Un gerundio di venia # 1
di Marina Pizzi
1.
sulla scrivania alla voce lacuna
è nata un’edera così che il tormento
dell’ignoranza superi la ronda
dello steccato faccia scempio
di corsari d’ascia
2.
tortorelle e lucertoline si scamperanno?
dal livore del vuoto comandamento?
in punta di agave ti chiedo
un gerundio di venia per un cerchio
di bontà la nullità del fulcro ludico.
dove sarà convenuto-conveniente
il carattere del vento?
3.
gioiette le derive
i piedi alla bàttima sborniati di sale
fanno i sapienti non formano orme
spassano in spuma seducono stelle
4.
Lotte di confini
unguento d’urlo al sembiante
non un manubrio di cresime capire
le nozze delle sillabe col baro.
5.
si sa che la radura è l’apice dei poveri
di quelli che scalano per non finir d’imbuto
ma comunque perdenti
i denti di latta dentro l’accappatoio
6.
le ore recise, erose
un giorno me ne andrò di pala in frasca
o col sudario al polso
con l’indice vermiglio per più chiederti
la venia del miglio appena fatto
7.
la città costretta in un bavero di stracci
giornalacci nativi allo sterco
comandi stantii la conca del vuoto
un fiumicciattolo di reti le comete
meschine meschine più oltre
la questua di fare singhiozzo
la rotta dispersa la salsa promessa
8.
il dovere della notte
quando ad apostrofo la lesione
è congiunta al mancamento
al digiuno per eclisse
rovello del malsano il diverbio
tra buio e luce
con capoccella di vetri il verdetto
9.
il letto della foce fu l’ossuto
sovrano di canestro senza lancio
sul bavero la goccia dell’addentro
fato al saccheggio bandolo di cieco
coma all’asfalto di tenerti al petto.
10.
premure di soqquadro questo percorso
orizzonte di schianto quale il verbo
al livore. eppure nacque cheto
il rigagnolo espulso dal mare
quale un enigma invece ne visse
cerbottana di tanta borgata
a far secco il sangue senza alberi
le strade sbadate
vuote di baci le scorte
11.
a tutto scapito del tarlo
il ripostiglio del suolo?
retrovia scoscesa lo sguardo
rituale di nessuna visione.
per mosse di animule cose
guardo mia madre responso:
non sono che cieca, mi dice.
12.
l’estate si dilata spugnesca atrocità /
i ventilatori stridono sudori di acque vinte /
così si può l’ho appena riscoperto /
rendersi fantasmi di sé /
cambiare il rettilineo in un sorpasso di stasi /
la scrivania che taglia le braccia /
le genie del vento le nullità del sale /
il sesso come voglia di salvezza /
solo una sagoma di mare capovolto /
un globo di resine al sudario /
13.
ha meditato la ronda ma non basta affatto
la capienza di un tuorlo per capire
il comando despota la deriva in brace
il singulto del cielo brevettato al vuoto.
in un torneo di resine nessuna vincita
incita il malmesso al raccordo col credulo.
14.
il gioco fermo non è stato mai cremato
15.
per smantellare la solitudine
andava da un’amica
quasi ogni giorno nel pomeriggio.
ma non bastava. ma se lo faceva bastare.
la sirena del soccorso passava
sotto casa molto spesso: ogni volta
un pensiero all’abitacolo che
sentiva più che legittimo. tornava
per un altro telegiornale. vaga lena
le coricava il petto.
16.
chiamami al viso e torna più sovente
qui che ti veda fiaccola contenta
qui che lacrime di bilico rasento.
avveri amore un apice
atto vestale stato a compimento.
