Appunti su Abu Ghraib
di Tommaso Giartosio
1. Leggo un articolo di giornale (“La Repubblica”, 5 maggio 2004) sulle sevizie compiute dai militari americani in Iraq.
In cima alla pagina: “LE TORTURE.” Titolo: “Orrori e segreti nelle celle di Abu Ghraib.” Catenaccio: “Tre mesi di inchieste, un rapporto agghiacciante, abusi da Corte marziale”.
Poi arrivo all’elenco delle pratiche di tortura (come le riporta un generale americano il cui nome sembra preso da un fumetto di Guido Buzzelli o un racconto di Dino Buzzati: Antonio Taguba ).
Le avete già lette anche voi, immagino. Eccole.
“Rottura di lampade chimiche, il cui contenuto fosforico veniva versato sui prigionieri. Minacce con pistole calibro 9 mm. Getti d’acqua fredda su detenuti nudi. Percosse con manici di scopa o con una sedia. Minacce di stupro ai danni di prigionieri maschi. Sutura da parte di membri della polizia militare di ferite provocate facendo urtare con violenza il detenuto contro le pareti della cella.
Prigionieri sodomizzati con lampade chimiche o con manici di scopa. Impiego di cani militari senza museruola per spaventare i detenuti, in un caso risultato in un morso. Pugni, schiaffi e calci ai prigionieri; pestoni sui piedi nudi. Foto o riprese video di detenuti, uomini e donne, spogliati nudi, a volte in pose forzate umilianti e sessualmente esplicite. Denudamento dei prigionieri, a volte lasciati spogliati anche per diversi giorni. Obbligo per i detenuti maschi di indossare capi intimi femminili. Obbligo per gruppi di detenuti maschi di masturbarsi mentre vengono ripresi. Prigionieri obbligati a stendersi uno sull’altro in un mucchio sul quale i militari saltavano. Prigionieri obbligati a stare in piedi su una cassetta, incappucciati con un sacchetto, con fili collegati a dita delle mani dei piedi e al pene, simulando la tortura dell’elettroshock. Fotografie di militari mentre hanno rapporti sessuali con detenute. Fotografie di prigionieri con catene e collari da cani attorno al collo. Fotografie di prigionieri morti. Le parole “sono uno stupratore” sulla gamba di un detenuto, fotografato nudo, accusato di aver violentato una 15/enne.”
Lo stesso giornale, oggi (6 maggio), aggiunge qualche altra pratica: gas spruzzati negli occhi, acqua calda e sabbia versate nelle orecchie, esposizione al freddo.
2. Vorrei cercare di capire di che tipo di torture si è trattato. Perché è chiaro che sono qualcosa di diverso da quelle praticate nei decenni passati dalle dittature sudamericane, per esempio (a volte con la volenterosa partecipazione di consiglieri militari USA).
In molti casi le torture di Abu Ghraib sono le buone vecchie lesioni corporali, la grammatica elementare della sevizia: pugni, schiaffi, calci, spintoni, pestoni, docce fredde. Si arriva fino agli agenti irritanti, alle percosse con armi improvvisate, allo stupro. Sembra l’inizio di una seduta sadica che andrà a finire nel repertorio di scosse elettriche, ferri roventi, amputazioni, accecamento, assassinio.
Invece ci si ferma qui. Qualcuno muore (il dato accertato parla di 25 detenuti uccisi nelle torture americane, tra Iraq e Afghanistan). Ma sembrano incidenti di percorso. Omicidi deliberati, ma al tempo stesso non previsti in questo rituale di tortura.
Nel corso del rituale vengono minacciate azioni analoghe a quelle già compiute, o (spesso) ancora più gravi: la pistola puntata, il cane aizzato contro. Ogni tortura, come è noto, si accompagna a minacce, ma qui esse acquistano una posizione centrale, segnano una specie di limite. Viene da chiedersi: cosa succede? Perché non lo fanno? Perché non sparano, non sciolgono i mastini?
Perché l’obiettivo è la rappresentazione. Se ci sono tante minacce, è perché costituiscono una rappresentazione verbale delle torture. Ma ovviamente la rappresentazione più ambita è quella mediante immagini. E se ci sono tante scene a sfondo sessuale, è soprattutto perché il sesso è iconico, evidente, graphic.
3. Undici anni fa, in Somalia, i militari italiani scattarono foto simili a quelle che abbiamo visto in questi giorni. Anche allora alla tortura-interrogatorio (o finzione di interrogatorio: Elaine Scarry in The Body in Pain ha giustamente osservato che la tortura in realtà non serve mai a raccogliere informazioni, ma prima di tutto a distruggere un essere umano) si accompagnava un elemento di bravata esibizionista. La foto da mostrare ai commilitoni, agli amici a casa.
Ma con le sevizie in Iraq si compie, credo, un passaggio ulteriore. Le fotografie e i video sono una montagna. Non si tratta di un sottoprodotto della tortura, ma del suo elemento centrale, necessario. Non il ricordino di una bravata, l’indizio eccitante e pericoloso, ma lo scopo principale della violenza. O se vogliamo: la bravata non consiste tanto nel torturare quanto nel fotografare, nello scommettere che si potrà mostrare l’istantanea senza che circoli troppo; nel rischio, nella sfida al contagio dell’immagine.
(L’ipotesi stessa che esistano delle foto false, come quelle che coinvolgono militari inglesi, mi sembra confermare la centralità di questa dimensione iconica.)
4. Dunque la tortura non si è interrotta. Certo: a un dato punto le sevizie si sono fermate. Qualche ferita è stata suturata. Erano le solite tattiche per nascondere la violenza compiuta? I colpi accortamente assestati, che non lasciano il segno? Anche. Ma più sostanzialmente, credo che i soldati USA intendessero “solo divertirsi un po’”. Non volevano torturare e uccidere (il che forse è peggio di volerlo fare). Era un gioco: lo strumento erano le sevizie, e lo scopo erano le immagini.
5. Di qui la centralità della messa in scena. Pose umilianti, di chiaro contenuto sessuale. Uomini costretti a indossare capi femminili. Prigionieri “con catene e collari da cani attorno al collo”. Ma una scena rimane particolarmente impressa.
Un prigioniero (anzi più d’uno, pare di capire) viene costretto “a stare in piedi su una cassetta, incappucciati con un sacchetto, con fili collegati a dita delle mani dei piedi e al pene, simulando la tortura dell’elettroshock”. Poi, come sempre, lo fotografano. E’ la foto che ha fatto il giro del mondo. L’uomo incappucciato sembra una grottesca parodia di un membro del Ku-Klux-Klan, o uno dei Vampiri di Feuillade.
Immagino che i militari Usa non gli avessero detto che volevano solo fotografarlo (del resto, ci avrebbe creduto?): quindi stiamo assistendo a una tortura psicologica. Ma chi l’ha inflitta ha anche picchiato, tormentato, ucciso. Se ora non va fino in fondo, è perché ciò che gli interessa non è principalmente torturare (questo lo fa, ma lo fa andando per le spicce, brutalmente, distrattamente, e proprio per questo può scappargli il morto); gli preme invece rappresentare la tortura. Catturarne una versione fotografica, cinematografica.
E’ questo che interessa, oggi, a chi ha il potere assoluto. E’ questo l’orrore, il segreto agghiacciante di Abu Ghraib.
6. Cosa concluderne? Che il vecchio tema della “violenza dell’immagine” e del suo rapporto con il potere – un tema che sembrava passato di moda, superato – non è scomparso: casomai si è rafforzato.
Che questa violenza comporta uno spettatore, cioè una nostra complicità.
Che l’immagine, il video-gioco, è essenziale a questa violenza, perché le fa da alibi.
E che il serial killer, con i suoi corpi dissezionati e divorati, è un mito culturale che merita in pieno il suo status di antieroe. Lui almeno ci fa attenzione, ai disgraziati che gli finiscono tra le mani. Non vuole “solo” rubargli una fotografia.
Perchè, caro Dario, non andiamo ancora più a fondo e relazioniamo un attimo questa questione alla nostra situazione, cioè quella italiana?
