito e con un discorso approfondito. Per ora mi limito a questo.
    Quando dici, Giulio, è dalla riflessione sul proprio lavoro che emerge una coscienza politica, hai perfettamente ragione, Anche perché così è sempre stato. Ma questa riflessione non avviene in un vuoto di vocabolario politico. Io capisco quando tu stigmatizzi la prospettiva politica come premessa. Ma le cose sono ancora più complesse.
    Senza un vocabolario politico i nodi di carattere etico non assumono una prospettiva, ossia una visione in cui il problema locale, professionale, si collega ad un panorama più vasto, in parte determinato da linee di governo, da discorsi ideologici, da circostanze economiche.
    Ora rispetto ai problemi attuali, vissuti sulla propria pelle della generazione TQ, ad esempio, ogni vocabolario politico è in parte “vecchio” e “inappropriato”, d’altro parte non esistono mille vocabolari politici, un vocabolario politico non si rinnova ogni giorno come una linea di cosmetici.
    Ogni movimento contestatario non è mai sincrono con il proprio vocabolario politico. Ma il vocabolario politico, per inadeguato che sia, è indispensabile per nominare fenomeni, articolazioni, classi di oggetti. Senza di esso tutto si limiterebbe ad un discorso di lavoro coscienzioso. Fare bene il proprio lavoro. Purtroppo, il secolo scorso ha mostrato una volta per sempre che fare bene il proprio lavoro è un principio che anche i peggiori carnefici possono rivendicare per se stessi.
    Tornando a TQ: quello che mi sembra stia accadendo è un fenomeno di non facile sincronizzazione tra condizioni molto determinate storicamente e socialmente, da un lato, e un vocabolario politico ereditato – vocabolario a sua volta stratificato e non omogeneo -, che emerge come strumento indispensabile per avviare proposte di cambiamento efficaci.

  37. “carmelo
    Pubblicato 30 luglio 2011 alle 16:26 | Permalink
    *@federica pinto*
    scusa la mia incopetenza…”

    “giuliomozzi
    Pubblicato 31 luglio 2011 alle 00:30 | Permalink
    E naturalmente, *Veronica*, copio il tuo intervento…”

    “andrea inglese
    Pubblicato 31 luglio 2011 alle 11:41 | Permalink
    Spero di riuscire, per parte mia, a rispondere quanto prima all’intervento di *domenica pinto*…”

    vi prego, ditemi che almeno lo state facendo apposta!

    valeria

  38. @ Valeria
    una, nessuna, centomila pinto…—));

    p.s. condivido molto le tue notazioni: i limiti del mio linguaggio ostituiscono i limiti del mio mondo.

  39. @ Andrea Inglese
    No, Andrea, non è “il tentativo che TQ ha avviato di articolare il discorso etico e quello politico” a generare diffidenze. È, piuttosto, la consapevolezza che quella articolazione è già in atto: non c’è azione, anche la più schifosa, che non sia giustificata eticamente.

    George W. Bush non ha forse giustificato “in termini etici” la guerra contro l’Iraq? Massimo D’Alema non ha forse aggredito militarmente la ex-Jugoslavia chiamando in causa l’etica? Quanti richiami etici ci sono nei discorsi del Papa?

    L’etica è la perfetta giustificazione della politica dominante.

    Leggi queste frasi:

    “[…] dovremmo parlare piuttosto di “etica dei concetti”, che significa fondamentalmente domandarsi cosa stiamo facendo in realtà in relazione al mondo che ci circonda. Voglio dire, si può “essere etici” nel processo produttivo costruendo armi, ma si producono tuttavia armi che seminano distruzione, e questa sì è una contraddizione. Etica dei concetti significa oggi cercare di dare valore al sogno utopico di una impresa che sappia, ad esempio, coniugare profit e non profit, una impresa redditiva ma compatibile con il tema della responsabilità sociale, che sappia coniugare il sogno della fondazione con la realtà del prodotto.”

    Quanti aderenti a TQ le approverebbero? Non è forse il fondamento vero (o almeno uno dei) di alcune parti del Manifesto TQ? Non costituisce, di fatto, al di là della diversa forma espositiva, la base “filosofica” dell’intervento di Mozzi?

    Ebbene, come in un certo qual modo mi sembra che dica anche Valeria Pinto, questa è l’etica del capitalismo odierno (l’autore, per inciso, è l’imprenditore Lorenzo Fluxa, della Camper). Faccio profitti, e dunque ti sfrutto, però ti sfrutto per fare del bene (o della “qualità”), diciamo che lo faccio responsabilmente …

    E se avesse ragione Zizek, là dove afferma che l’etica è “un atto di violenta depoliticizzazione”?

    In Valle di Susa hanno accantonato l’etica. Ma stanno facendo politica. Le loro azioni – ah, quanto “reali”, Andrea, e quanto sapientemente gestite dagli “ultramilitanti” che irridi – non sono condotte “per bontà” o per una moralità “lecita” o nel rispetto delle “regole” o degli “altri”, ma perché è “ciò che necessita di essere fatto”. La politica, soprattutto se non omologata alla “ragione amministrante”, è al di là di ogni etica, benché si confronti, non possa che confrontarsi, con la misurazione dei comportamenti: ma non già, appunto, sulla base di idee astratte di “bene”, bensì sull’efficacia delle azioni. L’etica emana odore di incenso; la politica di zolfo.

