Viaggio in Argentina # 12
di Antonio Moresco
Laura racconta, mentre facciamo colazione a casa sua, la mattina dopo, che a Santiago del Cile, ci sono delle figure che vengono chiamate «i rospi».
I rospi
Fermi al centro delle enormi strade a molte corsie che corrono da una una parte e dall’altra, nel traffico così impazzito che a volte bisogna prendere il taxi per andare al lato opposto della strada senza venire investiti dalle ondate delle macchine e dalle valanghe degli autobus delle varie compagnie private in concorrenza tra di loro anche sulle stesse tratte, hanno il compito di segnalare agli autobus della propria compagnia i tempi di passaggio sulla stessa tratta degli autobus delle compagnie concorrenti, in modo che questi si possano regolare se gli conviene accelerare oppure rallentare per raccogliere un maggior numero di passeggeri. Nel rumore assordante e nel traffico impazzito, devono continuamente saltellare qua e là per non venire investiti, fanno segni muti con le braccia e la bocca per farsi capire e per questo vengono chiamati «i rospi».
Io e Giovanni abbiamo portato l’alfajor avanzata dal nostro pasto notturno lungo la ringhiera, al ritorno da Santa Fe. Tiro via la carta. Ne addento una fetta. Dopo un po’ mi accorgo che ne esce una formica. La schiaccio e riprendo a mangiare. Terrorizzate dal massacro operato dai miei denti in quegli strati friabili di meringa e dulce de leche, escono una dopo l’altra molte formiche, dai piccoli buchi, dai crepacci dolci. Le schiaccio una dopo l’alta e ricomincio a mangiare. «È finita la pacchia!» gli dico timbrandole sul bordo del piatto. Laura afferra la torta e va a buttarla nell’immondizia. Io penso alle formiche che continueranno a banchettate là dentro, chi se ne frega per quanto, finché i denti dei cartoneros che troveranno quel ben di Dio in un sacco delle immondizie ci affonderanno dentro estasiati.
Guardiamo una cassetta amatoriale su Gombrowitz, che Laura è riuscita a procurarsi in una libreria attraverso un passaparola di amici. Ci sono alcuni degli scrittori che ho conosciuto, come Dal Masetto, che allora erano ragazzi di vent’anni. Parlano dell’impressione che faceva loro questo strano nobiluomo polacco finito lì in Argentina, impeccabile e azzimato anche nella miseria, che diceva loro «voi siete dei ragazzini e io sono un genio», che girava ai matrimoni dei connazionali che abitavano a Buenos Aires per rimediare qualcosa da mangiare, che andava di notte alla stazione del Retiro e che litigava con Borges…
Impressione di uno straordinario e potenziale paese bloccato da tutte queste strutture ideologiche nazionali, militari, oligarchiche, nonostante sia uno dei maggiori produttori di carne al mondo, e di grano, di soia, e nelle sue viscere ci sia petrolio, metano… Arroganza e malinconia e senso di morte, come nel loro emozionante tango, una danza stilizzata di coito e di morte tra due grandi insetti di carne imbrillantinati.
Com’è possibile che un paese così ricco sia finito così, stritolato da presunte leggi economiche internazionali e dalla spaventosa avidità ed egoismo delle classi dirigenti ed oligarchie locali? Un paese prima mandato in fallimento e poi strangolato, privatizzato, svenduto. All’estero i giornali parlano dell’Argentina solo quando ci sono le manifestazioni violente, gli assalti ai supermercati, i morti. Non parlano della tragedia di tutti i giorni. Forse si capirebbe che – stando così le cose – potrebbe succedere lo stesso anche altrove. Siamo proprio sicuri, ad esempio, che non potrebbe succedere la stessa cosa anche in Italia?
È in corso la campagna elettorale, in questi giorni. I tre candidati che hanno maggiori possibilità sono tutti e tre peronisti, uno di destra, uno di sinistra e uno di centro, compreso il vecchio Menem che già tanti disastri ha causato a questo paese. Gira per la campagna elettorale con un gruppo di suonatori che cantano sempre la stessa canzoncina durante i comizi. Ha appena fallito l’inseminazione artificiale con la sua nuova donna, annunciano i giornali a tutta pagina. Vorrà dire che dovrà fare manovella un’altra volta…
Gli scrittori e poeti argentini mi sembrano un po’ troppo innamorati della letteratura. Non è una cosa buona, non bisognerebbe essere innamorati della letteratura in quanto tale.
Percepisco ovunque l’ingombro castratorio di Borges, di cui pure non metto in dubbio la grandezza, che ha saputo rappresentare come nessun altro a livello poetico universale l’impasse epocale della cultura e delle élite letterarie alla fine del Novecento, e la funzione e il ruolo castale del letterato colonizzato-coloniale nella tarda modernità. Ma in mezza pagina del Don Chisciotte c’è già tutto Borges, più tutto il resto…
Molti scrittori hanno preso tutto o quasi tutto da Borges, come Calvino, ad esempio, da un certo punto in poi, però tutto divulgativamente, tutto banalizzando, nella piccola forma commercializzabile del raccontino, del romanzino, di facile digestione e gradita alle élite intellettuali acculturate di questa epoca. Perché Calvino, che aveva anche una moglie argentina, conosceva bene i libri di Borges, ci aveva detto Enrique a Santa Fe. Eppure, o forse proprio per quello, gli ha dato il via libera in Italia solo all’ultimo momento, quando ormai era passato in Francia e se ne parlava già molto in Europa, mostrandosi a quel punto come il suo maggior estimatore e paladino anche da noi. Io non lo so se questo è vero, ma se fosse vero sarebbe in linea con l’accortezza editoriale sempre dimostrata da Calvino nella costruzione e gestione della propria immagine letteraria in una situazione bloccata e dominata dall’operazione editoriale e mediatica, nella quasi generale abdicazione alla radicalità e alla dignità e al movimento da parte di enormi schiere asservite di scrittori, professori, critici, giornalisti…
Una volta, con Carla Benedetti, si parlava delle immagini ideologiche della tarda modernità: il labirinto, il gioco di specchi, il bricolage, Borges, Calvino… Io le dicevo che a me sembrava che Borges fosse comunque tutt’altra cosa rispetto a Calvino, che nel suo labirinto ci fosse comunque il Minotauro. «Sì» mi ha risposto Carla, «nel suo labirinto il Minotauro c’è. Il Minotauro di Borges è il tempo».
Buenos Aires di notte. Io e Giovanni andiamo a vedere, dietro la Casa Rosata protetta dalle inferriate, il monumento a Cristoforo Colombo, sul cui marmo ci sono ancora i colpi di arma da fuoco esplosi durante gli scontri.
(Continua…)
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Pubblicato su “Fernandel” 1/2004 – gennaio/marzo 2004. La foto è di A. Moresco.
Caro Antonio Moresco…non riesco a trovare su Frenandel 1/2004 il racconto che oggi hai pubblicato…cmq…mi stai facendo un grande regalo con le tue descrizioni dal mio ultimo viaggio in Argentina nell’agosto 2003…grazie elvis
Eppure su Fernandel 1/2004, pag 26, c’è. Forse l’equivoco è sul titolo, che sulla rivista è “Le prove 5” (è il titolo della rubrica).
grazie per l’informazione…