Nella mia giovanezza ho navigato
di Antonio Sparzani
Trieste chiama Trieste: per il mio compleanno del 1963 qualcuno mi regalò Mediterranee, di Umberto Saba (Trieste 1883 – Gorizia 1957), collana Lo specchio di Alberto Mondadori, copertina rigida di colore uniforme, marrone chiaro. Sono andato ieri, 55 anni esatti dalla morte del poeta, a ripescarlo e ho letto, cosa che forse non avevo mai fatto, la lunga lettera indirizzata appunto “Caro Alberto” che Saba premette alla raccolta, con amicizia e affetto per l’editore. Una parte di questa lettera contiene considerazioni sulla poesia, che ripropongo qui, perché, pur se formulate in un linguaggio che consideriamo datato, mi pare possano essere un utile contributo a un discorso sulla poesia, che non è mai – giustamente – risolto e che ancora conosce una notevole pluralità di approcci. La lettera si riferisce esplicitamente alla poesia “Ulisse”, endecasillabi sciolti, l’ultima della raccolta, databile agli anni 1945-46, che dunque qui vi copio.
Nella mia giovanezza ho navigato
lungo le coste dalmate. Isolotti
a fior d’onda emergevano, ove raro
un uccello sostava intento a prede,
coperti d’alghe, scivolosi, al sole
belli come smeraldi. Quando l’alta
marea e la notte li annullava, vele
sottovento sbandavano più al largo,
per fuggirne l’insidia. Oggi il mio regno
è quella terra di nessuno. Il porto
accende ad altri i suoi lumi; me al largo
sospinge ancora il non domato spirito,
e della vita il doloroso amore.
Ed ecco il testo della parte finale della lettera-introduzione:
“Voglio raccontarti, già che ci sono, quello che mi è accaduto, ancora uno di questi giorni, con un giovane letterato, persona a te nota, ed a me carissima.
Ero seduto con lui al Caffè; egli leggeva alcune delle Mediterranee, che avevo appena, con amorosa cura, ordinate e trascritte. Ulisse era una di queste poesie. La poesia, nel suo complesso, gli piacque. Ma ecco che, come ne rileggeva il primo verso, vidi Aldo Borlenghi fermarsi ed arricciare il naso. Il verso dice:
Nella mia giovaneza ho navigato
Gli chiesi il perché del suo visibile disappunto. Mi rispose che il verso non era « bello »; lo trovava anche troppo « scoperto ». Ora quel verso (tecnicamente ineccepibile) non è, in sé stesso preso, né bello né brutto; è solo un inizio, che vive in funzione del componimento di cui fa parte, dei dodici versi che lo seguono, ai quali dà e dai quali prende rilievo. Non è né « brutto » né « scoperto »; è semplicemente « immediato », non cioè passato attraverso nessun alambicco di nessuna, più o meno sapiente, più o meno di moda, deformazione letteraria. Dice, con rara spontaneità, quello che deve dire, nel modo più semplice e diretto possibile. Diventa bello (molto bello anche, e felice) quando, nella memoria del lettore, fa corpo col resto della poesia.
Guardavo la faccia del mio interlocutore. Bella era; e, nel senso nobile della parola, mediterranea. Consunta, logorata e segnata da qualche interna difficoltà a vivere; negli occhi — dietro gli occhiali, chiarissimi — un estremo d’intelligenza sembrava unirsi ad un estremo di malinconia. La sua faccia — che mi ricordava uno di quei paesaggi toscani troppo e da troppi secoli elaborati dalla mano dell’uomo, diventati avari — concordava esattamente col suo giudizio. Quell’uomo doveva necessariamente aver paura di un’immediatezza come di una bomba; ammirare — come egli stesso volentieri confessa — assai più Petrarca che Dante. Era, in una parola, un petrarchista. Soffriva di un male, europeo per estensione, ma italiano alle origini; e di questo male almeno, io, nato agli estremi confini della patria, o non ho mai sofferto, o solo, e non in profondità, nella mia prima giovanezza. Attraverso l’innocente verso citato e la disapprovazione che esso suscitava in Aldo Borlenghi, mi sono persuaso una ultima volta che gli italiani (che sono nella loro vita istintiva e — vedi Verdi — nella musica, uno dei popoli più immediati della terra) non sopportano, in poesia, la vita, senza averla preventivamente uccisa e mummificata. Perché poi questo processo (che essi chiamano di « astrazione lirica », ed io di « congelamento » o di « involuzione ») sia avvenuto proprio per la poesia, oggi come oggi, o non lo so ancora, o non voglio ancora dirlo. Ma che sia avvenuto è certo; come pure è certo che va cercata in esso una delle ragioni sia, in generale, del loro — sotto la varietà delle apparenze univoco — petrarchismo, sia, in particolare, della, fino a ieri almeno, contrastata fortuna della mia poesia. Altre, per quanto mi riguarda, ve ne furono; ma di queste mi propongo di parlare nel difficile libro che sto per te scrivendo, e che s’intitolerà Storia e cronistoria del “Canzoniere”.
Ti saluto, caro Alberto. E faccio voti che non ti preoccupi troppo della « crisi ». Anche questa passerà, la gente ritornerà a comperare libri, e tu venderai perfino Scorciatoie e Raccontini del tuo
aff. Umberto
Milano, maggio 1946.”
[qui brevi notizie su Aldo Borlenghi]
Versione albanese della poesia:
Në djalërinë time velëzova
gjatë brigjeve dalmate. Ujdhesëza
mu përmbi dallgë spikatnin, më të rrallë
ndoj’zog ulej aty: vështrim te gjahu,
mbuluar alga, të rrëshqitshëm, diellit
si smeraldë të bukur. Kur batica
dhe nata i asgjësonte, vela
erës përkundruall bënin tutje,
t’i iknin joshjes. Sot mbretëria ime
është kjo tokë e askujt. Limani zjarre
ndez prapë për të tjerët; mua larg
më shtyn ende ky shpirt i panënshtruar,
dh’e jetës kaq e dhimbsur dashuri.
bello assai, diretto
effeffe
bello. grazie Sparz
Dove l’autoesegesi nevrotica sfiora la sublime meraviglia :)