    NeGa

  40. nevio,

    non irrido gli ultramilitanti, li critico in questo caso; per il resto, posso solo dirti che posizioni come quelle che esprimi tu, e che non sei il solo da esprimere, costituiscono per me un elemento di riflessione, ma di riflessione critica; ad un certo punto per ipotizzare almeno di modificare i raporti di forza, bisogna aggregare non dividere, creare consenso non frazionare. E l’aggregazione la fai con le persone che sono dentro il mondo lavorativo, con le sue contraddizioni, i suoi inevitabili compromessi, non la fai da fuori. Se vuoi far imballare la macchina o fargli cambiare strada, devi inventarti qualcosa di diverso con quelli che sono nella macchina, che normalmente la fanno funzionare.

    Sull’etica poi hai la stessa attitudine di Abate sul termine democrazia, in una vecchia discussione proprio qui. Siccome l’etica può giustificare il peggio, allora buttiamo via l’etica, l’etica non vale nulla. Ma scusa, che discorso è. (Abate: siccome bush parla di democrazia, allora la democrazia è una cazzata.) Ma di questo passo, uno potrebbe dirti, ma lo sai che in nome della politica sono stati sterminate migliaia, a volte milioni di persone. E dunque? Qui siamo a livelli di astrazione pura.

  41. Valeria Pinto:
    sono uno scemo
    sono uno scemo
    sono uno scemo

    ecco, e mi scuso, Valeria, Pinto.

  42. @ Andrea
    Se rileggi il mio ultimo capoverso noterai che io non butto via l’etica in generale; diciamo che la problematizzo politicamente. Esistono tanti tipi di “etica”. Dall’etica della “compassione cristiana” sino al “cinismo produttivo” di Marchionne … Tutto ha una sua “etica” di riferimento. Nel Manifesto sull’editoria, l’etica è “improntata” alla “trasparenza”, alle “competenze” e al “merito”. Lo scrivete esplicitamente. Valeria Pinto ha avanzato delle riserve più che sensate su ciò (e il titolo di Mozzi – “liberisti involontari” – è perfetto). Vincenzo Ostuni, nella discussione su Vibrisse, dice che il Manifesto non pratica più il sospetto sulla terminologia. Ma la terminologia non è neutra. L’uso di certi termini a scapito di altri, come tu ben sai, conferisce senso al discorso, e talvolta rende evidente un senso “nascosto” agli stessi estensori. Come ho già scritto, la mia impressione è che nel tentativo di trovare un’uscita dal labirinto (intento che condivido) vi lasciate trasportare da una corrente che qualcun’altro sta regolando, spingendovi alla deriva da nessuna parte (liberismo involontario, appunto). Anche le “prescrizioni” etiche suggerite dal Manifesto sull’editoria sono in contraddizione con lo spirito “anti-liberista” della prima parte; diciamo che, per lo meno, le indicazioni che date non contrastano con il sistema in generale. La trasparenza rispetto ai finanziamenti pubblici è già esistente, basta andare a leggersi le delibere; le concentrazioni editoriali sono contrastate, entro certi limiti, dall’anti-trust; tante professioni hanno tariffari di riferimento; etc.. Se posso permettermi, il Manifesto è molto confuso (sull’etica e su molte altre cose); e lo è a tal punto da farmi sorridere nel pensare che gli estensori hanno tutti a che fare con la pratica del linguaggio. Ma io, ormai, appartengo alla generazione precedente; accogli quindi questi miei rilievi bonariamente. D’altronde, usciti dalle illusioni generazionali ci si sente più leggeri …

    NeGa

  43. Caro nevio,

    le critiche mirate sono ben accette, in qualche modo sono già interne a TQ, e averne delle altre, esterne, non può che giovare. Le questioni sollevate da Valeria Pinto – cerco di azzeccarle il nome di battesimo stavolta – sono pertinenti. E richiedono sia una risposta sia una riflessione. Dico questo non in modo cerimoniale. Sono uno che avversa, ad esempio, il termime meritocrazia. Termine che in sé, nel suo adeguato contesto, appartiene alla tradizione delle istituzioni democratiche. Ma, come tu ben dici, oggi alcuni termini sono troppo insidiosi. Ciò nonostante dei rischi si debbono prendere. E non è che io veda i limiti di questi manifesti. Nello stesso tempo penso che siano un passaggio necessario, per quello che più ci interessa: ossia proposte alternative.

    Solo che non so quando riuscirò, per parte mia, a rispondere alle sollecitazioni acute della Pinto.

  44. Non mi sono eclissata. Anch’io ho bisogno di un momento di tempo. Vorrei riuscire a rispondere ad alcune delle cose dette, ma mentre ruggisce agosto vado piano.