1) Perché non paragoniamo le immagini dei prigionieri italiani con quelle dei prigionieri iracheni? I nostri (a parte il prigioniero ucciso, grazie anche all’iperdiplomazia e cautela del nostro presidente del consiglio: Falange Verde – Abbiamo dei prigionieri italiani, li uccidiamo se non non ve ne andate dall’Iraq. – Berlusconi, prontamente – Noi restiamo in Iraq -), i nostri dunque, a parte il prigioniero ucciso, mangiano, dormono e il massimo di offesa fisica visibile è un livido sulla testa di uno solo di loro. Da che parte sta la civiltà?
2) Come sempre siamo all’avanguardia, no dico davvero. Poco dopo lo scandalo Enron che ha costretto addirittura Bush, appoggiato nelle sue elezioni da enti petroliferi e una gran quantità di lobbies economiche, a legiferare duramente contro il falso in bilancio, dico in questo contesto internazionale, il nostro governo se ne esce con la legge che depenalizza il falso in bilancio. Nel periodo in cui la Comunità Europea cerca di istituire un coordinamento penale a livello internazionale con il “mandato di cattura europeo”, il governo italiano approva la “legge sulle rogatorie”, che va tutta nel senso opposto. Nell’epoca storica di assoluto primato del capitalismo (caduto il comunismo), capitalismo selvaggio esasperato della peggiore specie, oggi che si privatizza anche l’acqua e l’aria e il culo dei cittadini, il governo italiano se ne esce con una politica economica protezionistica e statalistica, ipotizzando appoggi economici all’Alitalia, alle società calcistiche per pagare gli stipendi di Totti e Del Piero ecc. E adesso anche questa: in un contesto di scandalo per i maltrattamenti ai prigionieri di guerra, che cosa ha fatto qualche giorno fa il governo italiano? Ha stabilito che un po’ di maltrattamento, di tortura (e parliamo non di prigionieri di guerra, ma di civili presunti colpevoli) è lecito, purché non reiterato, non troppo lungo. No, dico davvero, siamo di una tempestività eccezionale, siamo ridicoli!
L’Italia di Berlusconi mi dà l’impressione di un corridore che marcia nel senso sbagliato, vede la fiumana di tutti gli altri atleti che corrono in senso opposto al suo, alcuni visibilmente allarmati gli fanno segno che sta sbagliando, di invertire il senso di marcia, ma lui continua imperterrito come se niente fosse, sorridendo e salutando con la mano…
L’altro giorno sono andato a vedere una mostra fotografica nella mia città (Roma). Quartiere Trastevere. La maggioranza delle foto ritraevano dolore umano: oltre all’Iraq, c’era un villaggio cinese i cui abitanti erano costretti (anzi ‘liberi di’) vendere il loro sangue in cambio di derrate alimentari, il che ha determinato una rapida diffusione dell’Aids fra i comapesani. Ho visto la testa di un africano fra le mani di un altro africano e una scena di quotidiana devastazione all’interno di un villaggio palestinese, dove stavano passando i carri armati sionisti a fare la loro rappresaglia. Il fotografo (palestinese) era stato ferito a un’arteria e così ha dovuto scattare la foto da terra, accanto a un paio di cadaveri. Le foto ovviamente erano tutte bellissime. Davvero. Ho provato solo un po’ di fastidio a leggere nelle didascalie: ‘primo premio alla mostra tot, secondo premio alla mostra tot’ e via dicendo. Sulle prime quelle inutili didascalie mi davano l’impressione di una grottesca classifica del dolore ma poi ho pensato che stavo ragionando come Elizabeth Costello e che io non sono così. Ho cercato allora di essere concreto, pragmatico, mi sono ripetuto che quelle foto svolgono anche una funzione sociale, che è importante che girino per il mondo il più possibile e che qualcuno le veda, che non finiscano come le immagini dei cadaveri iracheni dopo i bombardamenti made in u.s.a., che non finiscano solo su internet, diffuse in una tristissima mail colelttiva.
Ecco: se confronto questi confusi stati d’animo con il contenuto delle foto a cui si riferisce l’articolo di Tommaso, mi rendo conto che siamo di fronte a un problema molto diverso. Qui non si tratta solo di una accurata documentazione della tortura fatta da torturatori.Qui le imamgini sono già una forma di tortura. E’ necessario che ‘questa violenza comporti uno spettatore’? La mia risposta è esclusivmanete politica e dico: si è necessario guardare questa roba, magari all’ora di cena. Spero che le famiglie americane se le siano sparate tutte queste ‘testimonianze’ e che il vocabolario della televisione cambi un po’ quando si parla di mondo arabo, terrorismo e violazione dei diritti umani. Spero che fra quaranta anni si possa finalmente dare vita a un tribunale internazionale super partes che sottragga alla giurisdizione Bush-CNN il monopolio della violenza. Spero che sia chiaro che non credo a un cambiamento della situazione in Iraq anche qualora Bush perdesse le elezioni solo a causa di qualche fotografia. Scusate lo sfogo. Sono un po’ depresso e la lucidità latita.
Non bastano più gli sfoghi, l’Italia è specchio lucente , ma proprio lucente, incarna al massimo grado il declino. In Italia è stato capovolto tutto, così, quatti quatti, silenziosamente, l’hanno fatto. parlare di queste cose è retorica!non basta più! E continuano ancora con Alitalia e società calcistiche…ma questa non è politica statalistica o protezionaistica, per il solo fatto che questi cercano di mettere pezze al culo a loro sodali, grandi privati, depauperatori di risorse…
chiediamoci piuttosto in che modo, pubblico dico, una nazione indiana possa uscire dalla riserva; aldi là dell’indignazione e della informazione che vola su internet
grazie a giartosio per l’articolo
Copio-incollo due contributi sulle sevizie. Il primo è di Arbasino:
Corriere della Sera
Mercoledi’ 5 Maggio 2004
IN VARI PAESI
Le sevizie militari
Caro Mieli, le foto choc delle sevizie militari nei vari Paesi del mondo si
possono ritrovare tali e quali sui giornaletti o giornalacci «hard»
disponibili nelle edicole. E le indignate inchieste sugli identici
«nonnismi» ai danni delle reclute in tutte le nostre caserme sono
riscontrabili in qualunque archivio dei nostri giornali. Ricerche ormai
facili e rapide per ogni praticante, no? Basta un computerino.
Alberto Arbasino
2) Il secondo è di Massimo Cacciari, su La Repubblica di oggi.
“Pietà per i torturatori. Non solo perché non sanno quello che fanno e si
fanno. Pietà anche per la nostra natura che in loro si disvela secondo la
più perfetta misura della sua miseria. Essa consiste essenzialmente nel
credere che la propria superiorità (e perciò la propria stessa sicurezza) si
esprima nella capacità di ***abbassare l’altro, di umiliarlo***. Che la
nostra vittoria consista nella totale sconfitta di chi ci ha affrontato. In
questa fede trova fondamento il nostro male radicale. I torturatori di Abu
Ghraib non sanno che la tortura innalza, invece, la vittima; che il terrore
che infliggono non rifletterà, alla fine, che la loro stessa angoscia
impotente.”
Ehi, flanders, hai dimenticato di entrare in scena con un “salve, salvino”.
Comunque, in linea di principio non hai torto, gli sfoghi a volte sono materia letteraria, narcisismi, uno si indigna con parole talmente alte e espressioni talmente azzeccate che pare dire: ehi, guarda come sono bravo a indignarmi!
Ci sono scrittori per cui la letteratura è uno strumento per fini più alti, morali, politici (vedi il mio amato Silone), e ci sono scrittori che invece fanno della morale o della politica uno strumento per fini letterari.
