Παίγνιον δ’
trad. di Daniele Ventre
Αἰὲν ἔρημος ὁδί λόφος ἦν φίλος ἠδὲ τόδ’ἔρκος,
ὕσταθ’ὁρίζοντος δέργμασι τόσσ’ἀφελόν.
Ἀλλὰ καθιζόμενος καὶ ὀρῶν ἀνάριθμα κέλευθα
ἔκτοθ’,ἀπάνθρωπον σῖγ’ἀβαθ’ἡσυχίαν,
οἷα φρεσὶν πλάσσων, οὐ δεῖ πολλοῦ γ᾿ἐνὶ θυμῷ
θάμβος ἔχειν. Καὶ ἐγὼν ὄσσαν ἀκουσάμενος
φθεγγομένου τ’ἀνέμου δένδροις πάρα τῇδέ τε φωνῇ
κείνην παρθέμενός γ’ἄβροτον ἡσυχίαν,
αἰῶνος μνήσθην, πάλαι ὡρῶν τ’ἠδὲ παρουσῶν
καὶ τε βιωσκουσῶν, οἷα δοκοῦσι λαλεῖν.
ὣς γὰρ ἐμὸς θυμὸς καταδύσατο τῷδ’ἐν ἀπείρῳ·
ἡδύ γε τοίσδεσσιν κύμασι ναυαγέειν.
Testo originale
L’Infinito
Sempre caro mi fu quest’ermo colle
e questa siepe che da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando interminati
spazi di là da quella e sovrumani
silenzi e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo, ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir fra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando e mi sovvien l’eterno
e le morte stagioni e la presente
e viva e’l suon di lei. Così fra questa
immensità s’annega il pensier mio
e il naufragar m’è dolce in questo mare.
G. Leopardi
Comments are closed.
Perfetto. Leopardi riteneva (come tanti) il greco, più del latino, la vera madre dell’italiano e l’italiano l’unica lingua dotata di infinita plasticità per trans ducere un’altra lingua senza (si badi bene) perderci nel farlo. Andare à rebours dall’italiano (inarrivabile) del Leopardi al greco….
Per quel che ne so io, ed è ben poco, del greco antico si adotta una pronuncia convenzionale. Ora, la traslitterazione si dovrebbe presentare così (secondo un traduttore automatico):
Aién éri̱mos odí lófos í̱n fílos i̱dé tód’érkos,
ýstath’orízontos dérgmasi tóss’afelón.
Allá kathizómenos kaí oró̱n anárithma kélef̱tha
éktoth’,apánthro̱pon síg’avath’i̱sychían,
oía fresín plásso̱n, ou deí polloú g᾿ení thymó̱
thámvos échein. Kaí egó̱n óssan akousámenos
fthengoménou t’anémou déndrois pára tí̱dé te fo̱ní̱
keíni̱n parthémenós g’ávroton i̱sychían,
mémni̱mai t’aió̱nos idé fthitoú i̱dé parónto̱n
i̱dé vio̱skónto̱n oía dokoúsi laleín:
ó̱s gár emós thymós katadýsato tó̱d’en apeíro̱:
i̱dý ge toísdessin kýmasi nav̱agéein.
Il che mi appare un autentico fracasso di versi tronchi e sdruccioli alternati (se giudico secondo metrica accentuativa) che evidentemente richiede, per essere apprezzato, di essere considerato diversamente (oppure di essere ascoltato da Rosario La Ciura, in barca, mentre Lighea glielo decanta). Non essendo io Sasà La Ciura, e non avendo una Lighea nei paraggi, mi chiedo: come devo leggere questa cosa? La domanda sorge (mi sorge) perché non mi riesce di mettere da parte la lettura e il suono dell’originale (italiano) e la ritengo domanda lecita perché non è possibile leggere senza far suonare le parole nella testa (e d’altro canto una poesia è scritta pure per essere letta, mica solo per parlare alle Muse). La domanda sorge pure perché l’originale de L’Infinito NON è la pseudotraduzione del testo greco. In altri termini: qui il gioco svolto negli altri articoli, in cui sono presentati testi mutuati da Guccini, Dalla ecc., non funziona. Pesa troppo, nella sua disarmante semplicità, l’originale.
