Indypendentemente: per una cartografia delle librerie indipendenti (IL Terzo Luogo – Sarzana)
Questionario Librerie Indipendenti: risponde la libraia Chiara Lasagni della Terzo Luogo di Sarzana.
A cura di effeffe 1
Ci parli della tua libreria? Presentazione, storia, caratteristiche sul territorio, criticità e anche dei momenti belli tosti, se ti va
“Il terzo luogo” è una libreria generalista che si trova nel centro storico di Sarzana, in Lunigiana, nata nel marzo del 2010. Spiegare perché l’abbiamo chiamata così ha spesso costituito il modo più immediato per presentare la nostra libreria, o meglio, l’idea originaria di libreria che ci ha guidati nell’aprire questa. Il suo nome si rifà al concetto di third place formulato da Ray Oldenburg nel saggio The Great Good Place, dove l’autore, com’è noto, individuava per le nostre esistenze tre diversi “luoghi”, valorizzando i “terzi luoghi” come gli spazi della socialità, della crescita civile, della partecipazione e condivisione democratica, e differenziandoli così dal “primo luogo”, ossia la casa, l’ambiente famigliare, e dal “secondo luogo”, ossia il contesto lavorativo. La nozione di third place è stata variamente applicata a enti di diversa natura, anche commerciali − come appunto una libreria −, ma accomunati dalla capacità di offrire spazi di socialità e condivisione.
Quando abbiamo concepito l’idea di aprire questa libreria, siamo partiti dall’analisi di tutte le nostre debolezze e abbiamo pensato a quali potessero essere le caratteristiche da ricercare per poter, non dico risolvere, ma quantomeno tamponare queste possibili falle. Privi di una storia e privi di forza contrattuale, ci siamo detti che il modo migliore per guadagnarci un posto al sole dovesse essere quello di fare di essa un luogo in cui poter passare del tempo, in cui la scelta e l’acquisto di un libro potesse essere una pratica slow: un luogo di “libri e incontri” (questo è il sottotitolo che campeggia sulla nostra insegna), intendendo questi ultimi non tanto in riferimento alle presentazioni di autori, ma in primo luogo all’incontro tra le persone insieme ai libri.
Il terzo luogo è una libreria particolare, anzitutto sotto un profilo visivo, o se si vuole estetico. Pur cercando di seguire le regole del buon senso gestionale nella sistemazione ed esposizione dei libri, non ci siamo arresi alla funzionalità, che spesso significa omologazione e anonimato, ma ci siamo arresi solo a ciò che credevamo fosse “bello”. Una volta ci hanno simpaticamente detto che la nostra è una libreria anarchica; ma molte più volte ci è stato detto che da noi ci si sentiva bene, a casa. Forse un lampadario di vetro fucsia è meno professionale che un bel tubo di neon; forse spargere qua e là sedie imbottite in stile antico toglie spazio a quei bei cartonati con pila annessa dell’ultimo biblio-panettone in uscita a novembre; forse delle librerie di legno naturale, simili quelle che potremmo tenere nel nostro studio, o dei grandi tavoli di cartone stampati “stile Fornasetti” sono più difficili da gestire che degli efficienti ripiani modulari di ferro e fòrmica. Ma, accidenti!, sono tutte cose che lanciano messaggi di bellezza e accoglienza: e così, magari, potrà capitare anche che l’ultimo romanzo di Franzen, che sta nella nostra esattamente come in tutte le altre librerie, lo si venga a comprare proprio qui, al Terzo luogo, perché qui, banalmente, si sta bene.