17.
mangia una cosa cupa
il viottolo infantile la fa pane
18.
ha un cortocircuito nelle vene
dacché lo ha visto
soqquadro appena esile di bacio
scimitarra appena dopo
soqquadro appena forte a far di pugno
la retta appena nata da tanta smania
19.
lontana fissità questo disegno
pagato con il sangue del costato
eppure senza venia né comando
artefice d’inedia a dritta a manca
dolo di cipressi ad ante tempo.
in verità l’invano del protrarsi
sorsetti di ebetudini contiene
gli strappi che tentano alla cima.
così si resta con il pendio al polso
tirati sotto aciduli verdetti
tutti tenuti in nudità di traino.
20.
demolizioni estive questo sudario
ritmico canneto o lebbrosario
vedi tu di vederci vita da consistere
finalmente una risata sazia:
bravura a farsi equilibrista
vincente sulla cedola del dolo
di chiamare gli angeli nonostante
l’àncora del disuso: il perimetro
dannoso ha sconfitto qualsiasi
ricamo di rondine lo stridere
quasi votivo appello questo
omiciattolo l’arsura del sudario
21.
gli occhi te li ha brevettati
un rigagnolo di salsedine:
inganno e compromesso vanno a ruba
da una cavità dell’ultimo mercato
in zona e oltre.
alla guerra non mancherà
il pagliaccio delle esequie.
22.
con un baratto che sembra una reliquia
giocano bimbetti graziati dalla canicola
del rasoterra ad un’altura
di frullo in tanto panico:
la sfortuna del globo borchia acido straccio
dacché le doglie delle donne
le pestilenze delle chele stanno
tutte allo strillo di un cantone d’ascia.
23.
il dolore del sale qui su le chiose
delle lezioni in bilico da sempre
in bilico tra postazioni di ronda
e torti di mercato.
la fede cieca sul far delle rendite
dive d’oltre tentacolo:
quasi risibile il pantano delle donne
atte alle nascite: ma la tenuta d’alba
ancora non basta al tema, qui, del sangue
di sé stracolmo motto
24.
tingere i capelli bianchi è una violenza
sul carico del tempo, sulla paura, sul limbo del soqquadro.
qua l’alunno invece s’innamora
proprio d’inganno e la questione è trita
da per sempre. quale matita correrà l’artista
per distanziarsi un poco? quale bugigattolo
infernale all’altare della paura? perché
questa finestra aperta sembra serrata
sposa di rapina? fin qui non vissi e la tovaglia
vara nel banchetto di ieri a credito. e già
conviene procurarsi cuccia e spalto
di filosofo: la gregaria morte.
25.
sole di lampi intorno
così s’inizia l’alveo
a far gabbiano il palo
scomposto dalla luce:
cerimonia del male l’asfalto
eruzione a panico di rotta:
quale calura inventerà la madre
a luce spenta a non dar più vita.
26.
il crollo della voce nell’afa
è lo sconforto di tutta una vita
predata dalla raffica del buio
in piena luce e spettro. così
quale un cantone effimero di nesso
scorre il dolore resinoso:
tu ti chiami Aurora e io ne rido
bugigattolo di me che sono dopo
da adesso nel sudario che non vedi.
27.
nel fulcro del cercare
la chirurgia del vero
il punto fermo del cemento armato
intorno intorno alla rubrica dello sguardo
salpato per buscarsi il dado tratto
da tutto l’orizzonte. la cometa a zonzo
ha assistito all’assassinio di Epifania
senza coscienza di un contro fato
almeno meno fato! i morsi di nomignolo
formano l’addendo di una grande muraglia
atta tutta quanta alla nomea del dondolo
di allora la madre addosso, addentro.
28.
valzer di resine guardarti
ultimo principe di questo strattone
di tempo di questo strappo ponente nell’occaso
nel sibilo rosso del cratere qui in cortile:
è il richiamo che modula la pertica sul far dell’equilibrio
così per non cadere: dicasi resistenza così senza percorso
la nomea del futile restare
29.
l’arringa della cimasa ronda di rondini
fa giuoco d’enciclopedia la solitudine
di digiuno il rompicapo di resistenza
in stanza da zonzo a zonzo l’anzitempo occaso.
l’aureola della luce non si arrende
né alla pece né al pianto del genitore
torto di colpa la vita che ti tocca
in patria svincolare per l’apolide.
la crepa si dilata nel soqquadro
della sirena insita all’udito.