Ad esempio: Valerio Magrelli, in Didascalie per la lettura di un giornale, si avvicina molto a una poesia civile. In un’intervista però afferma qualcosa del tipo: la globalizzazione, l’ecologia ecc. è tutto materiale per la poesia, è un grande territorio che la poesia può esplorare. Mi sembra chiaro che qui il discorso cambia, c’è una sorta di ribaltamento, non è una visione politica che sceglie l’espressione letteraria ma una visione estetica che assume come oggetto il politico e il sociale. Sembra una finezza, una semplice questione di priorità ma, secondo me, è molto importante. Lo stesso vale per molti altri scrittori che si “sfogano”, che “fingono” di scegliere l’impegno o meglio lo scelgono ma per motivi estetici, letterari, secondari…
Il mio, comunque, anche se non fatico ad ammettere che avesse il tono dello “sfogo”, non voleva essere solo uno sfogo ma un’analisi. L’Italia, in questo periodo, si sta muovendo per molti versi nel senso opposto all’Europa (di cui fa parte) e agli USA (di cui si dichiara alleata e sodale), e in generale sta rifiutando alcune conquiste politiche, economiche, penali degli ultimi anni (il capitalismo selvaggio quello no, non è una conquista). Non mi sembrava un’analisi cattiva… Certo il rischio della retorica è alto, altissimo, quando si parla di queste cose, a volte viene quasi la voglia di non discuterne più, visto che se ne parla tanto, e la retorica le ripetizioni e la nausea si sprecano. Tuttavia, io credo in quanto scriveva un secolo fa Renato Serra nel suo Esame di coscienza:
“Ma adesso basta parlare della guerra. Anzi, parliamone ancora.”
Arbasino: quale frontiera tra finzione e realtà? Per Arbasino, si sa, non c’è frontiera che tenga.
Cacciari: la paura fa la nostra storia. Solo la paura. E qual è la paura delle paure secondo voi?
La morte, Lara, ma solo per l’occidente. E’ qui che nasce il primo grande ossimoro del nostro tempo.
ah, sì, salve salvino, grazie malatesta, non faccio danni :))
è che quando una parte si addormenta, eccoli là, gli avvoltoi, ma ora basta, è troppo! ci vuole un’altra vita, dite? come? che si fa? non sento, qualcuno teme?
sì, ma serra non disse solo quello, lui fu per la guerra; noi, invece, con chi la facciamo la guerra, tra di noi, forse! non siamo buoni nemmeno ad identificare il nemico, che c’è, e ride alla grande, ci spalma nel panino, come quel fantasma :))
Sono d’accordo con la conclusione di Malatesta, anche se con Magrelli è ingeneroso. Aggiungo una cosa però sugli sfoghi, visto che se ne parla così tanto (ma Giartosio,le foto, Bush?)
Secondo me tra una vuota estetica della guerra e una letteratura ‘politica’ c’è una linea mediana, fatta di persone che cercano di esprimere i propri stati d’animo e sopratutto di discutere a caldo con gli altri per chiarirsi le idee. Gli sfoghi, in questo senso, sono necessari (a volte solo per chi si sfoga). Anche se possono risultare (e sono) retorici, letterari,inutili, gli sfoghi presuppongono dubbi in chi scrive, sono un modo di lasciarsi andare, di affidarsi agli altri. Questa si chiama comunicazione. Lo sfogo è anche una forma (a volte non richiesta) di confidenza. In ogni caso la sua retorica è spesso sintomo di autenticità o quantomeno di fragilità. L’autocompiacimento, la scelta modaiola del politico e del sociale, quello segue altre strade.
No, Marco, io adoro Magrelli! Allo stato attuale, lo considero il migliore poeta italiano, attribuendogli tra i vari meriti quello il coraggio della tematica civile, il recupero della forma poematica (manca l’intreccio di rimandi interni, ma è evidente un superamento dell’atomizzazione frammentistica, cioè il frammento c’è ma è riassorbito nell’architettura e visione d’insieme) e il lavoro sulla lingua, cioè in parole povere l’innesto di temi e terminologia specchianti l’attualità tecnico-scientifico-sociale (vedi l’ambito computeristico, quello biogenetico ecc. per cui potrei tornare sul discorso, iniziato tempo fa con Scarpa e lasciato a metà, sulla poesia di Nove, ancora ferma all’immissione ossessiva, da pop art, dei termini commerciali, i quali hanno ormai ottenuto il diritto di cittadinanza poetica – vedi Raboni che parla di nescafè e vari, D’Andrea poeta ermetico che cita l’hag ecc. -, mentre Magrelli è ancora più avanti, e desublima la poesia piegandola ad argomenti con annessa componente linguistica come il web, la pecora Dolly ecc.
Ma ecco, comunque, la tematica civile non è la priorità di Magrelli, il primato è quello estetico e linguistico, è abbastanza evidente… (anche se sì, forse non dovevo metterlo nel girone degli “sfogatori”, lo prendendo come esempio…)
Per Flanders: certo, Serra alla fine partì in guerra, ma non mancò di dirci in maniera disicantata, contro tutte le teorie storicistiche, ipotesi palingenetiche ecc. che “la guerra non cambia niente”, non poco se rapportato al periodo attuale, in cui la guerra è elevata addirittura a strumento di democrazia…
Comunque, sì, ritorniamo a parlare delle foto, che io abolirei, e abolirei le immagini in genere, e poi la tv, per ritornare alla radio, anzi no, più indietro fino solo ai giornali, anzi, più indietro ancora, alle notizie contrabbandate di bocca in bocca…
Le torture sono vomitevoli. Lynndie England è sicuramente una troia da due soldi. Ho visto la fotografia su Repubblica, ho visto i siti, ho visto questa ragazzina che tiene al guinzaglio un uomo sofferente. Si parla di video con guardie che stuprano prigionieri pubescenti. Si parla di cose che emergeranno e che metteranno a nudo che la vita militare e la tortura hanno una parentela strettissima. Sono soldati, pessimi elementi. Quanto a me, non credo al soldato umanitario, al soldato non torturatore, alla soldatessa sensibile. Non ci crederò nemmeno quando lo vedrò. Quelle torture dovevano accadere, erano nelle cose. In re ipsa. Quella troia di Lynndie England è uno specchio non deformato dell’istinto militare, dell’uomo che si fa arma. Noi possiamo ragionare quanto vogliamo, ma c’è bisogno di un esercito? C’è bisogno, e allora, purifichiamo e puniamo e sanzioniamo, ma io Lynndye England nel mio esercito ce la voglio, puniamola, scacciamola, ma in prima battuta ci doveva essere e in un certo senso la sua stronzaggine mi fa desiderare di essere ancor più umano, che non vuol dire non torturare, naturalmente.
Tento qualche risposta. I miei “appunti” erano tali proprio in quanto sentivo l’insufficienza delle conclusioni. Credo che il tema della “violenza dell’’immagine” sia stato sottoposto, da qualche anno a questa parte, a una radicale semplificazione e banalizzazione che gli ha tolto credibilità (e credo anche, senza voler indulgere a paranoie dickiane, che questa delegittimazione abbia avuto contenuti e obiettivi assolutamente politici). Ora però si può cominciare a ragionarci meglio. Quindi hai ragione, Marco, quando osservi che “è necessario guardare questa roba” (le foto di Abu Ghraib): ma perchè? Perché lo sguardo critico o almeno agghiacciato che tu auspichi è un modo per fornire a queste immagini uno spettatore diverso da quello che esse prevedono e chiedono. Ed è proprio di un “metodo di osservazione sbieca” che abbiamo bisogno.