Per fare della nostra libreria un “terzo luogo” abbiamo messo insieme tanti ingredienti. La stanza che ospita la sezione di cucina, viaggi, giardinaggio è di fatto quella che abbiamo chiamato “saletta lettura&caffé”, dove ci si può fermare a leggere o a chiacchierare con gli amici, dove si può prendere un caffé o un the, o si può studiare o navigare in internet, scambiare libri nell’angolo book-crossing. La stanzetta dei bambini ha una libreria di legno fatta a casa, un lampadario a forma di balena, sgabellini e libri per i più piccoli ad altezza dei più piccoli; quando ci sono bimbi che entrano in negozio annunciando compìti: «Vado nella “mia” stanza», la cosa ci fa molto piacere! Abbiamo lasciato inoltre due pareti libere, vicino alla sezione dell’arte, musica e cinema, per ospitare mostre; già un discreto numero di artisti ha esposto da noi, come AnonymousArt, Simona Lombardi, Beppe Mecconi, Beatrice Meoni e diversi altri. Gli spazi sono certo angusti e inusuali. Gli artisti si devono in parte adattare nella scelta dei formati e delle disposizioni; ma l’effetto è sempre stato molto stimolante, l’accostamento tra libri e opere carico di significato. È in questo contesto, ad esempio, che è “germogliato” (è il caso di dirlo) il progetto Talee di Beatrice Meoni, un’idea “per librai rizomatici”, come recitava il titolo di un post pubblicato sulla stessa Nazione Indiana (https://www.nazioneindiana.com/2010/08/12/talee-unidea-per-librai-rizomatici/), un’iniziativa che, nata qui a Sarzana nella sua forma base, è stata poi presentata al Pisa Book Festival del 2010 ed è diventata una mostra itinerante e una performance di lettura pubblica che ha coinvolto tante librerie indipendenti in tutta Italia, con soluzioni artistiche sempre diverse (vd. il sito di Beatrice Meoni )
Infine, ovviamente, ci sono tutte le iniziative che si possono organizzare in una libreria. Il lavoro è faticoso, ma abbiamo cercato di non abbassare mai la guardia su questo punto e di proporre sempre qualcosa di nuovo, di ricordare sempre ai lettori che “esistiamo anche noi” (per una libreria di nuova apertura non è cosa scontata), di presentarci come terzo luogo portatore di un’idea culturale. Abbiamo organizzato molti incontri con autori (e ricordiamo tra gli altri Fabio Geda, Davide Longo, Marco Malvaldi, Simone Perotti, Emiliano Poddi), non solo di narrativa, ma anche di saggistica. Abbiamo inventato “L’Aperilibro”, un aperitivo in libreria con i consigli del libraio. Abbiamo organizzato piccole maratone di lettura spontanea, coinvolgendo i nostri più affezionati lettori.
Certo che è dura, molto dura. Abbiamo lasciato la Torino dalle cento librerie per la provincia, dove ci sarebbero state più probabilità di non essere fagocitati in poco tempo, o di non riuscire a partire mai. Sarzana è un pezzo di provincia bello e interessante; è un microcosmo che va battuto palmo a palmo e che regala scoperte. Ci sono molti lettori di qualità (non solo “lettori forti”, che possono essere anche solo dei mangia best-sellers, ma “lettori dalle scelte forti”), e diverse iniziative culturali, tra cui, com’è noto, il Festival della Mente, che probabilmente varrà a Sarzana l’ingresso nel circuito delle Città del Libro, come avrebbe annunciato Rolando Picchioni in occasione dell’ultimo Salone del Libro di Torino. Però non siamo gli unici qui a Sarzana; e in fondo, pur potendo dire di essere decisamente riusciti a posizionarci, siamo il vaso di coccio tra una libreria che esiste da trent’anni ed una molto più giovane, ma di marchio Mondadori. Certo, siamo consapevoli che andare ad aprire una libreria in un posto che ne è sempre stato privo equivarrebbe a vendere i proverbiali frigoriferi al Polo Nord per aver intravisto le meravigliose opportunità di un mercato privo di concorrenza.