30.
Identità
in un inferno di pace l’abito borghese
segugio di disperazione la casa
finestre aperte come per infarto
31.
questo sole d’Italia sempre primo
sberleffo d’orizzonte educandato
pessimo. Il campanile rintocca
sull’orlo stradale a pozza d’incidente.
32.
il silenzio non esiste neppure all’eremo
né è sacrario il tarlo di resistere
ombre remote ammodo senza urli
nella penuria che fa da palafitta
la fatica che al davanzale crepa:
l’orto botanico è stato incendiato
già rugiadoso senza panico financo
(Continua. Immagine tratta da: Vita da bohème, di Aki Kaurismaki.)
un caro saluto a Marina, felice di leggere qui il tuo Gerundio. antonella
Estrarsi a sorte nel codice sorgente pieno di vuoti.Curarsi nel sogno di un’illusione impropria,provvisoria o senza tempo.Mi sparpaglio tra numeri stranieri del suo sillabario orientale,amando
‘nel fulcro del cercare
la chirurgia del vero
il punto fermo del cemento armato’
sei grandiosa Marina
DOGLIE DELLE DONNE
Doglie delle donne, nascita, nacque (acqua), leggo con il miragio della poesia di Marina Pizzi, soqquadro di cieca, leggo invece “bara” baro, trattengo il fiato e scopro la vena “la venia” clémence che scava il letto di dolore, il ritorno strego di “scrivania, venia,ascia,soqquadro,sudario”.
Il grembo delle donne tagliato sotto l’ascia, la scimiterra; sguardo inferito dell’estate, troppo lungo estate, il sale, salsedine, sesso, il sale, la bevita della scrittura, deserto, cammino( il viottolo infantile la fa pane), pane mistico della poesia, soglia, doglia dopo soglia, doglia.
Grazie a Franz e a Marina pizzi per questa bellezza.
Sì, ‘perdonando’, certo, questi “corsari d’ascia”, questo “fulcro ludico” e il “vento”: che rompono, modellano il granito della lingua enfiandola e rigenerandola a mal grado della sua (pare) inesorabile dipartita. Una lingua forte, giocosa e libera, qui, che origina mondi inauditi, invece che imitarli. E il lettore è spiazzato, vuole “scuse” per il tempo dedicato, la fiducia mal riposta, il mondo, quello “vero”, per nulla raccontato, rappresentato? La poesia di Marina Pizzi prende con coraggio le distanze da scelte formali forse più convenienti (in linea con decennali strategie volte a canonizzare, rendendoli più redditizi, non solo economicamente, certi percorsi invece che altri). Rispetto alla lingua standard, invece, non c’è “scarto minimo”, ma il divellamento radicale della sintassi ordinaria; le giunture concatenanti i sintagmi, per la costruzione del “senso”, vengono qui spezzate, sabotate; e le parole sospinte e associate, per magia e bizzarria di vento ed orecchio, inusitatamente ad altre. La poesia di Marina Pizzi “resiste”, e rilancia, anche se qua e là inserti di un io cogitante attivano melodie di senso che, riteniamo, non possono che giovare, stemperando la compattezza adamantica dei versi in modo che più sguardi vi si possano affacciare, apprezzandoli come davvero merita.
Giovanni Nuscis
Leggere tutta questa Marina, è un piacere per me: ben diverso dall ‘averne i frammenti, io ritrovo o mi lascio trovare, da un non canzoniere, che oltre al serrato della costrizione nella lingua- propria, alterna una dolcezza che non sapevo, che ci con-vice, insieme.
Brava Marina, e grazie per i tuoi gerundi.. e per questi versi:
“mangia una cosa cupa/il viottolo infantile la fa pane”
Maria Pia Q.