Non illudiamoci, però, che questo metodo sia qualcosa di semplice, che a qualsiasi osservatore non sadico l’orrore delle immagini di Abu Ghraib parli da sé. Ci sono ancora paradossi, complessità. C’è una nostra cattiva coscienza che non conosciamo per intero. Esempio: la foto di Lynndie England in uniforme che tiene al guinzaglio un prigioniero irakeno. Il pezzo di Andrea Inglese (pubblicato su “Nazione indiana” dopo il mio) la descrive così: “il grugno lascivo e vigliacco del torturatore, del piccolo torturatore donna, che trascina al guinzaglio un uomo più grosso di lei, ma nudo, impotente, annichilito dalla vergogna e dal terrore”. Qui c’è un differenziale di potere che viene subito tradotto in differenziale di genere e quindi in differenziale sessuale (“lascivo”, “impotente”, “vergogna”). Notare che ciò che Andrea descrive secondo me c’è davvero nella foto – cioè nelle menti di England e dell’irakeno, e anche nell’immagine stessa, nella principale lettura che essa suggerisce, nella sua leggibilità mainstream. Ma devo anche constatare che la cruda diagnosi data qui da Giordano Tedoldi, “Lynndie England è sicuramente una troia da due soldi”, non è che lo sviluppo lineare della descrizione data da Andrea. E dato che questa diagnosi non la sottoscrivo assolutamente, su quella immagine occorre lavorare di più, cercare letture non mainstream, altrimenti una parte della sua violenza rischia di travasarsi nei discorsi che intendono denunciarla. (In questo senso, mi sembra preziosa – per una volta – l’osservazione di Arbasino, almeno come stimolo a ulteriori analisi.)
Sugli sfoghi necessari: sì, d’accordo, e allora possiamo anche dire (con Malatesta) che le immagini andrebbero abolite e con esse tutti i media… Sfoghi, reazioni, provocazioni. OK. Però non credo che si possa fare una “classifica delle civiltà” confrontando (come fa ancora Malatesta) la piccola percentuale di prigionieri irakeni che sono stati seviziati o uccisi dagli americani con la larga percentuale di prigionieri occidentali che non sono stati seviziati o uccisi dagli irakeni… Forse lo sfogo (per continuare a usare questo termine) ha una sua legittimità e utilità nella misura in cui non assume, e non pretende di assumere, le forme dell’analisi.
Mi fa molto piacere quello che hai appena scritto Giartosio, in riferimento alla foto della England…da quando ho letto il commento di Tedoldi ci stavo riflettendo. Occorre veramente lavorare di più su quell’immagine. A prima vista quella foto potrebbe essere inserita benissimo in un qualche libro sadomaso, ad es. Venere in pelliccia: la donna dominatrice che si porta a spasso l’uomo-cane. Ma a mio parere c’è qualcosa ancora di più profondo. Le donne da sempre sono violente e possono essere torturatrici ma in questa vicenda c’è come un salto da parte del femminile, qui la England si allea con il potere maschile, non fa parte di un gruppo di donne torturatrici… a me sconcerta come donna, e ripeto non il fatto che un’altra donna possa torturare, proprio il contesto e l’aspetto voyeristico di tutta la storia. Ci si fotografa per poi rivedersi.
Oh, ma io quanto ad abolire le immagini dicevo sul serio. E’ ovvio che la “comunicazione” non è “informazione”, è ovvio che il profluvio di immagini al quale la tv ci ha abituati ha inflaziato la nostra tempra visiva, la nostra vista critica. Io penso questo: che si può rendere invisibile una cosa non solo non portandola agli occhi, ma anche – che è molto più impercettibile, sfuggente, psicologiamente sottile – portandola agli occhi tante volte, moltissime volte, un’infinità di volte. Allora la nostra capacità di risposta emotiva ne è indebolita, funziona come coi vestiti. Da bambini si sente il fastidio, le prime volte ci si ribella: poi ci si abitua alla sensazione e, nel momento in cui ci si abitua, ecco che la sensazione scompare, non c’è più, non c’è mai stata. A chi danno fastidio oggi i vestiti? Chi non riesce a dormire per quelle o queste immagini di guerra? Una mia amica, da ragazza, vide un indemoniato e soffrì di insonnia fino all’età adulta: noi oggi vediamo di infinitamente peggio, eppure dormiamo sonni tranquillissimi, beati, solo per dire che il nostro orizzonte di percezione, di incameramento e di reazione davanti alle immagini, è profondamente, forse irreversibilmente cambiato. Serve davvero, al di là del primo impatto, dell’indignazione d’istinto, guardare quelle o altre foto che ritraggono l’orrore? O forse alla lunga (il mio discorso è generico, non specifico), la loro sovraesposizione ci abitua all’orrore, ci rende insensibili, in un certo senso complici?
Qualche tempo fa ho scoperto, tra le varie possibilità di sfondi desktop di windows, la possibilità di utilizzare come sfondo una foto della shoah: la celebre foto con gli ebrei assiepati alle reti metalliche di un campo di concentramento. Per due intere settimane l’ho tenuta come sfondo desktop, pensavo ingenuamente di sensibilizzarmi ancora di più all’orrore, di impormi ogni giorno, ogni ora, continuamente e quasi sadomasochisticamente, come un tempo facevano i preti col cilicio, il dolore e l’assurdo. Il risultato? Dopo due settimane mi sono accorto che quella foto non mi diceva più nulla, assolutamente nulla. I volti avevano perso la loro espressività, la loro carica di strazio e compassione, la situazione si era definitivamente svuotata, la foto non mi sembrava più (e questo è il vero orrore!) diversa da una normale foto di gruppo, o di famiglia, o di una qualunque squadra di calcio. Allora l’ho tolta, abolita, un’igiene necessaria per ritornare vigile, critico sulla shoah…
Conclusione: esistono due tipi di censura, la prima è quella che io chiamo “censura per sottrazione”, che è quella tradizionale, mentre la seconda la chiamo “censura per addizione”, qualcosa di molto più sfuggente, sottile, pervasivo…
Queste foto di tortura stanno facendo il giro dei giornali, delle televisioni, del web: vedrete, tra qualche settimana, non ci faremo più caso, le guarderemo come si guarda una pietra, una casa, un paesaggio, ci entreranno in circolo sciogliendosi e confondendosi col sangue, ecco, l’effetto forse già inizia…
ha ragione, malatesta,sa, becca perfettamente il problema. leggendo giartosio, si piazzava in mente in maniera davvvero naturale la paranoia di quanto sia facile incartarsi( e non lo dico per fare polemica, solo per chiarezza mia, personale)! credo che “imporre” queste immagini non risolva nulla, la gente l’orrore lo vive nella pratica quotidiana, non serve a nulla rifarsi alla guerra e alle sue crude immagini.tutto scivola… perchè non siamo toccati, noi, per ora, dalle “bombe”.
la coscienza civile non si sveglia con la consacrazione dell’orrore o del fetido, con lo sfogo, ma proprio con l’analisi, giartosio. Come dire: vediamo di cosa c’è bisogno ora…
e allora dico che andrebbero fatte disimparare le griglie proposte, consequenziali a questa tanto aborrita civiltà dello spettacolo. Strade alternative impongono costruzioni nuove, di partecipazione men che meno intelletualoide.
Con chi vuole comunicare, giartosio! rilegga il suo post, pleonastico e per pochi eletti. qui ci vuole pane al pane vino al vino!
scendete nelle piazze, cari scrittori, non bastano più i convegni!
saluti,
dott. g. carotenuto.
Sull’ultimo numero di Internazionale è riportata un’inchiesta sulle torture di un giornalista del New Yorker. La segnalo ma magari lo sapete già. Un saluto.
in tutti commenti che leggo qui c’è davvero moltissimo su cui riflettere, ma anche livelli di discorso diversi e divergenti. Io vorrei sottolineare una cosa: NOI CHE GUARDIAMO QUELLE IMMAGINI, NON SIAMO SOLO SPETTATORI, complici o meno di uno spettacolo mediatico, che puo’ nutrirsi di tutto. Non esiste una lettura di quelle immagini che non sia anche politica, e quindi collocata. Allora, prima di innescare una necessaria analisi sul modo di leggere quelle immagini, su che cosa c’è in quelle immagini, chiariamo CHI SIAMO NOI che le leggiamo, da che parte stiamo, che ruolo abbiamo nel gioco. Altrimenti rischiamo uno sganciamento totale, una deriva interpretativa senza vincoli. Chi siamo noi: italiani, elettori italiani, e il nostro governo è in quella guerra, i nostri soldati sono alleati di quelli che ammazzano e torturano, al di fuori di qualsiasi giurisdizione. O teniamo ben salda la barra della lettura politica del contesto guerra in Iraq, o quelle immagini rischiano di diventare davvero materiale estetico, o metafisico, sul male del mondo o sulla seduzione dei simulacri, ecc. Ma prima di fare Baudrillard, facciamo anche un po’ di analisi politica preliminare e indispensabile.