Anche detto questo, tuttavia, la posizione da vaso di coccio ancora rimane. E poi Sarzana è un piazza commerciale del tutto discontinua. Ci sono picchi rappresentati non solo dal Natale, ma anche dai giorni del Festival della Mente; ci sono momenti molto buoni, in cui Sarzana riceve continui flussi dalle vicine località della Liguria e della Toscana, come la stagione estiva e il periodo della Soffitta in Strada in particolare (noi stiamo in una delle vie degli antiquari e per l’intera la stagione chiudiamo tutti i giorni a mezzanotte). Ma ci sono anche momenti (ottobre-novembre e febbraio-marzo) in cui verrebbe quasi voglia di chiudere, se non fosse che tutto sembra sospeso, tranne l’affitto!
«Momenti belli tosti», ci chiede Francesco Forlani. Di momenti belli tosti ce ne sono continuamente e non dimentichiamoci che, per di più, siamo in un momento di totale depressione dei consumi, che i libri in Italia continuano a rimanere sconsideratamente cari (ma non ne si potrebbe calmierare i prezzi come beni di prima necessità?) e che in fondo, per quanto sia giusto − soprattutto per giovani librai come noi − continuare a ingegnarsi per migliorare la redditività della libreria e aumentarne i clienti, dobbiamo essere anche abbastanza consapevoli del fatto che questo è il momento della resistenza-resistenza-resistenza e che cavare il sangue dalle rape, o in altre parole, aspettarsi tanto dai clienti quando noi stessi abbiamo abbattuto tutti i nostri consumi, sarebbe un pensiero ingenuo.
Quando entri in una libreria (da lettore, cliente) cosa osservi? Che cosa attira la tua attenzione?
È difficile entrare in una libreria da semplice lettore adesso che ne abbiamo una, e certo le cose che si osservano sono molte e sono diverse da quelle che cercavamo tempo fa! Il primo particolare a cui guardiamo sono le vetrine; anzi, devo dire che spesso è la cosa su cui capita di soffermarsi di più. Le vetrine non possono raccogliere che una piccola parte dei libri esposti con evidenza all’interno; esse, quindi, hanno per la libreria la stessa funzione che un abstract ha per un articolo scientifico. M’interessa? Non m’interessa? Guardo la vetrina ed è lì che lo stabilisco. Una disposizione dei libri e un layout generale privo di qualunque guizzo di fantasia mi avverte di un possibile grigiore mentale del libraio. I ripiani foderati da moquettina beige, ispessita da uno strato di polvere trentennale mi preparerà alla scena di un negozio angusto, costituito al settanta percento da un magazzino inaccessibile, dove solo un libraio-Caronte, trincerato dietro al suo banco di legno, saprà trovare a memoria il libro che gli sto chiedendo. Una vetrina baluginante di luce e inutilmente spaziosa, dove, a discapito della possibilità di esporre molti titoli si preferisce ripeterne uno o due come un mantra consumistico (è uscito l’ultimo di Carofiglio, te lo metto a -25%, è uscito l’ultimo di Carofiglio, te lo metto a -25%, è uscito l’ultimo… ecc. ecc.), mi aprirà al meraviglioso mondo del Pensiero Unico; facendo lo slalom tra pile di novità e cartonati (attenzione al riflesso del neon sul pavimento lucido), si raggiungerà il banco unicamente per dire al ragazzotto che ci sta dietro (o al computer con annesso ragazzotto): «Senta, volevo solo avvisarla che Pensiero debole di Vattimo non sta nella psicologia e Hitler di Giuseppe Genna non sta nella storia»; il tizio ci risponderà: «Ah, io non lo so questo, però può avvertire gli addetti dei reparti». Noi dagli addetti non ci andremo, ma usciremo comunque dalla libreria soddisfatti della nostra piccola opera di disturbo no-global. Poi ci sono le librerie indipendenti che scimmiottano queste ultime e questo fatto, ancora una volta, lo vedi dalla vetrine. E lì ti viene un po’ di tristezza, ti viene voglia di entrare e di dire al libraio: «Ma tu sei consapevole che per Loro non sei importante, che la tua è una bottega? Lo sai che tu, lo sconto del 25% sul nuovo romanzo di Murakami non lo potrai fare mai e poi mai a meno di non volerlo cedere gratis ai tuoi clienti?».