  45. diciamocelo: sulla questione Tq, i commenti – qui e negli altri luoghi in cui se ne parla – i commenti sono tutti utili ed educati e dialoganti. è già una buona cosa, un’ottima cosa. alla fine c’è rispetto per le posizioni Tq, e per i Tq stessi. altrettanto rispetto nei confronti delle posizioni critiche, mi pare. e credo che, in effetti, le discussioni che si stanno sviluppando intorno al tema, stiano dando delle indicazioni in più, rispetto al tema.
    a questo punto, aspetteremo, vedremo come e quanto i Tq incideranno sul tessuto e sulle abitudini culturali di questo sciagurato Paese. nel frattempo, quanti si stavano già impegnando, si impegnano, s’impegneranno fuori da sigle e generazioni – o in altre sigle e altre generazioni – faranno il loro.
    e speriamo che tutto questo impegno porti a qualcosa. davvero.

    e-

  46. Scusate l’irruzione, magari faccio una domanda a cui da qualche parte qualcuno ha già risposto. Poniamo, un passionato delle lettere, un magari umilissimo stagista dell’editoria o che so qualcuno con un tantino di ambizione, magari con tante idee che non sa bene se riuscirà a mettere insieme – insomma, letto il manifesto vuole aderire a Tq. Ecco, poniamo anche che questo mio amico abbia vent’anni. Che deve fare? Si può o non si può? Grazie, tm

  47. Trovo il “dibbbattito” interessante e coinvolgente, nonostante la calura estiva inviti a buttarsi su questioni meno impegnative (anguria o melone?), però….però: il manifesto di TQ si presenta come un invito aperto a quella che con termine abusato si definisce “società civile”: ma allora perché non vengono accettate le adesioni e i commenti sono sparpagliati fra almeno tre blog? Perché si ha l’impressione, nonostante i manifesti siano esplicitamente rivolti ai “lavoratori della conooscenza”, che siano poche le persone a dialogare tra loro, e probabilmente non solo in pubblico? Quale può essere l’incidenza degli interventi fuori da sigle e generazioni (come dice enpi) se non si raccolgono formalmente sotto una sigla (o quel che è) riconoscibile come tale? E infine: solo io vedo l’oscillare pauroso fra definizione tagliata col bisturi e generalizzazione funzionale ad una raccolta ampia di consensi?

  48. Se c’è una cosa che di primo acchito mi sentirei d’imputare a tq è la mancata creazione di uno spazio unitario per i commenti sul proprio blog. Non perchè veda ciò come una mancata disponibilità al dibattito, i fatti dimostrano il contrario, ma perchè per chi -come me- non è particolarmente aduso a discussioni online è alquanto faticoso star dietro a tutte quelle aperte sui vari blog e siti. E, soprattutto, non si sa su quale intervenire. Comunque…
    Da 33enne ricercatore “virtuale” (dal punto di vista della retribuzione) fuori dai giri cui non è ancora stata data risposta alla richiesta di adesione, mi sento di dare una convinta apertura di credito a quello che è ovviamente soltanto un inizio. Nei manifesti non mancano gli aspetti criticabili o, ancor più, il dubbio sulla realizzabilità di talune petizioni di principo, ma ciò che non mi sembra accettabile è la chiusura preventiva, la dietrologia (“perchè lo fanno? quale vantaggio vogliono ottenere? ma avete visto che vengono tutti da tale e talaltra casa editrice?”), il sarcasmo fine a se stesso che si legge da varie parti.
    Ciò che mi interessa è -per il momento- il gesto in sé: la volontà di ricostruzione di un’azione comune, la palinodica presa di coscienza che è necessario uscire dall’individualismo in cui siamo cresciuti e del cinismo/scetticismo che ci hanno accompagnati. Non è facile liberarsene, io per primo ne sento la difficoltà, però non c’è altra strada per cercare di svoltare rispetto alla deriva costante verso l’inessenzialità dell’intellettuale in atto da decenni (in Italia più che altrove, probabilmente). C’è qualcosa di volontaristico, sembra quasi di forzato, in questo tentativo di unificazione e di rinnovo dell’impegno? Secondo me sì, ma è inevitabile, sono gli sbuffi e gli stantuffi di una macchina che cerca di rimettersi in moto dopo tanto tempo.

  49. Sottoscrivo quello che scrive ng e sono molto contenta che alcuni condividano quello che ho scritto io. Vorrei tornare sul nesso tra etica della professione e azione politica comune su cui insistevano Giulio, Andrea, e prima in “Vibrisse” Vincenzo Ostuni, per provare di qui a ritornare su un po’ delle cose dette. Perché anch’io penso che bisogna aggregare e che l’aggregazione si fa anzitutto con chi è dentro il mondo lavorativo e (anche) di qui sviluppa la propria coscienza politica; e però penso che questo ambito lavorativo di resistenze settoriali e locali è quello in cui bisogna articolare una prospettiva globale.