Questa non è metrica accentuativa, ma metrica quantitativa. Basta semplicemente scandire gli esametri e i pentametri:
scansione metrica verso per verso:
_UU _UU _|| UU _UU _UU _U
_UU _ _ _|| _ UU _UU_
_UU _UU_|| UU_UU_UU_U
_UU _ _ _|| _UU _UU_
_UU _ _ _|| _ _ _ _UU _ _
_UU _ UU_||_UU_UU_
_UU_UU_|| _ _ UU _UU _ _
_ _ _ UU_|| _UU _UU _
_ _ _ _ _ U|| U _UU_UU_ _
_ UU _ _ _|| _ UU _UU _
_ UU _ _ _ || UU_UU _UU_ _
_UU _ _ _|| _UU _UU _
Inoltre la pronuncia reuchliniana non va applicata questo che è dialetto epico (ionizzante) tipico della poesia esametrica ed elegiaca arcaica, va seguita una rigorosa pronuncia erasmiana. Dunque, niente itacismo.
E ripeto: QUESTI NON SONO VERSI ACCENTATIVI, COME ACCENTATIVI NON ERANO PER NIENTE NEMMENO GLI ALTRI DEI PRECEDENTI ARTICOLI: SONO VERSI QUANTITATIVI, A CUI SI APPLICANO LE REGOLE DI ABBREVIAMENTO IN IATO E LO ZEUGMA DI HERMANN (PONTE DEL QUARTO DATTILO).
La lettura metrica è dunque la seguente (sillabe con ictus metrico marcate in grassetto):
Αἰὲν ἔρημος ὁδί λόφος ἦν φίλος ἠδὲ τόδ’ἔρκος,
ὕσταθ’ὁρίζοντος δέργμασι τόσσ’ἀφελόν.
Ἀλλὰ καθιζόμενος καὶ ὀρῶν ἀνάριθμα κέλευθα
ἔκτοθ’,ἀπάνθρωπον σῖγ’ἀβαθ’ἡσυχίαν,
οἷα φρεσὶν πλάσσων, οὐ δεῖ πολλοῦ γ᾿ἐνὶ θυμῷ
θάμβος ἔχειν. Καὶ ἐγὼν ὄσσαν ἀκουσάμενος
φθεγγομένου τ’ἀνέμου δένδροις πάρα τῇδέ τε φωνῇ
κείνην παρθέμενός γ’ἄβροτον ἡσυχίαν,
αἰῶνος μνήσθην, πάλαι ὡρῶν τ’ἠδὲ παρουσῶν
καὶ τε βιωσκουσῶν, οἷα δοκοῦσι λαλεῖν.
ὣς γὰρ ἐμὸς θυμὸς καταδύσατο τῷδ’ἐν ἀπείρῳ·
ἡδύ γε τοίσδεσσιν κύμασι ναυαγέειν.
basta accentare le sillabe in grassetto, che sono le lunghe tonicamente elevate, e il metro c’è. Se si leggono gli accenti non c’è metro. Questo dovrebbe essere ovvio per qualsiasi esperto o presunto tale.
Vorrei che questo ultimo fatto fosse chiaro e non restassero equivoci.
In sostanza, leggendo alla neogreca e per giunta con gli accenti non emerge nessuna metrica, perché lei scambia un testo metrico modello VII-VI sec. a. C. con un testo accentativo modello greco-medievale, non rendendosi conto che l’uso di forme eoliche marcate come τοίσδεσσιν e dei dativi non è compatibile con la sua lettura modernizzante. La metrica c’è: è quella del distico elegiaco. Quello di Mimnermo, non quello dei rifacimenti moderni.
Grazie, grazie, infinitamente grazie.
C’è una ragione per cui «ἡσυχία» è nel testo con ispirito dolce? Caro Daniele, ti vogliamo piú spesso sui classici che sulle canzoni.
La ragione è data dalla mia incertezza sul dialetto, se applicare fino in fondo la psilosi del dialetto ionico antico con epicismi che ho usato qui, oppure seguire una dizione atticizzante.
Lo congetturavo, ma solo incertamente, per nozione ginnasiale: ti ringrazio d’aver risposto. Ti sei però risolto a cambiare, alla fine… Devo sentirmi in colpa?
No anzi ti ringrazio, meglio uniformare.
ἡδύ γε τοίσδεσσιν κύμασι ναυαγέειν.
Che piacere indefinito! Grazie Daniele
Danie’, lasciatelo dire, sei fantastico!
Aspettiamo le prossime! Curiosità da profano: fino a che punto è «filologicamente legittima» la commistione d’ionico atticizzante, epicismi e l’eolismo pomposissimo dell’ultimo verso?
Se si leggono le pagine dello Zibaldone sull’edonismo linguistico di Leopardi in materia di parole arcaiche (paragonata alla frutta conservata sotto cera, fuori stagione), si capisce anche il perché del dativo plurale τοίσδεσσιν.