Comunque: 1) è verissimo, quelle immagini esigono di essere lette e rilette, scavate.
2) Il problema per me non è davvero né della troietta da tre soldi o del miglior trattamento dei prigionieri iracheni. La tortura è parte di una vicenda ben più complessa, e il mio intervento ha inteso misurare appena questa complessità.
3) QUELLE IMMAGINI DEBBONO ESSERE VISTE. Su questo non mi sembra che ci possano essere grandi dubbi, o serie alternative. Credo che esse non si prestino a grandissimi fraintendimenti. Lo sguardo comune, che è anche il mio, cioè lo sguardo pre-politico, è sufficiente. QUELLE IMMAGINI FANNO SCHIFO. SONO INTOLLERABILI per la maggior parte delle persone. Forse mi sbaglio, forse sono ottimista, ma a questo almeno ci credo.
Detto questo, tutti i commenti che sono stati fatti mi sembrano davvero molto pertinenti.
Ma queste torture ci fanno più orrore perché le abbiamo viste? Quanto conta l’immagine rispetto allo sdegno? Davvero qualcuno di voi qui intervenuti è rimasto sorpreso nell’apprendere l’esistenza di un campo di tortura? Non lo sospettavate? In fondo non si parlava di trattamenti analoghi anche a Guantanamo? Ma là non ci sono immagini, testimonianze visive. Allora continuo a chiedermi: l’intensità della condanna è direttamente proporzionale alla documentazione visiva? Se fosse tornato un vostro amico dall’Irak e vi avesse detto ho visto torturare degli iracheni dai soldati angloamericani, sarebbe stato lo stesso? E inoltre, “spettacolarizzare lo sdegno” non conduce in fondo alla sublimazione e neutralizzazione dello stesso? Un pò come è accaduto per l’11 settembre e come molto acutamente alcuni di voi hanno commentato in “Scrivere sul fronte occidentale”? Ecco, questo mio intervento in stile “Il Tirreno” contiene tuttavia una tacita risposta che immagino avrete intuito…
anche questo è un punto importante: e Cacciari dice a proposito qualcosa che condivido: un conto è “immaginare” o sapere astrattamente, razionalmente, che tortura c’è (e per gli USA c’è dai tempi del Vietnam, dei consulenti militari e della CIA in Sudamerica e Centroamerica); tutt’altra questione è sentire il racconto di un testimone (poco importa se diretto o indiretto), oppure vedere delle immagini. Molti di noi SANNO che come a Guantanamo (nelle carceri private USA) si torturava e che qualcosa di simile doveva accadere in Iraq; ma vedere le immagini, sentire i racconti, questo è sempre SCONVOLGENTE, sorprendente, non ci si può abituare a guardare quella cosa. Alcuni amici sostengono che quelle immagini possono addirittura essere accolte con sollazzo dai nostri italiani razzisti. Io credo che solo una minoranza di gente, indipendentemente dal credo politico, possa sollazzarsi di una tale cosa. La reazione, lo ripeto, a questo orrore è di tipo pre-politico, difficilmente ci poossiamo abituare a questo. E in ogni caso siamo di fronte a una novità storica: per la prima volta la zona più inconfessabile, segreta, disumana della guerra è filtrata a noi, è apparsa pubblicamente, e non dieci o vent’anni dopo, ma ad un anno solo di distanza: la Sontag scriverebbe ora qualcosa di diverso sul tema guerra-immagini-pubblico. Che le foto siano saltate fuori perchè gruppi di potere anti-bush lo hanno voluto e permesso non cambia una cosa: dopo queste immagini ricostruire l’innocenza e l’integrità della superpotenza begnina sarà compito quasi impossibile.
Andrea, condivido il tuo intervento, ma davvero esiste o esisteva qualcuno che ancora crede o credeva a “l’innocenza e l’integrità della superpotenza benigna?” E ancora: in un regime dittatoriale certe foto sarebbero saltate fuori? Non è forse, paradossalmente, un inno alla democrazia, ciò che è accaduto, ed in particolare a quella grande democrazia che è l’America?
D’accordo con Ciofi. Soprattutto, caro Andrea, secondo me sei fuori strada quando dici: “vedere le immagini, sentire i racconti, questo è sempre SCONVOLGENTE, sorprendente, non ci si può abituare a guardare quella cosa”. Ci si abitua, purtroppo ci si abitua…
Mi dispiace contraddirvi, ci sono persone che non si abitueranno mai, sarò retorica e ingenua o forse troppo sensibile, ma alla violenza e alla morte io non mi sono ancora abituata. E se non ci fosse chi perpetua la memoria con racconti o immagini troppi orrori sarebbero già stati dimenticati. E NON VOGLIO abituarmi all’orrore.
Se ci abituiamo alla tortura, caro Malatesta, allora è la fine; allora qualcosa di simile ad una perversione etica generalizzata e radicale sarà di nuovo tra noi, come ora lo è all’interno di pericolose minoranze; la popolazione tedesca, una buona parte di essa, si era abituata alla tortura e allo sterminio durante il regime nazista; e ci sono altri casi di maggioranze che si abituano alla tortura “vista coi propri occhi”; ma sono casi estremi, catastrofici, di condizioni “morali” per imbastire segregazioni o genocidi; voi vi preparate ad accettarlo con cosi pronta saggezza? io no! Come dice Gabriella NON VOGLIO abituarmi a quell’orrore.
Rispetto a quello che dici Fabio, il problema non è: “ma noi lo sapevamo già che gli USA non erano il gigante buono, ecc.” Certo che noi lo sapevamo, ORA pero’ NESSUNO POTRA’ IGNORARE che le truppe del gigante buono torturavono. Rifletti per favore sul pezzo di John Pilger sul “manifesto” di oggi 13. Certo, la controffensiva ideologica è già pronta: few people, casi isolati, comandi pasticcioni, mancanza di addestramento. Ma tutto questo è zeeppo di contraddizioni, sono ancora balle che fanno acqua, e cio’ non lascia le cose come prima. Ragionare come se tutto cio’ non avesse conseguenze politiche enormi (anche se forse non immediate) significa davvero educarsi all’impotenza.
Infine: tripudio della democrazia? Trasparenza democratica? (osservazione di Fabio). In qualche modo si, ma solo se se ne tirano fino in fondo tutte le conseguenze politiche: ossia ritiriamoci da li. Si, se gli USA correggono la loro politica guerrafondaia. Se invece i governi ricompatteranno il consenso e andranno avanti come prima, il fallimento dei presupposti democratici sarà ancora più grave ed evidente.
Caro Andrea, quando dici che una buona parte della popolazione tedesca si era abituata allo sterminio dici cose- io credo- per sentito dire. Avendo avuto un padre tedesco, classe 1926, sbattuto a 17 anni sul fronte russo in prima linea (fece gli ultimi 9 mesi di guerra), ti posso dire con una certa sicurezza che in Germania la popolazione, in grandissima parte, NON CONOSCEVA la questione sterminio, quindi NON SI ERA ABITUATA a nessuna tortura e sterminio. Ti dico questo non perchè voglio fare polemica con te, (oltretutto apprezzo molti dei tuoin interventi) ma per amore di verità. Di una verità appresa, come si suol dire, dal “vivo”, direttamente da un testimone, chiamiamolo così, di quei tempi terribili. Da qui al revisionismo di certi ceffi alla Nolte, ovviamente, ce ne corre parecchio. Il regime nazista non consentiva alcuna discussione. Per una mezza battuta Hitler venivi fucilato. (Racconti di mio padre).Era la dittatura allo stato puro. Poi abbiamo scoperto che anche in Unione Sovietica non si era da meno.