    Sul punto ripropongo, in via preliminare, un riferimento all’Appel des appels francese, che ho già citato e secondo me potrebbe avere molto in comune con TQ, o almeno questo è il mio auspicio. Facilmente rintracciabile in rete l’illustrazione che ne fa uno dei promotori, Christian Laval: “Occorre sottolineare la doppia novità [di questo appello]. Da una parte, le persone che si riconoscono in questo movimento sono dei professionisti intellettuali, o più esattamente dei membri di professioni intellettuali o intellettualizzate; da questo punto di vista, non sono sicuro che accetterebbero la qualifica di intellettuali, o di intellettuali “specifici”. Dall’altra parte, precisamente, questi professionisti non intendono negare, bensì superare la “specificità” della loro professione e delle loro pratiche: questa specificità la vivono come una base e un punto di partenza dell’azione, come un possibile punto d’incontro tra i mestieri, ma anche come un limite e ostacolo se ci si continua a rinchiudere in una logica corporativa. Non vogliono abbandonare il terreno preciso del loro mestiere a favore di poste in gioco più generali, più lontane, più nobili; non si tratta solo di salire di generalità, guadagnare in universalità, acquisire più legittimità, secondo uno schema classico nella dinamica dei movimenti sociali. È che la pratica stessa della loro lotta implica un ricongiungimento con tutti quelli che, da parte loro, in un altro servizio, un’altra istituzione, un’altra funzione sociale, fanno esperienza della medesima logica generale, sentono le stesse parole, si confrontano con gli stessi dispositivi di potere”.

    In questa logica di una trasversalità degli specifici lavorativi, parlo allora un momento del mio: l’università, che poi non è estraneo anche ad alcuni dei TQ ed è comunque, vedo, un ambito sul quale TQ prevede di intervenire. Osservo di passaggio, perché mi sembra assai simbolico della partita in atto, che praticamente lo stesso giorno in cui il manifesto di TQ saliva alla ribalta con tutte le sue buone intenzioni, la più antica università europea – l’Alma Mater di Bologna – approvava il nuovo statuto, interamente piegato alle nuove logiche del “mercato della conoscenza”.

    Ora, negli ultimi tempi l’università è stata sotto i riflettori in modo straordinario; e nonostante le più improbabili corse a salire sui tetti, la riforma Gelmini è passata (perché in effetti non è stata osteggiata da chi avrebbe potuto). Se si pensa però che questa riforma sia il peggio si è fuori strada. Essere contro la riforma è facilissimo, soprattutto a parole. Essere contro il processo di Bologna e la strategia di Lisbona, di cui la riforma Gelmini non è che un momento (come tutte le altre prima di lei), invece è difficilissimo, anche solo a parole. Nella pletora di manifesti e petizioni che si producono a costo zero, non ne trovi uno. Se sei contro il processo di Bologna, cioè per una resistenza concreta alla trasformazione dell’idea di conoscenza richiesta e promossa dal progetto della società globale della conoscenza, nella migliore delle ipotesi sei un nostalgico dell’arroccamento accademico, un conservatore che difende l’indifendibile e l’immoralità dei privilegi di casta (e – qui la questione generazionale si fa sentire davvero – questo te lo viene a dire magari chi è prossimo alla pensione e la sua parte di disastro l’ha fatta ampiamente e non smette). In ogni caso combatti una battaglia persa.

    La “modernizzazione” del processo di Bologna significa però, solo per gettare luce su un aspetto particolare, l’idea del lifelong learning e del self-empowerment, ossia di tutte le strategie necessarie a costituire il tipo umano in migliore armonia con la flessibilità del mercato, in grado di raggiungere, come dicono (prendo una descrizione a caso tra le molte disseminate in rete), “una condizione esistenziale cognitiva e affettiva caratterizzata da una serie di capacità, cosiddette di auto-efficacia”, consistenti “nella capacità di sentire gli eventi sotto controllo e interagire con successo rispetto ad essi, concentrandosi sulla soluzione dei problemi piuttosto che sulla loro natura, di percepire le difficoltà come sfide e porsi davanti obiettivi stimolanti da perseguire e coltivare, la progettualità, il potere di scelta, la visione positiva delle cose, ecc.”; dove “diverse sono le fonti su cui occorre lavorare per sviluppare il self-empowerment, nonché i pensieri, le emozioni e i comportamenti che ne derivano”, perché ciò che è in gioco qui non è una prestazione di lavoro ma una interezza di vita consacrata a questa prestazione (non un management del lavoro, ma con Marx, diciamo, un management della “forza lavoro” che si è).

    Per stringere ancora il fuoco su un aspetto che forse suona più noto, il processo di Bologna corrisponde al plesso autonomia-valutazione, ossia l’asse principale della nuova architettura dei luoghi della conoscenza: una via lenta ma sicura per consegnare formazione e “produzione della conoscenza” alle corporate e entrepreneurial universities transazionali (non appena sarà stato abbattuto l’ultimo – più che altro simbolico, e non per dire – baluardo della vecchia università ch’è il valore legale del titolo di studio) e alla non diversa logica privatistica delle agenzie di accreditamento (la strada aperta dalla prescrizione che i corsi di laurea si uniformino alle linee guida della “European Association for Quality Assurance in Higher Education”).