Infine ci sono librerie con vetrine che non sono nulla di quello che ho descritto sino ad ora. Con vetrine che ci fanno dire «Sì, m’interessa». E a quel punto capita di prendere su il taccuino per segnarci titoli particolari che ci siamo persi: se li ha scelti questo libraio, che sembra proprio in gamba, dobbiamo ordinarli anche noi. Ultimamente c’è un’altra cosa che attira la nostra attenzione. Gli sconti. O meglio, il modo in cui le librerie di catena abbiano cercato di aggirare subito le maglie (non troppo strette) della Legge Levi sul prezzo del libro, entrata in vigore, com’è noto, a settembre.
I libri possono essere scontati al massimo del 15%: e allora giù vetrine e ripiani interi di titoli, tutti, ma proprio tutti scontati del 15%! La prima volta che abbiamo visto una cosa così (era una Feltrinelli) devo dire che è stato un pugno nello stomaco. Nessuno noi potrebbe riuscire a fare una cosa del genere, a meno di non richiedere allo Stato sussidi per librai filantropi e di non cercarci un secondo lavoro notturno. E poi ci sono le campagne (25% per un mese al massimo per singole collane o edizioni) e teoricamente a queste dovrebbero poter aderire tutti, belli e brutti. E invece abbiamo ben visto come il 19 ottobre di quest’anno, all’uscita del romanzo Il silenzio dell’onda di Carofiglio, a poco tempo dall’entrata in vigore della Legge Levi, l’editore Rizzoli abbia prontamente trovato il modo di “gabbare lo santo”, non solo applicando un ribasso del 25% a un unico titolo di nuova pubblicazione (questa non è una campagna!), ma evitando di ritoccare lo sconto ai librai, cosa che ha permesso solo alle catene, che hanno ben di più di uno scarso 30% di ricarico, di poter partecipare a una festa da cui molti sono stati esclusi a loro insaputa, dato che il tutto è apparso chiaro solo con l’uscita del libro. Adesso, proteste o non proteste (vedi ad esempio la lettera a Carofiglio dell’Alsi, l’Associazione dei librai indipendenti sardi), la cosa si è ripetuta con 1Q84 di Murakami.
E ai lettori, noi, cosa dovremmo dire? Ben poco. Però, potremmo buttargli lì un concetto: non solo c’è 1Q84 che loro possono acquistare a 15 invece che a 20 euro, ma ci sono un sacco di altri libri, che vengono fatti uscire senza particolari strategie di lancio e che vengono messi a 18, 20, 22 euro quando potrebbero costarne (come prezzo di copertina intendo!) 12, 13 o 15; e sarebbe già tanto. E poi potremmo dirgli anche un’altra cosa. Che noi (e tanti come noi), quando facciamo le vetrine, quando scegliamo i titoli uno a uno, senza agenti o automatismi vari, non pensiamo a quello che “va sul mercato”, ma a quello che piace ai lettori che ci frequentano. Abbiamo venduto molte ma molte più copie della Rivoluzione del filo di paglia di Masanobu Fukuoka che di Cotto e mangiato di Benedetta Parodi. Ecco: da noi si trovano meno sconti, ma più rispetto. Questo è il nostro 15% su tutti i titoli. E non sono cose da ignorare.
Come definiresti una libreria indipendente?
