‘O Strega! : Come fossi solo (Giunti) di Marco Magini
di
Francesco Forlani
(Nota al primo dei dodici romanzi candidati al Premio Strega 2014)
Alle volte mi sembra che un’epidemia pestilenziale abbia colpito l’umanità nella facoltà che più la caratterizza, cioè l’uso della parola, una peste del linguaggio che si manifesta come perdita di forza conoscitiva e di immediatezza, come automatismo che tende a livellare l’espressione sulle formule più generiche, anonime, astratte, a diluire i significati, a smussare le punte espressive, a spegnere ogni scintilla che sprizzi dallo scontro delle parole con nuove circostanze.
(Italo Calvino, Lezioni americane, Garzanti, Milano, 1988, p. 58)
Quando ho terminato la lettura di Come fossi solo, il primo autore che mi è venuto in mente è stato Italo Calvino e precisamente il passaggio che ho messo qui in esergo, tratto dal suo migliore libro, Lezioni americane. Nella terza, intitolata, Esattezza, scrive dell’approssimazione come di una peste, forse il male peggiore che possa accadere al linguaggio ed è proprio su questo segmento, esattezza-approssimazione, che vale la pena posizionare il lavoro d’esordio di Marco Magini, che tra l’altro, come recita la bandella in copertina, del Premio Calvino è stato finalista nel 2013. In molte delle recensioni lette, la parola che ricorre di più è coraggio e a seguire reportage; la prima, per sottolineare la presa di rischio da parte del giovane autore nel volere raccontare un conflitto complesso come quello scoppiato nei territori dell’ex Jugoslavia tra il 1991 e il 1995; la seconda per “proteggere” l’opera da qualsiasi critica relativa alla veridicità dei dettagli dei fatti raccontati, specificando che si tratta di un romanzo e non di un saggio storico. La domanda che mi sono posto è stata a questo punto: può esserci coraggio se non c’è verità? E se un romanzo ha diritto alla sua propria verità rispetto a quella conclamata nei libri di storia o nell’insieme di fascicoli, articoli, testi che vanno sotto il nome di documenti, cosa ci farà dire di un libro che è un vero romanzo o meno?
Molti sono gli spunti interessanti in questa narrazione e per quanto giovane, Marco Magini dimostra una vera maestria nella composizione del racconto, a tre voci; quasi sempre in perfetto timing e con una prosa elegante, sobria riesce a portare il lettore attraverso i diversi mondi, immaginari o meno delle tre maschere del dramma: un casco blu olandese, un soldato serbo e un giudice spagnolo. I primi due raccontano in soggettiva i fatti terribili nel luglio del 1995 a Srebrenica, eccidio che accade loro malgrado o grazie a loro, sotto gli occhi impotenti della comunità internazionale. Il terzo, il più delle volte descritto e raccontato alla terza persona, si concentra sul caso del soldato Dražen Erdemović unico reo confesso dell’eccidio. Il tema che sovrasta l’opera è quella del male radicale e come sia possibile, ove possibile, stabilire l’innocenza degli uni rispetto alla colpevolezza degli altri, quando la linea che dovrebbe demarcarne i terrritori si fa sottile prima di scomparire del tutto.
A più riprese l’autore descrive Dražen Erdemović attraverso le parole dello stesso soldato come quello “dalla terza divisa”. La prima era stata indossata quando ancora esisteva l’esercito jugoslavo, la seconda appena “sfiorata” da arruolato nell’esercito croato all’inizio del conflitto con la Serbia, e la terza inscrollabile quella delle forze serbe impegnate in Bosnia. Il romanzo delle tre divise, potremmo dire a questo punto riferendoci ai tre personaggi, accomunati ancor prima che dal bisogno di sapere chi ne fosse stato responsabile veramente, dal perché quelle cose poterono accadere. E proprio in una delle descrizioni del giudice, l’autore ci racconta come Romeo Gonzalés senta la propria divisa:
“Il fastidio è un vestito che non hai scelto, un vestito che non senti tuo. Lunga, troppo lunga, continuava a trovarsela fra i piedi. Non gli avevano mai fatto indossare una toga così prima di allora. Che fosse un materiale diverso dal solito? C’era qualcosa in quel tessuto che gli faceva venire voglia di grattarsela via”
Divise o uniformi? Cherchez l’erreur
“Uniforme” si chiama quella che portano: potesse essere non “uniforme” ciò che si nasconde sotto di essa!