    Ora, chi nulla ha detto del carattere europeo o meglio globale del processo e (per ignavia, per timore di non essere capito, per rassegnazione all’evidenza dell’indifendibile nell’università com’è stata gestita fin qui, o più verosimilmente per malafede) nulla ha detto contro i suoi principi cardine, come il lifelong learning, l’autonomia, la cultura della valutazione, ha pagato la via facile dell’attacco alla sola riforma Gelmini con la contraddizione di invocare più merito, più valutazione, più eccellenza, più competenza e più trasparenza, ossia (consapevolmente o inconsapevolmente, e non so quale caso sia più grave) di contrapporsi alla riforma sulla base dei suoi stessi principi, indicando semmai solo vie alternative (più efficaci?) per i medesimi obbiettivi.
    Tutto questo, mi rendo conto, dal di fuori può apparire astratto e ideologico, oltre che noiosissimo, ma per capire un processo tocca andare nell’analisi (che ha il colore del grigio e non del bianco delle nuvole, e neppure i colori brillanti di una superficiale rivendicazione di superficialità). Sicché stringo ancora il fuoco su un punto estremamente concreto. E mi riallaccio anche a quel passo importante del manifesto TQ che esprime l’intento “di contrastare una preoccupante identificazione tra qualità e quantità in ambito culturale, un ricorso esclusivo a misurazioni numeriche, economicistiche, della conoscenza” (col che provo a rispondere a una questione posta su “Vibrisse” da Federica Sgaggio su “che cosa sia la qualità, come si misura”).
    Di nuovo la valutazione (e forse così riesco anche a rispondere a Carmelo). In generale, il suo obbiettivo non è tanto misurare la produttività, la quantità, ma più ambiziosamente appunto “misurare la qualità”, in vista di un suo indefinito miglioramento (MCQ) attraverso la competizione con chi fa meglio (benchmarking). Nella ricerca umanistica e non solo, c’è un passaggio fondamentale che forse può interessare chi più è sensibile alle questioni editoriali, ossia la preliminare classificazione delle riviste e delle case editrici in differenti livelli di qualificazione (la fascia A, l’eccellenza, non può superare una percentuale assai limitata, la B un tot per cento, ecc., al fondo va tutto ciò che letteralmente non vale niente). I “punteggi qualitativi” (qualcuno un giorno dovrà studiare la meravigliosa creatività ossimorica del neoliberismo) sono determinati da vari fattori (presenza nelle banche dati, affidabilità della gestione, diffusione, impatto, ecc.). La classificazione serve ad attribuire apriori un determinato peso ad ogni pubblicazione senza bisogno di leggerla, il che rende sostenibile in fatto di tempo e costi una valutazione di massa e routinaria, attuabile da organismi esterni: i celebri “organi autorevoli, autonomi e indipendenti” che vengono spesso auspicati, senza però dire che ad essi non è per principio richiesta alcuna conoscenza in ordine ai contenuti che valutano (anche perché a valutare sarà verosimilmente un software che lavora su immense quantità di dati, raccolti da ogni luogo e ordinati secondo gli algoritmi dell’information-retrieval). Le agenzie che gestiscono le banche dati assumono qui un ruolo analogo alle agenzie di rating in economia: sono grandi concentrazioni private e impongono i loro criteri “oggettivi” (in grado p.e. di influire mediatamente anche sulla decisione di che cosa merita di essere studiato) avendo come principio guida l’analisi citazionale. Col che il valore di un “prodotto” si identifica senza scampo con la sua diffusione o tasso di uso (che qualcosa sia citato, non importa quanto apprezzato o addirittura letto) e poco importa che queste variabili siano dipendenti da tante altre cose, tra cui facili manipolazioni e promozioni commerciali (pubblicità, massiccia distribuzione, campagne di presentazione, eventi, festival, brand, e così via). Del resto, ciò che va considerato nella valutazione non deve essere il contenuto intellettuale dei singoli prodotti ma “la rilevanza dei prodotti sul mercato intellettuale della ricerca” (così l’Osservatorio sulla Ricerca di Bologna, punta avanzata di questo approccio in Italia). E, per inciso, esistono parametri per stimare persino il valore monetario di una citazione.
    In base a questi criteri esteriori e in regime di concorrenza generale, ora, le riviste e le collane si trasformano in spazi dominati da una logica competitiva, avente come unico obbiettivo quello di ottenere il più alto impatto, ossia il migliore posizionamento possibile. A chi fa resistenza, non si risparmiano ironie sulla “editoria artigianale e prelibata” e sugli arroccamenti “sterili sotto il profilo intellettuale e improponibili (guarda un po’!) sotto il profilo etico-politico”.

    Tutto questo, che qui è in corso d’opera e sostanzialmente in ombra, si è svolto e si sta svolgendo insieme in tutta Europa e oltre: con le medesime movenze, il medesimo screditamento degli oppositori, i medesimi appelli alla moralizzazione, con un’uniformità sorprendente. E il richiamo morale a questo punto non sorprende più, perché, e questo deve essere chiaro, “Il neoliberismo non è soltanto dottrina economica: è una filosofia sociale e morale, sotto alcuni aspetti qualitativamente differente dal liberismo”. A questi aspetti di differenza (fino al capovolgimento?) dal liberismo classico e dal suo naturale individualismo si potrebbe aggiungere anche il carattere in fondo totalitario (cinese?) di una dottrina rispetto al cui progetto di indefinito perfezionamento/auto-efficacia non è ammesso dissenso. Come dice l’economista Paul Treanor: “Il neoliberismo è una filosofia nella quale l’esistenza e l’operatività di un mercato (…) e di strutture mercatistiche è vista come un valore etico in sé, in grado di agire come guida per tutte le azioni umane e di sostituirsi ad ogni credo etico preesistente”.