Sulla questione delle torture: non ci si potrà mai abituare all’orrore, se si avrà nel proprio animo ancora un briciolo d’umanità. Ma la questione di questa sporca, maledetta guerra (come tutte le guerre)è: chi è che ha mandato al potere Berlusconi? Chi mandò al potere Hitler?
Risposta: la propaganda.
Cioè la retorica, cioè la filosofia, cioè gli oratori dell’agorà, cioè le scuole di scrittura, cioè i romanzieri (secondo Cordelli).
Ma da un po’ (perchè il tempo di leggiucchiare lo trovo) volevo dire a Giartosio che ho molto apprezzato questo intervento: mi sembra che colga nel segno. La stessa decapitazione del poveraccio americano non è che un danno collaterale della bomba mediatica lanciata da Al Quaeda. Se disponessero dei sofisticati effetti speciali hollywoodiani, i terroristi potrebbero fare a meno anche di ammazzarla davvero, la gente. Incredibilmente, quelli che di Hollywood dispongono non riescono a vincere la battaglia mediatica. Anzi regalano vittorie al nemico. Ma non è argomento da quattro righe.
Per una volta non sono d’accordo con Tedoldi.
Malatesta (ci sei o sei davvero volato via dopo la battaglia fondamentalista con Tiziano?), hai preso una cantonata: gli ostaggi vanno trattati bene per motivi utilitaristici (sono destinati all’esibizione e allo scambio) i prigionieri anonimi non godono mai di questi vantaggi.
Ti sei dimenticato la propaganda elettorale.
Caro Franz,
è vero, la mia frase non era ben formulata, ma ciò non dipendeva da un « sentito dire ». Non tutti i tedeschi sapevano la proporzione dello sterminio né il suo esatto meccanismo, ma nessuno tedesco poteva ignorare tutti gli elementi che avevano preparato “la soluzione finale”, tappa dopo tappa, persecuzione dopo persecuzione. Il tema dello sterminio degli ebrei e del lager, connesso con il tema delle società totalitarie, rappresenta qualcosa di simile a un’ossessione. E credo di essere andato al di là di un « sentito dire ». Ho letto Levi, Wiesel, Antelme, Semprun, Solzenicyn « Arcipelago Gulag », Arendt, «La banalità del male», Anders «Noi figli di Eichmann», G. Bensoussan, « L’eredità di Auschwitz», A. Wieviorka, «L’era del testimone», T. Bastian, «Auschwitz e la menzogna su Auschwitz», Mosse « Le origini culturali del III Reich», ecc.
Tutte queste letture non mi mettono certo al riparo da ingenuità, semplificazioni o fraintendimenti. La mia frase, ripeto, suona assai sommaria. Ma la tua obiezione non mi sembra convincente. E il punto che più interessa non è solo la verità storica, ma le conseguenze che noi possiamo trarre da essa. A me piacerebbe ascoltare tuo padre, la sua testimonianza, e aggiungere un atomo di comprensione, di luce, alla tela ancora troppo buia della storia tedesca del nazismo. Ma inviterei te e tuo padre a leggere (o a rileggere) rigo per rigo il capitolo dei “Sommersi e Salvati” intitolato LETTERE AI TEDESCHI.
La mia frase ricalca la sostanza dell’argomentazione di Levi : ci furono pochi grandi colpevoli, ci fu una maggioranza complice (anche solo per indiferenza), ci fu una minoranza davvero antinazista e pronta a prendere dei rischi nei confronti del regime. Il brano centrale del capitolo di Levi è dedicato alla risposta che egli dà alla lettera di tedesco, un adulto ai tempi dello sterminio.
Ecco alcune frasi della lettera che questo signore invia a Levi. Ad un certo punto parla dell’odio di Hitler per gli ebrei e dice : « ebbene, quest’odio non è mai stato popolare (…) Mai, a quanto io so ed ho letto, durante tutto il periodo hitleriano fino alla sua fine, mai si è saputo di un solo caso di spontaneo oltraggio od aggressione ai danni di un ebreo. (…) Ribellarsi in uno stato totalitario non è possibile. » Di fronte a questi e ad altri argomenti simili, Levi regisce in questo modo: “Ho risposto una lunga lettera, forse la sola IRACONDA che io abbia mai scritto.” Non ho tempo di riportarti qui gli stralci di questa risposta, che Levi inserisce nel capitolo.
Ma ti prego di andarla a leggere, e magari di leggerla con tuo padre e sentire lui che ne pensa. Su questo ci sarebbe moltissmo da dire, ma non solo per ieri ma anche per oggi. Quando, davanti al congresso, il generale di origine filippina Tabuga parla di abusi realizzati da « few people » e parla di « mancanza di addestramento », di confusione tra i comandi, ecc., è già entrato nel gioco delle parti, nella deresponsabilizzazione ; a Tabuga risponde la soldatessa England, che dice « ho eseguito ordini e quindi pensavo di fare ciò che si doveva in tali casi ». I comandi non sapevano, i soldati eseguivano solamente : la responsabilità di atti così pesanti si volatilizza in un limbo, dove nessuno è davvero responsabile.
andrea, concordo pienamente con la tua risposta a franz. e sul tema della complicità e del “potevano non sapere?” levi stesso è tornato più volte, in saggi, articoli, interviste. invece non mi convince l’idea che, se i governi ricompattassero un consenso maggioritario alla guerra, la diffusione delle foto andrebbe considerata nulla più che un fallimento della democrazia. tale diffusione, mi pare, rimarrebbe *in sè* *anche* un sintomo di democrazia in azione – sintomo che in altri paesi manca. però dico “anche”, perchè non mi sento neppure di parlare, come fa fabio ciofi, di puro e semplice “inno alla democrazia”. pensiamo a ciò che accade nei regimi totalitari o semitotalitari. non è che fotografie, manoscritti, samizdat non circolino. ma percorrono canali sotterranei, discreti. lo spazio pubblico è interamente occupato dalla macchina del consenso. invece nei regimi liberal-democratici occidentali domina una (o più) macchina del consenso imperfetta, che a volte deve far posto a messaggi che le sfuggono e la contraddicono. è un meccanismo in parte virtuoso (in questo senso ci si può rallegrare della “democrazia in azione”) ma per altri versi dominato da logiche estrinseche, che gli stessi centri di potere non controllano bene. tale la logica dell’immagine. esempio di questi giorni: il rapporto di amnesty international mi sembra decisamente più forte, come denuncia, delle rivelazioni commoventi ma abbastanza sconnesse di pina bruno (e non sto parlando della cosiddetta “smentita”, ma proprio della lunga intervista concessa al tg3). ma pina bruno è la vedova di uno dei morti di nassiriya. ed è una donna, con la sua voce e il suo corpo fisicamente presente; giovane, rimasta sola, anche piacente, e ovviamente tragica. ha un impatto mediatico ben maggiore di un fascio di fogli sulla scrivania di AI. è – cioè sembra – l’anti-england. fa scattare identificazioni. quali? perchè? proviamo a chiedercelo… per questo motivo mi sembra che continuare a interrogarsi sulla centralità dell’immagine e sulle sue dinamiche mi sembra per nulla teorico, anzi estremamente politico. e ne approfitto per ribadire, a scanso di equivoci (mi sembra che ne sia emerso qualcuno), che a mio parere foto e filmati e documenti vanno assolutamente visti, letti, fatti circolare. cercando, però, di cogliere le ragioni del loro potere (positivo o negativo), che spesso è più profondo di istituzioni e antagonismi, e che può e deve venire esplorato e “giocato” nell’agone politico, senza per questo cessare per un solo attimo di battersi contro i poteri ingiusti e oppressivi.
scusate l’orgia di “mi sembra”!
