LINNIO ACCORRONI “ricci“
⇨ Hystrix cristata Linn.
[pag.86]
⇨ Linnio Accorroni
ricci
ed.ITALIC [2011]
[ “ricci” non inganni per l’esile numero di pagine e formato: ha peso specifico di sostanze dense, che in poco spazio concentrano atomi pesantissimi. In forma di canone a tre voci, distinte anche per carattere grafico, senza bon-ton inutile di stile e scrittura, racconta le tappe della malattia di un padre e delle curae di un figlio. Il finale è sospeso. Voci ad altezze e intensita differenti, ripetono e amplificano un unico tema di dolore, accettazione/rifuto del dolore, ineluttabilità del dolore. Ché le vite sono distratte, lanciate verso il futuro, smemorate, perse in benefico inessenziale, poi arriva il momento in cui ci si accorge di essere tutti in fila per gli stessi dolori e per gli stessi scatologici oltraggi. La voce Crimini di pace (8) e Sinatropismi (3) è il contrappunto del nobile mondo animale, che anche nel sacrificio per mano umana di ruote su strada e altri vulnus, conserva nei resti stropicciati di rane, porcospini, istrici, formiche, gatti, ramarri, cardellini caduti dal nido, talpe, una sua immota intangibilità, e diventa un memento mori alto e purificato dalla mancanza di voce verbale. Una caducità che ci è sempre accanto, che ci coglie all’improvviso, che ci taglia il raggio dei fari della macchina nelle strade fra colline, dove più nessuno cammina a piedi. La voce del padre ammalato è un’anamnesi precisa di tutte le tappe della malattia, delle ipocrisie che spesso la accompagnano, delle false speranze, dei momenti di ribellione. La voce del figlio, intellettuale – Destinato a essere occupato da tutt’altro – è un percorso di avvicinamento al padre – e quanto spesso sono lontani da noi i genitori dopo la vicinanza viscerale dell’infanzia – di accettazione di un ruolo di accudimento umile, dove non sono le parole, le belle parole, ma i gesti piccoli, servili, minimi, la semplice vicinanza capillare a essere l’unico linguaggio possibile. L’unico modo di convivere con aculei, aghi e punte e merda di tutte le vite. ( O. Puecher ) ]
[pag. 86-92]
Non ho fatto in tempo a materializzarmi che m’hai quasi assalito verbalmente, dicendomi subito, in un sol fiato, come se ti fossi preparato questo rigurgito verbale chissà da quanto, che vuoi morire, che non può chiamarsi più ‘vita’ questa sequela di dolori che t’assediano e sconvolgono, che non ti lasciano scampo neppure di notte, quando il flusso della cacca diminuisce, ma per contrappasso aumentano insopportabilmente dolori e sofferenze. Me lo urli e me lo scandisci a chiare lettere, per non ingenerare equivoci di sorta, guardandomi ostinatamente in faccia, ritmando sillaba dopo sillaba, buttandomela addosso questa cantilena: “Voglio morire, hai capito sì o no? Vo-glio mo-rire, va bene?”
Modi di andarsene, modi di morire: quello aristocratico e blasé, certo, tutto squisitezze e politesse, ma anche quell’altro, quello ultrascatologico all’ennesima potenza. Un modo di merda, tra la merda, in un mondo di merda, tra uomini di merda.
Poi ci sono quelle notti che ogni ora, letteralmente ogni ora, con una puntualità da cronometro svizzero, mi devo alzare per cambiarmi. E quando ancora non puzzo, la paura che di lì a un po’ puzzerò, l’assillo che mi tormenta e che mi suggerisce che tra un po’ comincerò col puzzare, mi rovina anche questo interludio, questa breve oasi di non-puzza.
Essere come Alberto Sordi in quella scena de La vita difficile. Quella luce radente e fredda di un’alba livida e incerta. Essere gonfi di un rancore immedicabile e avere il coraggio, la forza, la possibilità di poterlo sbattere liberamente e trionfalmente in faccia al mondo. In quella sequenza, Alberto Sordi esce stravolto, sbronzo, con la camicia fuori dai pantaloni da un ristorante sul lungomare di qualche città turistica. Ce l’ha su con tutti, è fuori di sé e, in mancanza di meglio, comincia a inveire e a sputare contro le auto che passano.
Scatarra sulle carrozzerie e sui cofani delle auto che zigzagano per non investirlo mentre gesticola come un pupazzo sull’asfalto. Urla frasi sconnesse, ce l’ha con l’Italia che fa schifo e si guarda la mano quasi piangendo (“Ahio. Me so’ fatto male. A ’a mano”), agita la giacca come un torero sbracato, si stende in mezzo alla strada, rischiando d’essere messo sotto, e si rialza subito dopo, in un sussulto da pupo teatrale.
Avere quel coraggio da ‘non c’ho più niente da perdere’, avere quella grazia impudente, quella capacità di dire le cose come stanno, senza remissione, senza pensieri o calcoli di convenienza. Fare come lui: urlare la realtà per quella che è. Anche a chi non la vuol sentire. A me, per primo, ad esempio.