    E’ a partire da questa prospettiva che mi ha interessato l’appello di TQ a pensare ed agire insieme. Però non so se l’analisi che ho provato ad abbozzare qui sarà un contributo all’aggregazione, come pure mi sarebbe piaciuto, o piuttosto un congedo. Vedo stasera che sul sito di TQ iniziano a organizzarsi gruppi di lavoro per le “buone pratiche” in questo e quel campo e intanto si rimanda “chi ha ansia di dibattito” a interventi come il mio e altri. Io però non ho ansia di dibattito e trovo anche un errore questo modo di esprimersi. Tra una buona pratica e un benchmark, mi ricordo anche che c’è una cosiddetta crisi (la quale, come si comincia a capire, è invece la nuova stabilità dei nostri tempi, ad alcuni assai favorevole); un discorso politico sulla globalizzazione rimasto congelato l’11 settembre con tutti noi impigliati dentro; e una necessità senza scampo di essere all’altezza.

  50. Cara Valeria,

    metti davvero tanta carne al fuoco, tutta carne interessante, per carità. Per quanto mi riguarda, come già dicevo, le questioni che sollevi sono anche questioni su cui TQ dovrà interrogarsi. Dico dovrà, perché sono le questioni probabilmente più complesse (da mettere a fuoco) e le più spinose (da affrontare praticamente). Non sono quindi cose che si risolvono né con un manifesto né con un giro di commenti. Quindi il tuo accenno al “congedo”, mi sembra in tutti i sensi molto prematuro. Io, come credo altri, sono in TQ a titolo del tutto sperimentale. E’ una scommessa da fare. Parte di questa scommessa è data dalla possibilità che molti di noi prendano coscienza della frase che tu citi: “Come dice l’economista Paul Treanor: “Il neoliberismo è una filosofia nella quale l’esistenza e l’operatività di un mercato (…) e di strutture mercatistiche è vista come un valore etico in sé, in grado di agire come guida per tutte le azioni umane e di sostituirsi ad ogni credo etico preesistente”.
    Questa frase apparentemente semplice, ha invece una portata, come tu poi mostri in altri passaggio della tua riflessione, enorme e solo in parte noi ne siamo consapevoli, nel concreto svolgersi delle nostri vite individuali e collettive.
    Il punto d’avvio sulla riflessione del neoliberismo come ideologia dominante (quindi non solo insieme di politiche economiche e di pratiche economiche, ma anche insieme di valori, modelli narrativi, ecc.) è stato, per me, il libro di Luc Boltanski “Le nouvel esprit du capitalisme”, che trovo un testo ancor oggi fondamentale, per penetrare tutte le valenze del neoliberismo. Il nodo più recente è stata la riflessione sulla crisi finanziara statunitense (https://www.nazioneindiana.com/2011/02/01/disordine-capitalistico-e-popolo-minore-note-sullamnesia-mediatica/).

    Il problema rimane però “come” parlarne e in quali contesti e con chi parlarne. Io difendo l’idea che intorno al neoliberismo, alla sua natura, alle sue cause, alle sue alternative, alla sua filosofia o visione del mondo, si dovrebbero realizzare dei seminari pubblici, confrontando più prospettive intorno alla questione, e non in un’ottica specialistica, ma di formazione del cittadino.

    Tu che ne pensi di una proposta del genere? Per germinale che sia…

  51. Io invece, siccome l’analisi di Valeria effettivamente interpreta in modo coerente una serie di fenomeni che conosco bene, come a dire che la trovo piuttosto convincente per la mia esperienza, le chiedo se lei o altri o qualcuno o qulache testo arrivano anche a immaginare possibili sistemi alternativi a un quadro che, raccontato in questo modo, appare inattaccabile.
    E che siano, però, adatti alla contemporaneità, desiderabili, concretamente perseguibili.
    Escludendo, per esempio, i vari possibili cedimenti strutturali.

  52. Andrea, anche la mia – di intervenire e cercare di discutere – alla fine è una scommessa. Non posso aderire al manifesto in questa forma, ma, se ne ho capito lo spirito, lo ripeto, mi ha colpito, e poi so che tra le persone coinvolte ce ne sono di prim’ordine. Il senso del mio intervento – credo che lo si sia inteso – è stato quello di chiedere di più ad un sistema che penso potrebbe dare di più. Mi dispiace anche che si accumulino gli attacchi superficiali, come denuncia l’intervento di ieri di Giuseppe Zucco (e però un po’ di immediatezza in meno anche nella comunicazione forse sarebbe d’aiuto). In ogni caso vediamo che succede a settembre, se si guadagna in chiarezza, vigilanza e trasversalità. Non so se per un seminario pubblico (a formare cittadini mi ci vedo poco) ma ad un allargamento del confronto sono sicuramente interessata: superare, cioè integrare tra loro, gli specifici professionali e generazionali; cercare un incontro con altre esperienze che magari non possono aderire a TQ ma possono convergere su terreni comuni… questa a me pare la via.