È una domanda più complessa di quanto si può pensare. La prima risposta, quella che mi verrebbe di getto, sarebbe di dire: libreria indipendente non vuol dire niente, è un termine che mi sta antipatico, è un termine abusato. Noi siamo una libreria “normale”, questo vorrei dire. Facciamo parte dei normali. Poi ci sono gli editori che fanno anche i distributori e i librai, come Mondadori, Giunti o Feltrinelli; quelli che fanno i grossisti e i librai, come Fastbook-Ubik, o quelli che non paghi di supermercati e ipermercati aprono anche librerie, come la Coop. Non si tratta solo di essere una catena o un franchising. Si tratta di concentrazioni di potere. E, questo, mentre tutti quegli altri, i librai normali, lavorano in maniera normale e hanno normali rapporti con case editrici e distributori o grossisti; e se per caso si mettono a fare anche gli editori o a vendere i propri libri on-line lo fanno spesso a costo di fatiche raddoppiate. Di certo tra questi normali ve ne sono di più o meno indipendenti. Indipendente è una parola, ma le situazioni sono tante. E se questa parola dobbiamo usarla solo per definire in generale le librerie non di catena, tanto vale dire semplicemente che, appunto, “non sono di catena”; tanto più che molte di esse sono in realtà alquanto “dipendenti”, se si guarda la faccenda dal punto di vista dei conti da far quadrare a fine mese!
Se le librerie indipendenti fossero solamente quelle “non di catena” sarebbe inutile impostarci sopra un qualunque discorso culturale. Se un libraio sceglie i titoli solo badando a novità e classifiche, se lascia carta bianca agli agenti, se si stipa il negozio di paccottiglie commerciali solo per il fatto che gli vengono proposte con un quaranta per cento di sconto, si può dire che egli sia un “libraio indipendente”?
Possiamo dispiacerci molto se per caso è costretto a chiudere, ma non fare grandi battaglie perché questo non avvenga. Direi allora che l’unica maniera di farmi piacere l’uso della parola “indipendente” è di dire che “indipendente” è la libreria che risponde non solo a una logica commerciale (che pure deve essere presente), ma anche a una propria idea culturale, di cui vuole farsi portatrice sul territorio, tra i suoi lettori e anche nei confronti degli editori ed autori. Una libreria di questo genere non può ovviamente essere indipendente nel senso proprio della parola; l’indipendenza indica una libertà nei confronti dell’esterno e noi non siamo botteghe artigiane, ma anelli (più deboli di altri) di una catena. Può però essere “autonoma”: l’autonomia è la capacità di seguire “il proprio nomos”, le proprie leggi, senza disegnare la propria identità su logiche acquisite dall’esterno, importate acriticamente. Una libreria di questo genere rappresenta non solo lo sbocco finale di un ciclo di produzione, ma anche il “filtro” finale di quella produzione: un filtro che può lasciar passare con abbondanza alcune cose e bloccarne altre. In un mondo utopico in cui esistesse solo questo genere di librerie, gli effetti di ritorno che questo stato di cose potrebbe avere sull’editoria si farebbero sentire, eccome. Sembra che oggi gli editori (e, ovviamente, mi riferisco soprattutto ai più grandi) abbiamo perso la capacità perseguire un progetto culturale che ne conformi l’identità e che sia in grado di avere una qualche influenza sulla società. L’impressione è che sparino nel mucchio, sapendo che quel colpo che andrà a bersaglio dovrà ripagare le tante pallottole sprecate per mancanza di mira. I libri in uscita ogni anno sono infiniti; pochi se ne salvano e quasi tutti scadono con la velocità di uno yogurt; quasi tutti costano di più di quel che dovrebbero. I librai, dal canto loro, sono parte di questo flusso, sono costretti a cicli di rotazione altissimi e a un aggiornamento continuo che fa di essi persone non più colte e informate, ma forse solo un po’ più stressate. In un mondo ideale, o se vogliamo in un’Italia ideale, in cui i librai fossero tutti autonomi e non avessero alcun Leviatano che gli fiata sulle spalle, questa produzione saturata e saturante di libri verrebbe rimbalzata al mittente, che si troverebbe costretto a cambiare sua rotta, a rallentare la catena di montaggio per ricercare la qualità; anzi, anche solo per fare ricerca, una cosa che dovrebbe essere vitale per un editore e appare invece un orpello fuori moda.
Ci sono in Italia organizzazioni associazioni, strutture dedicate alle librerie indipendenti?