Ogni giorno porto con me penna, astuccio, libri, giornale, matita, sperando di trovare pace e tranquillità per poter leggere un po’, prendere appunti.È come portarsi il gelato all’Equatore: inevitabilmente,appena mi sistemo e comincio a tirar fuori quegli oggetti dalla borsa, le pessime notizie quotidiane distruggono ogni mia già lasca potenzialità progettuale. Destinato a essere occupato da tutt’altro, depongo gli oggetti nella borsa e li guardo con grande nostalgia e tenerezza, come se fossero segnali che provengono da un mondo felice,che m’ha accolto e coccolato, ma verso il quale non potrò più ritornare perché sono stato cacciato in esilio per sempre.
Se io sono Ivan Ilic, mio figlio è sicuramente Gherasim. A lui m’affido e mi consegno quando devo lavarmi. È su di lui che mi piace appoggiare la mano quando, con passo strascicato e lento, mi accompagna al bagno. È da lui che mi piace farmi allacciare e stringere il pannolone, attorno ai fianchi, con quella dolcezza mite che ha.
A che serve leggere così tanto anche adesso in questa situazione tanto difficile? Lo faccio, lo continuo a fare perché la letteratura, di qualunque tempo ed epoca, sotto qualsiasi latitudine, in qualsiasi forma è un enorme fallimentare esorcismo nei confronti di quella cosa che ci alita continuamente addosso, che ci sfiora e blandisce mille volte al giorno e che chiamiamo, prosaicamente, morte. I modi con i quali tentiamo di depistarla possono essere i più vari: vino, amicizia, figli, amore, figa, fuga, foga, ma sono di per sé talmente mistificanti e inerti da renderli inutili come un matrimonio sterile. Ci buttiamo in essi, sapendo la loro impotenza, la loro inconcludente inefficacia.
Mi pare di poter capire adesso, stando nella mia condizione, perché c’è sempre qualcuno che un bel giorno decide di farla finita. Perché c’è ed esiste una soglia del dolore, un limite oltre il quale l’aggiunta di ogni altra piccola dose di sofferenza rappresenta un’offesa insopportabile, un peso insostenibile. Ci si stupisce spesso del fatto che siamo stati in grado di sopportarne quantità incredibili. Analizzando retrospettivamente il nostro comportamento, ci si sorprende a considerare quanta stoica resistenza siamo stati in grado di tirare fuori, con quanta commovente fermezza abbiamo resistito a urti e scossoni. In cuor nostro ci sembra di capire che tutto questo dolore ci ha forgiati, che siamo diventati forse, grazie ad esso, anche un po’ invincibili: quasi una lenta, ma efficace mitridatizzazione del dolore.
Ma così non è. Un giorno infatti sentiremo che, senza accorgercene, è stata superata la soglia fatidica, che il dado è stato gettato. Sappiamo che, valicata quella linea, dall’altra parte c’aspetta solo l’orizzonte infinito della prostrazione interminata, dell’orrore senza fine, quello che non consente redenzione e illusione, tregua o stasi. Non si torna indietro, non si va avanti; si è e si sta nell’orrore totale e puro.
E perché si dovrebbe continuare? Per che cosa? Per chi?
Potrò mai provare nostalgia, se un giorno tutto questo finirà, di questi piccoli origami di carta igienica che adorno e coloro con piccole nuances di cacca, più o meno grumosa o liquida. Me li confeziono, seduto al cesso, con pazienza e attenzione, queste trouvailles di artigiano della merda pret-à-porter, li osservo in silenzio, con assorta concentrazione infinita, come se fossi un monaco davanti a un antico manoscritto, uno studioso d’arte assorto e rapito davanti a un quaderno che conserva disegni di scuola michelangiolesca. Ne sono ammaliato e incantato. Sono le mie macchie di Rorschach che scruto e decodifico in questa terapia autoanalitica seduto sul cesso.
Quando ciò che sembrava impossibile, poi accade, all’inizio viene accolto con dei moti di stupore e incredulità. Siamo ancora nella fase del ‘no, non è possibile. Non può andare così. È un brutto sogno, qualcosa che è destinato a durare poco, a finire’. Poi piano piano tutte le più fosche previsioni s’avverano, tutto quello che si voleva scongiurare, pensando fosse attribuibile solo a un rigurgito di pessimismo si concretizza, dimostrando la follia stolta che si nasconde in ogni illusoria incredulità.
[…] ( Lei si chiama Orsola Puecher: basta scorrere ognuno dei suoi post apparsi su Nazione Indiana per comprendere in quanti modi inimitabili possa essere declinata la massima forsteriana dell’only connect. E che meraviglia quindi se questo suo post dedicato a Ricci mi rende felice come un bambino alle prese con le vacanze estive?) https://www.nazioneindiana.com/2012/01/31/linnio-accorroni-ricci/ […]