Caro Andrea,
in effetti quella tua frase E’ assai sommaria. Forse ci sono stati fraintendimenti anche da parte mia; resta il fatto che quelle testimonianze che mi citi non mi sono del tutto estranee. Ma forse, dico forse perchè queste sono poco più che supposizioni, il problema della “banalità del male” è un problema che attiene all’uomo nella sua intera storia e non solo all’uomo germanico dal 1933 al 1945. Voglio anche dire che il nazismo, tu lo sai molto meglio di me, attecchì in Germania per ragioni che vanno a ricercarsi, molto semplicemente, nelle decisioni dei vincitori della Prima Guerra Mondiale. Furono quelle decisioni che offirono terreno di coltura ai nazionalismi pangermanici per inoculare nel popolo tedesco (non mi stancherò mai di ripetere – popolo eterogeneo)il virus di un riscatto nazionalistico che portò all’ascesa del caporale Adolf Hitler. Ora, io non sono d’accordo sul concetto di complicità. Posso capire, ovviamente, le ragioni di Levi- percependone, diciamo pure per una sorta di sbocco d’empatia-le fonti. Non si può fare finta di nulla davanti a quelle testimonianze. E da tanto tempo solo gli apolegeti della peggior razza possono ancora far finta di nulla, o addirittura negare. Ma, seppure rischiando l’impopolarità e l’accusa di cinismo, bisogna andare più in là, e tentare di capire le ragioni- se di ragioni si trattò- degli altri.
Non vorrei che si ingenerasse confusione, ora, tra lo stato nazista e i cittadini tedeschi di quello stato nazista. Perchè a questo punto si arriva – fatalmente – ad essere, a diventare razzisti al contrario. A credere (su quali basi, poi?) che la gente comune di quel paese girò indietro la faccia davanti agli stermini per cattiveria, indifferenza, paura. A fare dei tedeschi dei mostri senza cuore e senza coscienza, un popolo “eletto” dal Dio del Male. Non è così; altrimenti dovremmo fare questo ulteriore ragionamento: perchè gli italiani (la maggior parte) applaudirono Mussolini fin quando fece loro comodo?
E’ vero però anche questo: il nazismo fu cosa ben diversa dal fascismo, questo lo sai bene, caro Andrea. Fu molto più duro. Non esiste un Fellini tedesco che abbia rappresentato il nazismo come fece il nostro grande Federico in “Amarcord”, tratteggiandone i lati burleschi, assurdi, baracconeschi. Perchè anche questo fu il fascismo, una baracconata. Il nazismo no: fu una sciagura totale col ghigno sulla bocca della menzogna.
Vivere a quei tempi, così mi raccontava mio padre che a quei tempi era un adolescente prestato al fuoco incrociato, era difficilissimo. Così mi disse anche mia nonna, che non era certo una simpatizzante del III Reich.
C’è poi la questione degli ordini: le SS cercavano di discolparsi così. Ma quelli erano VOLONTARI. La gran parte dei soldati tedeschi, come la gran parte di quelli italiani, fu presa per la collottola e sbattuta al fronte a pedate nel culo. Di quelle lunga schiera c’era anche il diciassettenne mio padre.
Mi rendo conto che i discorsi sono troppo complessi e si accavallano. Come riuscire a dipanare matasse così antiche ma non impolverate, perchè certe storie sono ancora in noi, in noi che non le abbiamo vissute ma che ne abbiamo ereditato – da figli, da nipoti – le fibre? E’ difficile. Posso dirti che mio padre non vide nulla. E non perchè era un vigliacco, non vide nulla e basta. Fosse stato un vigliacco non sarebbe sopravvissuto al fronte, credo.
Leggerò sicuramente LETTERE AI TEDESCHI. Non so se mio padre lo fece, quand’era in vita.
Un abbraccio,
L’intervista alla “troia” (oggi sul Corriere) sembra confermare le intuizioni di Giartosio.
Qualcuno ha riflettuto sul fatto che la ribellione finale di Quattrocchi non è stata un’ inutile sbruffonata ma un azione oggettivamente eroica? (ha rovinato l’utilizzo propagandistico della sua esecuzione). O qualcuno crede ancora che Al Jazeera non abbia trasmesso quel filmato per pudore?
Si, Elio, per me Quattrocchi è morto da vero uomo. Forse anche da eroe.
Il pudore di Al Jazeera è apparentabile a quello della “troia”. Dunque quelli di Al Jazeera hanno censurato un gesto, per loro, “politicamente scorretto”…
Scusate il ritardo con cui vi dico quanto abbia apprezzato i pezzi di Tommaso e di Andrea e anche la discussione qua sopra. E vi confesso che questo orrore e questo delirio mi creano uno sgomento per cui spesso mi sento la testa ovattata e provo un forte senso di inadeguatezza della parola scritta. Che, in effetti, è quanto mi succede leggendo molti dei commenti sui giornali – magari dicono cose sacrosante, ma ovvie, inadeguate, incapaci di fare un passo più in là del sacrosanto dovere di ribadire certi cardini della civiltà -mentre i vostri due pezzi il passo in là lo fanno eccome. Grazie.
Trovo profonde e condivisibili le idee e le analisi di Giartosio e di Inglese.
Circa l’enfasi sulla “troia” e l’omaggio all’eroico “vero uomo”: penso che la volgarità e le sciocchezze siano da inquadrare per l’appunto come volgarità e come sciocchezze, non come “politicamente scorretto”.
Per Inglese e Giartosio: io non ho detto che ci si abitua alla tortura, lungi da me. Io ho detto che ci si abitua, visivamente ed emotivamente per sovraesposizione, alle “immagini” della tortura. Penso che questo intendesse anche il buon Ciofi. Nessuno mette in dubbio la portata politica della notizia, ma il mio discorso era un altro, psico-sociologico, e verteva sul nostro attuale rapporto con le immagini. In sostanza, qual’è stata la reazione la prima volta che avete visto quelle immagini? di orrore e sdegno, presumo… E quando le avete riviste oggi, per la milleunesima volta, qual è stata la vostra reazione? Vi è caduto il cucchiaio nella minestra? Vi è scivolato di mano il bicchiere e si è infranto a terra? Avete chiuso gli occhi per il troppo orrore? Nulla di tutto questo, semplicemente vi siete abituati, come se quelle foto non fossero vere, come se fossero fiction. Insomma, la tv non ci porta la realtà a casa, ce ne distanzia, nel momento in cui la espone e sovraespone la holliwoodizza, ne fa cinema, fiction, letteratura, irrealtà. Non si tratta di ignorare quelle foto ma, semmai, di non considerarle troppo, di non guardarle troppo (ripeto, le immagini).
Se poi posso dire la mia sulla piccola querelle sul nazismo, è chiaro che gran parte della popolazione tedesca non sapesse (è secondario il fatto che poi accettasse o no Hitler e le sue idee, considerato, come dice Franz, tutto quello che era venuto prima – umiliazione politica crisi economica inflazione disoccupazione miseria ecc. -), però, non ricordo dove l’ho letto, ma è risaputo che alcuni abitanti erano a conoscenza dei campi. A parte la logica supposizione sostenuta da molti che “non tutti potevano essere tenuti all’oscuro di tutto”, ma ce lo dice Nelo Risi, poeta civilissimo, in una sua poesia – “Analogia” -, anche se egli parla di “risiere”, quindi più presumibilmente del caso italiano, dicendo che le persone passandoci davanti si giravano dall’altra parte. Certo, Nelo Risi è un poeta, non uno storico, ma chi conosce la sua poesia sa che è documentatissima. In più sua moglie, Edith Bruck, è una sopravvissuta dei lager, una testimone e, certo, Risi qualcosa più di noi l’avrà saputa…
Ah, per chi non avesse seguito, Graziano è Malatesta, cioè io sono Malatesta, cioè ero Malatesta e sono Graziano, cioè sono tutti e due, ma Malatesta non lo sono più, insomma spero abbiate capito…
Siete pregate di riferirvi a Lynndie England non come a una “troia”, ma come a una troia, senza virgolette. Dice che è incinta. Quindi ora abbiamo anche il figlio di puttana.