    @alanina, è vero, il quadro appare inattaccabile. Quello che abbiamo di fronte – e contro – è un modello straordinariamente intelligente. E noi, come stiamo messi?

    Sono in movimento, continuo a leggere, ma mi è difficile intervenire.

  53. Iniziativa interessante, ma non leggo nulla di nuovo purtroppo. I soliti discorsi che si sentono in giro, certamente da 3-4 anni. Troppo generalista il manifesto e alcuni temi li tratta poco bene o riduttivamente. Siete liberi di farmi cambiare idea.

    Il razzismo padano leghista: troppo riduttiva la frase, il problema non è padano, ma è ben più complesso. (Vivo in mezzo ai leghisti 365gg all’anno)

    Poi non vedo una motivazione valida per escludere i ventenni. Spiegatemi perchè nel mondo arabo le rivoluzioni le fanno i ventenni mentre da noi non dovrebbero neanche essere presi in considerazione.

    Formare un nuovo pubblico? Educare una comunità di lettori forti? Non mi piace nemmeno questa idea.

    “TQ svolgerà le proprie attività in luoghi nei quali il dialogo possa avvenire in modo orizzontale, in spazi non elitari né commerciali. La definizione è ampia: può includere una piazza, una scuola, un centro sociale occupato o un festival letterario.” come si fa a dire che un festival letterario non è uno spazio elitario e commerciale?

  54. Cara Valeria Pinto,
    non capisco però una cosa del tuo intervento sulla governance (molto ‘autonoma’) e sul neo-liberismo, aiutami… A tutti noi non piace il neo-liberismo, allo stesso tempo però il dubbio che mi sovviene è il seguente: anche quando nel quadro del neo-liberismo qualcosa di positivo si realizza arriva qualcuno a metterci in guardia: è il neo-liberismo che ne agita i fili, è tutto un inganno! Quasi fosse il contesto, e non la sostanza, a interessarci maggiormente. Che cosa dovremmo allora farcene delle certificazioni? Di realtà come Slow-Food, ad esempio… Rifiutarle – queste certificazioni – per, di riflessione, rifiutare il sistema economico che sta distruggendo l’Occidente (e l’Oriente)? O vederle come il sintomo di un cambiamento, forse un consumatore informato può essere determinante, o anche questo non va bene? Esistono certificazioni di vario tipo, da quelle comunitarie – imposizione di carattere economico nei confronti della realtà identitaria-culturale Paese – quelle delle aziende, quelle poi proposte da realtà associative, facciamo di tutta l’erba un fascio?

    Altro discorso è la cultura della valutazione – che ha il difetto di proporre, più che altro, un canone sociale: se valuti un determinato fenomeno in un modo specifico sei ‘dentro’ al nostro gruppo, altrimenti fuori. Un sistema di caste fatto sui saperi. E non sto fraintendendo le tue parole, sto solo amplificando il tuo discorso – non è forse la cultura della valutazione che richiede per l’accesso a un concorso pubblico un voto di laurea alto ma non delle effettive competenze? (E quando occuperai quel posto non farai forse parte di uno specifico gruppo sociale?) Che privilegia la cultura della nozione (perché misurabile) a discapito di quella della creatività? Non sono questi meccanismi, che già pervadono il mondo dei saperi umanistici, che hanno tramutato la letteratura in un atto di fede, un dogma che viene talvolta rinnovato…

    Ma tornando alle certificazioni: non è forse tutto questo il sintomo di un’opinione pubblica che sta mutando, che si sta consapevolizzando, e che obbliga le multinazionali a abbandonare, per questioni di immagine – dunque di vendite, processi produttivi inquinanti, forme di sfruttamento? E non è questa forse una forma di pressione dal basso? Certo tutto questo è possibile quando le persone sono informate e consapevoli…

    2.
    Leggo questo manifesto, che posso condividere al 100%, poi sento dentro di me qualcosa, qualcosa che mi appesantisce, come se avessi mangiato troppi funghi per pranzo. Allora, forse, comprendo: è il fatto che venga proposto un paradigma ‘ineludibile’, assolutizzante, religioso, bianco o nero, la lettura del mondo è una soltanto. Si sceglie di tenere conto solo degli aspetti negativi della realtà che ci circonda, quasi come se la nostra missione fosse quella di mettere in risalto solo questi, siamo samurai che erano stati preparati a una guerra combattuta seguendo le vie del budo, e ci ritroviamo a essere testimoni di nazioni affondate con i mezzi del conflitto speculativo-finanziario.
    Io ho il timore però di chiamarlo ‘eluso vatismo’ il nostro, di essere tanti piccoli Mishima, che le parole d’ordine cambino ma che il significato che celino sia sempre lo stesso – persone insoddisfatte che vogliono diventare protagoniste di determinati processi decisionali, perché hanno l’impressione di avere la verità in pugno o che semplicemente non ‘ce la fanno più’ (come tutti, vi sono vicino, senza ironia alcuna!), persone che sono arrivate all’esaurimento delle loro energie.