Di tutti gli aforismi di Friedrich Wilhelm Nietzsche è quello che ho sempre amato di più. Ce lo avevo annotato nel diario quando ero in collegio militare perché raccontava meglio di qualsiasi altra cosa quello che accade quando si indossa un’uniforme. Il limite di questo romanzo, secondo me, sta proprio in questo passaggio dalla divisa all’uniforme; a partire dalla copertina, in cui si vede, com’è stato notato dal Manifesto, un soldato russo durante il conflitto in Cecenia. Ma non eravamo in Jugoslavia?
Affidare all’uniforme di un soldato russo il compito di raccontare fatti di altri soldati e di altre guerre sembra suggerirci che la tesi di fondo del romanzo prenda a prestito dalla realtà una storia privandola della sua specificità, di quell’hic et nunc che determina un qualsiasi tipo di fatto realmente successo; la precisione diventa un’ opzione cui si può rinunciare senza che l’impalcatura della storia venga giù alla maniera di un castello di carte alla prima corrente. Così quando leggiamo in nota che a Srebenica vennero uccisi tra gli ottomila e i diecimila musulmani bosniaci perché non alzare timidamente il dito come a scuola e fare notare che le vittime furono 8.372, con tanto di nome, cognome e causa del decesso? Del resto la bibliografia essenziale posta a fine romanzo più che essenziale mi è sembrata scarna, ai limiti dell’insignificanza. E infatti perché una bibliografia ?
Il vero problema però lo incontriamo proprio nell’uniformità delle voci e dunque sul terreno letterario. Che si tratti dell’uno o dell’altro, i tre personaggi parlano la stessa lingua. Come se fossero interscambiabili e relegando le psicologie di ognuno in una sorta di limbo di cui nulla è dato oltre le descrizioni che ne sono fatte.
Come lettore accade così di confondersi in più punti, per quanto l’autore si sforzi di colorare i timbri di ciascuno in modo da renderle riconoscibili. Non si tratta della deliberata Plateforme alla Michel Houellebecq, tanto per fare un esempio, ma di una normalizzazione linguistica a parer mio sintomatica di un’idea di letteratura molto in voga ai nostri giorni. La Peste “uniformizzante” è ormai tra le mura della cittadella delle lettere?
Che tale rischio potesse esserci lo avevo sentito già dalla prima pagina. Dirk, l’olandese, dice: ” Ha affogato nel deodorante l’odore di vomito di ieri sera”. Certo il vomito ha un odore, le rose hanno un odore, un buon piatto di pasta, una casa, un morto hanno un odore. La parola odore agisce da deodorante sulle cose anche perché nell’epoca del radical kitsch in cui viviamo, non sono tollerate parole che dicano di più, che dicano meglio e con più precisione. Tutto deve essere inodore allora e se non lo è bisogna fare in modo che le cose si neutralizzino, perché solo una volta neutralizzate si potranno mangiare e digerire, come un trauma, o una guerra. Ecco perché ci sembra poco incisivo se confrontato all’immenso Limonov di Emmanuel Carrère e particolarmente al capitolo VI, Vukovar-Sarajevo, in cui con un’abilità e acume quasi irritante il romanziere spariglia le carte sul tavolo della storia, di come viene raccontata in occidente, a cominciare proprio dalle uniformi in campo: “Nell’ex-Jugoslavia le guerre non sono state mai, o quasi mai, combattute da eserciti regolari, bensì da milizie”. Se non ci sono uniformi, blocchi di popoli, tribù e governi, diventa ancora più complesso stabilire in che modo la responsabilità individuale in una strage si disegni e su un piano più generale capire la fondatezza o meno di quanto la lavagna mediatica dei buoni e dei cattivi, bosniaci da una parte e serbi dall’altra, avrebbe raccontato di quanto accadeva in quell’umida aula di periferia dell’occidente. Emmanuel Carrère descrive così questa impasse del giudizio, irretito da un “Sì” e da un “No”; “oui, c’était plus compliqué que ça” da una parte e dall’altra ” Non, ce n’est pas plus compliquée que ça, c’est au contraire tragiquement simple.”
In conclusione a me sembra che al romanzo di Marco Magini manchi proprio il senso del tragico, la dimensione autentica della colpevolezza necessaria ed è per questo che manca il suo obiettivo. Del romanzo di guerra, poco importa quanto storico o immaginario, rimane allora ben poco come se la neutralizzazione delle eccedenze, la de-odorantizzazione, attraverso il linguaggio, delle esperienze ci lasciasse tra le mani qualcosa di terribilmente vuoto, impreciso, approssimato.
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“nessuno siede dalla parte della ragione abbastanza a lungo da lasciare sul divano l’impronta del suo sommo culo”, scriveva Babsi jones in Sappiano le mie parole di sangue sugli stessi argomenti, non senza una certa precisione