L’unica che conosciamo direttamente è l’ALI, l’associazione di categoria ufficiale dei librai indipendenti, ma sappiamo che in Italia sono nate alcune esperienze associative che generalmente mettono assieme librai indipendenti con piccoli-medi editori di proposta e che partono dai primi, come LiberiLibrai o l’Associazione dei Librai Sardi, oppure dai secondi, come il gruppo dei Mulini a Vento. Un po’ di tempo fa era nato a Torino il progetto SlowBook, di cui invito a leggere il programma , che mi pare molto interessante, anche se sinceramente non so che seguito abbia al momento attuale. Non so in quale misura organizzazioni di questo genere possano essere di supporto ai librai indipendenti. Rappresentano tutte occasioni per uno scambio di idee e informazioni, o per creare momenti di sensibilizzazione; ma poi, ognuno torna nella sua libreria e continua a lottare come prima con la concorrenza sleale degli sconti, gli affitti troppo alti, le condizioni dei distributori. Qualunque nuova iniziativa di questo genere non deve cercare semplicemente di “fare rete” tra le librerie indipendenti, ma deve tentare coinvolgere librai, editori, autori e lettori per inventare qualcosa di nuovo. Il commercio equo-solidale, i gruppi d’acquisto, i prodotti a chilometro-zero: e se queste esperienze, rivedute e corrette, potessero finire anche nel mondo dei libri e delle librerie indipendenti?
Che cosa ti piacerebbe che fosse la tua libreria?
Da quello che ho raccontato sino ad ora penso sia emerso abbastanza chiaramente come abbiamo inteso e continuato a intendere la nostra libreria, Il terzo luogo. Se dovessi aggiungere qualcosa su “cosa mi piacerebbe che fosse” direi semplicemente questo. Vorrei che fosse il lavoro di una vita. Vorrei che mio marito Alessandro, che è il titolare, potesse scrivere sulla sua carta d’identità “libraio”. E che al Terzo luogo ci festeggiasse la pensione. Siamo una libreria TQ. Siamo librai parte di una generazione saltata, di una generazione annichilita dal termine; una generazione che, forse, ha meno competenze di quelle che avrebbe sviluppato se gliene fosse stata data la possibilità a tempo debito, ma che ha un patrimonio di umanità e conoscenza che non può essere continuamente umiliato, e deve essere tenuto in vita, pena l’estinzione del futuro. Per questo non chiediamo altro che di poter continuare quello che stiamo facendo.
Chi cazzo te l’ha fatto fare di fare il libraio?
E a te di fare lo scrittore? Adottiamoci!
NOTE- Comincia con questa intervista l’inchiesta sulle librerie indipendenti che sto curando per il movimento TQ🡅
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https://www.nazioneindiana.com/2011/12/05/indypendentemente-per-una-cartografia-delle-librerie-indipendenti-terzo-luogo-sarzana/#more-40958
Lasciando correre la fantasia (e ricordando altre piacevoli feste di Nazione Indiana), si potrebbe pensare a una sorta di “festa delle librerie indipendenti” o “festa dei saperi alternativi”, da organizzare magari proprio a Sarzana o in una delle cittadine della Liguria o della Lunigiana alluvionate. I contenuti tutti da inventare (coinvolgere NI e TQ insieme?). Il tema delle politiche ambientali (e della politica in generale) avrebbe una ineludibile centralità. Il periodo potrebbe essere la primavera.
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Vediamo come va questo censimento iniziato da Francesco Forlani, che potrebbe mettere in comunicazione un po’ di librerie indipendenti impegnate. Una festa che potrebbe diventare un confronto tra un gruppo di figure diverse per collocazione, ma simili per intenti. Non solo librai quindi, ma anche editori come quelli che compongono il gruppo dei Mulini a Vento o la neonata Sur, e scrittori/intellettuali di TQ e Nazione Indiana. Per immaginarsi qualche nuova strategia di fuga bisogna essere tanti e diversi! (Sulla location avrei un’indea… ma lasciamo tempo al tempo!).
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