Senz’altro. Hai perfettamente ragione. E’ una troia schifosa. E senza virgolette.
chiamare troia la soldatessa, troioni rumsfeld e Cheney, figliodimerda Berlusconi, prendiinculo Blair non mi fa sentire meglio: il turpiloquio è, in questi casi, una troppo generica e quindi compassionevole nomenclatura
Generica senz’altro, hai ragione. Compassionevole, per quanto mi riguarda, NO.
andrea ha ragione, ma purtroppo c’è di peggio: la nomenclatura usata è tutt’altro che generica. naturalmente a nessuno (tranne che a andrea) è venuto in mente di chiamare “troioni” rumsfeld e cheney. “troia” è l’insulto specifico rivolto alle donne per accusarle di avere tradito qualcosa come l’ipostasi del femminile. il corrispettivo maschile è uno, ben preciso: “frocio di merda”. questo linguaggio non è autoritario perché aggressivo, lo è perché aderisce ai valori più reazionari. vedi il sito http://www.mensnewsdaily.com/archive/r/reynalds/04/reynalds050704.htm per una sintomatica accusa da destra: i torturatori di abu ghraib (non i loro capi, e anche questo è sintomatico) sono ovviamente dei froci! non parliamo poi dell’idea che una donna è “troia” perché incinta. io sono molto incazzato con lynndie england – a dir la verità nella videointervista visibile in rete sembra più che altro una povera idiota criminale – ma sono anche abbastanza incazzato con chi come franz e giordano usa questo linguaggio, *cioè queste idee*. dubito che la difesa dei diritti e della democrazia possa venire da voci simili.
Giartosio, a me sembra che tu stia esagerando.
Concordo con te Tommaso e con Andrea, mi sembra una lettura banale e aggressiva, sembra esserci, a mio parere, l’idea che sia l’unica ad aver torturato esseri indifesi. La England più che una prostituta o puttana o donnaccia è una criminale patetica, sadica e perversa oltre che l’incarnazione della banalità del male che nascondendosi dietro l’ obbedendienza a ordini superiori fa parte di un gruppo di criminali torturatori. O ci siamo dimenticati che non era sola? Mi stupisce che persone intelligenti cadano in commenti così banali! L’ombra che è in noi, che fa scattare violenze inaudite non ha nessuna connotazione sessuale, è di nuovo sminuire la portata di una tragedia infame quale è il sopruso sui deboli. Cosa c’entra l’essre troie o froci?
Sono d’accordo con Tommaso Giartosio.
Agli antipodi del “frocio di merda” sta evidentemente l’eroico “vero uomo”.
Mi pare poi significativo (alla faccia della Nazione Indiana!) che Tedoldi si rivolga direttamente e provocatoriamente alle donne che scrivono o leggono qui sopra (“Siete pregatE di riferirVI a Lyndiye non come a una “troia”, ma come a una troia, senza virgolette…”). Non mi sembra casuale nemmeno il suo pesante e del tutto gratuito insulto alla lettrice donna che ha commentato la recensione di Aldo Nove a “Pausa caffè”…
Che dire a Tedoldi? Mah. Superata la doverosa fase della compassione, forse questo:
1) che si capisce subito che il suo racconto su “La qualità dell’aria” è fiction;
2) che abbiamo abbondantemente appurato che lui è un gran duro;
3) che perciò non ha bisogno di sfiatarsi per ripetercele in continuazione (e la storia della fiction, e quella della durezza);
4) che più che un vero uomo (rigorosamente senza virgolette) sembra un individuo veramente noioso.
Donne, Lynndie è roba vostra. Sulla vostra testa. Nelle vostre vagine. State buone. Vi vogliamo bene, ci siete superiori in un mucchio di cose. Ora, anche nelle torture.
L’analisi di Gabriella la condivido, a parte le prime tre righe e il “patetica”.Mi scuso per la banalità, non lo farò più, forse…
Emma, la storia degli”antipodi” è una banalizzazione che non è nelle corde di una donna intelligente come te. O vuoi fare a gara con me in chi è più banale?
Quella, la England è roba nostra, di tutti, uomini e donne.
D’accordo con Tedoldi: donne, vi vogliamo bene.
No Tedoldi non è roba di donne è roba dell’umanità intera la England,è figlia della nostra cultura come anche la violenza maschile… siamo tutti potenziali bestie, uomini e donne. Gli esperimenti della psicologia sociale ce lo insegnano: nessuna differenza di genere tra i mostri che abitano in noi. Per finire non mi sembra che il ruolo della England sia superiore ai suoi compagni di tortura: una cagna tra cani. E’ comunque interessante cosa ha scatenato nell’immaginario collettivo, da secoli tra le donne ci sono le violente, le crudeli, le infanticide, le torturatrici e le avvelenatrici. Perchè mai ci stupiamo? E io come donna dovrei sentirmi responsabile per la scoperta di una nuova criminale? Nulla di nuovo sotto il sole purtroppo, l’umnità si passa la staffetta della violenza di generazione in generazione. E così sia. Ci volete bene? Cominciate a non confondere i piani dei discorsi… sarebbe un buon inizio. Comunque Franz, lo sai che ti voglio bene, mi sono solo stupita della tua entrata un po’ a gamba tesa: non è da te.
ciao
avete bevuito davvero ora innalzate pure peana all’eroismo mercenario (e maschio) dando della troia alla soldatessa.
Deprimente! Quella è una fascista.Troia è la moglie del maiale.
un po’ di cenere sulle vostre teste non guasterebbe
shhh, sono suscettibili qui! non si possono dire queste cose … e poi si sa, l’Iliade insegna: gli eroi sono maschi e la colpa è di quella troia di Elena, mica di quell’imbecille di Paride che fece casino con una mela d’oro che non sapeva a chi dare!
Tedoldi e Franz, cerco di spiegarmi meglio.
1) È chiaro che le donne che torturano sono un fenomeno su cui meditare e su cui anche le donne devono meditare. Ma non si tratta di un fenomeno nuovo; forse sono nuovi i sorrisi compiaciuti e ammiccanti, l’enfasi e l’orrore enfatico propri dell’immagine.
Trasformare la tortura in una questione di “genere” sminuisce le responsabilità di chi ha il bandolo della matassa e diventa una semplificazione fuorviante. Se fosse solo un problema di cromosomi e di costumi sessuali, un qualsiasi individuo di genere maschile dovrebbe accollarsi un gran bel po’ di brutture. E il “Donne, Lynndie è roba vostra…” potrebbe essere specularmente rovesciato un’infinità di volte, mettendo nello stesso mucchio indistinto vaghe responsabilità di “genere” (o di “specie”, allargando il discorso) e precise responsabilità individuali, collettive, politiche. No, troppo comodo.
Il ragionamento di “genere” e sessista va poi benissimo anche a un mussulmano fondamentalista e integralista.
Donna sessualmente liberata (cioè – in termini concreti – donna senza chador a coprire il volto, donna alfabetizzata, ecc. ecc.) = Donna torturatrice, aguzzina e assassina di uomini mussulmani.
È questa l’equazione che potrebbe essere utilizzata dal prossimo regime integralista irakeno. Altro bel paradossale risultato della guerra in nome dell’“Occidente”: le donne irakene si troveranno a dover rimpiangere Saddam.
2) A me personalmente ha colpito – oltre e più della Lynndie che tiene al guinzaglio l’uomo nudo e inerme come si tiene un cane a passeggio per il parco (ma lì lei non ride, anche se ha quella tremenda dissonante aria da ragazzina innocente) – l’immagine della coppietta che sta qui sopra, i fidanzatini ridenti e spensierati che fanno la foto-ricordo, invece che a Disneyland, davanti alla catasta di uomini nudi, osceni e quasi-cadaveri. E perciò mi figuro che le foto di Lynndie ridente e intenta a fare nefandezze ai prigionieri siano scattate proprio dal suo boy-friend…
Insomma – come ha messo in evidenza Gabriella – Lynndie non agisce da sola, agisce in coppia, o in gruppo… E si ha l’impressione che non sia una leader. Si ha l’impressione che sia sì sadica di suo, ma che sia anche una gregaria un po’ stupida; e che magari proprio perché gregaria e stupida e sadica di suo ci tenga a mostrarsi così devota all’ideologia aberrante e agli istinti feroci del gruppo (oltre che agli ordini di servizio).