    Il problema è questa incertezza, ma un’incertezza che è a ognuno seduta affianco, dal panettiere, al saldatore, al professionista dell’editoria – e noi che cosa proponiamo per il nostro gruppo sociale, omeopatico, rispetto al resto della popolazione, un cambio di passo – ma che ha in contorni di una rivincita generazionale. Qualcosa di giusto anche, ma non di rivoluzionario, del tutto borghese, e già veduto.
    Perché invece di rivolgerci sempre al noi, non ci rivolgiamo al loro, perché non ci interroghiamo su quale possa essere – per esempio – un prodotto, a nostro avviso di qualità, che possa allo stesso tempo essere interessante per chi non è ‘addetto ai lavori’, perché ci limitiamo alla condanna – rileggevo pochi giorni fa l’intervista a Marco Giovenale, un’intervista nella quale il poeta candidamente ammetteva di non leggere più di tanto i giornali, come possiamo pretendere, senza leggere i giornali, o senza guardare il TG1, di capire che cosa ci circonda, di capire le pulsioni, anche più basse di questo nostro Paese – Cristo! Anche il fatto che scrivere su il Giornale diventi tabù per chi voglia far parte di questo salotto mi sembra qualcosa che non tenga conto del fatto che un certo immaginario, con tutti gli strumenti che ci vengono messi a disposizione, dobbiamo eroderlo, dobbiamo rimodellarlo – e invece la sensazione che ho, è che non ci si voglia sporcare le mani, che non si voglia in alcun modo ‘adattarsi’ alle contingenze, che si preferisca non cedere, essere duri e puri fino all’ultimo, fino all’estinzione… E magari essere così, ‘insignificanti’, se messi difronte al sistema Paese – ma allora, se la nostra scelta è dell’ortodossia (e la rispetto come scelta, sia chiaro), lamentarsi è un esercizio superfluo e di cattivo gusto…
    Abbiamo forse davanti due strade, una che parla di oggetti, libri, penne, tastiere, faldoni di bozze: oggetti rassicuranti, a noi consueti, quelli di sempre dall’invenzione della stampa in poi, di ‘l e t t e r a t u r a’ come è sempre stata intesa, con fine poi strettamente moralistico ed educativo, ma della moralità della letteratura e per un’educazione alla letteratura (valori che chi, poi, dovrebbe stabilire? Siamo tornati indietro fino alla Scuola di Francoforte? Vi prego ditemi di no! O siamo, anche peggio, all’élitismo della neoavanguardia) e dall’altra, a mio avviso l’ibridamento, esplorare i territori ‘anfibi’, come li avrebbe definiti Alfieri – c’è fame di letteratura, magari non della letteratura come la noi intendiamo: questo è il punto attorno a cui dovremmo veramente ragionare, questo forse ci farebbe stare meglio.

    Concludo con una divertente citazione, […] è necessario realizzare una letteratura di tipo nazionale e popolare, […] Antonio Gramsci.

    Voglio dire un’ultima cosa, ho scritto questa noticina perché queste contraddizioni le sento da tutti, sono anche le mie contraddizioni, così volevo condividerle con voi, spero di non essere stato troppo indelicato,
    un sincero augurio per questa vostra iniziativa, Francesco.

    P.s.: “Etica. L’etica della riforma è improntata a un continuo impegno di trasparenza e di riconoscimento della competenza e del merito.” Parole della Gelmini?

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Andrea Inglese (1967) originario di Milano, vive nei pressi di Parigi. È uno scrittore e traduttore. È stato docente di filosofia al liceo e ha insegnato per alcuni anni letteratura e lingua italiana all’Università di Paris III. Ha pubblicato uno studio di teoria del romanzo L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo (2003) e la raccolta di saggi La confusione è ancella della menzogna per l’editore digitale Quintadicopertina (2012). Ha scritto saggi di teoria e critica letteraria, due libri di prose per La Camera Verde (Prati / Pelouses, 2007 e Quando Kubrick inventò la fantascienza, 2011) e sette libri di poesia, l’ultimo dei quali, Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato, è apparso in edizione italiana (Italic Pequod, 2013), francese (NOUS, 2013) e inglese (Patrician Press, 2017). Nel 2016, ha pubblicato per Ponte alle Grazie il suo primo romanzo, Parigi è un desiderio (Premio Bridge 2017). Nella collana “Autoriale”, curata da Biagio Cepollaro, è uscita Un’autoantologia Poesie e prose 1998-2016 (Dot.Com Press, 2017). Ha curato l’antologia del poeta francese Jean-Jacques Viton, Il commento definitivo. Poesie 1984-2008 (Metauro, 2009). È uno dei membri fondatori del blog letterario Nazione Indiana. È nel comitato di redazione di alfabeta2. È il curatore del progetto Descrizione del mondo (www.descrizionedelmondo.it), per un’installazione collettiva di testi, suoni & immagini.