Ascensione
di Dario Voltolini
“Spem in alium nunquam habui / praeter in te , Deus Israel, / qui irasceris, et propitius eris, / et omnia peccata hominum / in tribulatione dimittis. / Domine Deus, creator coeli et terrae, / respice humilitatem nostram.” (In nessun altro ho riposto la mia speranza / se non in te, Dio d’Israele, / che prima ti adiri, ma poi sarai benevolo, / e tutti i peccati degli uomini / rimetti attraverso la sofferenza. / Signore Dio, creatore del cielo e della terra, / considera la nostra misera condizione. [trad. di Franco Grassi]).
Forse per competere con il nostro Alessandro Striggio (padre), autore di un mottetto per 40 voci (Ecce beatam lucem), forse per festeggiare il 40esimo compleanno della Queen Elizabeth I (1573), o addirittura (al contrario) in onore della Queen Mary, Thomas Tallis compose un sovrumano mottetto per 40 voci, distribuite a cinque a cinque in otto cori: Spem in alium.
Il 5 dicembre dell’anno 2000 il Salisbury Cathedral Choir esegue il mottetto nella cattedrale da cui prende il nome. Ciascun cantore ha un microfono personale che registra la sua voce, per un totale di 40 registrazioni individuali eseguite contemporaneamente durante l’esecuzione collettiva.
A Ottawa, in Canada, al termine dell’inverno del 2001, nella Rideau Chapel della National Gallery, quaranta casse acustiche sono disposte come un coro e ciascuna canta con la voce prelevata a un cantore di Salisbury l’anno prima.
Al Museo d’Arte Contemporanea del Castello di Rivoli, mentre finiva la primavera del 2003, mi sono trovato al centro dello spazio perimetrato dalle quaranta casse acustiche, nere, montate su supporti che le collocavano a una media altezza d’uomo.
Dobbiamo al genio di Janet Cardiff questa installazione, questa idea. Questa semplicissima, profonda intuizione. Con la collaborazione di George Bures Miller e Steve Williams.
Aboliti i corpi umani dei cantori, le sorgenti sonore sospese fra una tale spaventosa assenza e la propria fisicissima presenza acustica (che vale contemporaneamente come una testimonianza, coimplicando presente e passato in un nodo terribile) emettono le linee sonore del mottetto. Noi camminiamo dentro il suono, ora indugiando, ora avviandoci con decisione verso una cassa, un gruppo di casse. Avviciniamo l’orecchio alla sorgente puntiforme, distinguiamo perfettamente la linea cantata da quella voce, tutte le altre come fattesi da parte a sussurrare. Distinguiamo per la prima volta le parole, nel ribollire del coro. Distinguiamo con un brivido la parola “Israel”, ma il motivo del brivido ci resta alieno. Possibile che qualcosa di ancestrale sia rimasto in noi, fino a questo punto? E, in fondo, noi chi?
La cassa ammutolisce, continuano le altre, un gruppo di cinque là in fondo. No, riprende la cassa qui vicino, è la voce di un ragazzo. Non si riesce a star fuori dall’illusione della purezza, e quindi per un lungo tempo non c’è altro che purezza, che sia un illusione non appare nemmeno osservando attentamente l’oggetto in sé: un mobiletto nero in cima a un tubo di metallo.
A poco a poco le voci crescono. Ci spostiamo inseguendo la successione degli attacchi, ipnotizzati dalle mescolanze del suono mentre converge su di noi. L’intelligibilità delle voci singole e l’indipanabilità del coro nel suo insieme lottano in qualche posto di noi che non è già più l’orecchio. Le voci scorporate salgono nell’aria vibrando in mutue configurazioni, a gruppi, a coppie, tutte insieme, in movimenti frontali, qualche volta. Più spesso producono curvature, controparti acustiche della figura composta dalle casse nella grande sala, che nessuno avverte più come sala, perché si è dilatata, o forse noi ci siamo compressi. Intanto il volume monta, complesso. Un corpo fatto di elementi senza corpo prende a poco a poco forma, inarrestabilmente.
Ora le vibrazioni che si sciolgono nell’aria sono anche sufficientemente potenti da premere sul nostro corpo, come un tremolo che pulsa rapido sulla pelle, soprattutto sugli avambracci. Quando il pieno si sviluppa, comincia a vibrare anche la nostra cassa toracica. Non c’è tempo, né modo, di constatare il parallelo fra le casse acustiche e la cassa toracica: viene in mente solo in seguito, ricordando l’eperienza accaduta. Ma, mentre sta accadendo, c’è solo la possibilità di entrare in vibrazione anche noi con il coro dei non corpi. Con il nostro corpo.
Può darsi che accada qualcosa di simile a quando, galleggiando in mare, inspiriamo a pieni polmoni e avvertiamo immediatamente la spinta archimedea verso l’alto farsi più viva. Consonando con questo coro attorno, la cassa toracica si dilata, forse, e inspiriamo con meno sforzo del solito, provocando non si sa dove in noi la sensazione di essersi alleggeriti. L’aria trasformata dalle voci preme su di noi, ci solleva con leggerezza. La nostra attenzione si libera dalla volontà, considera i luoghi da cui arriva il suono angolandosi come le pare. Ora mi vengono in mente gli ultrasuoni con cui la medicina attuale sgretola i calcoli annidati nei nostri corpi: trovo una zoppicante ma istruttiva analogia fra la distruzione dei calcoli in quanto pietruzze e il disfacimento dei nostri calcoli in quanto procedimenti mentali che l’installazione della Cardiff (o Tallis in persona?) sta operando sull’ascoltatore ormai confuso, lucidamente frastornato.
Qualcosa di ingiustificabilmente simile alla gioia prende lentamente possesso dell’aria in tensione. Ci avviciniamo alle singole casse come volendo perfezionare la conoscenza con il singolo cantore, che non abbiamo mai visto, che non vedremo mai, che non potremo mai vedere. La voce tuttavia parla a noi, singola voce a singolo ascolto. Le voci salgono in verticale, come le colonne in cui il suono deve aver riverberato, anche durante la registrazione, e comunque ogni volta che, nel corso dei secoli, Spem in alium ha aperto le sue ali senza peso.
La corrente ascensionale, priva di temperatura, ma forte, virile e femminile insieme, sintetizzando pressione e allucinazione, ci solleva, contemporaneamente abolendo di tutta la sala ogni parete, e adesso il pavimento. Quale insegnamento andiamo cercando ora da questa, ora da quella voce? Sappiamo che non parlano, cantano.
Intuiamo fievolmente l’orgasmo antico, lontano, che innerva questa voce giovanissima. O quello intrattenibile del basso che sommuove, quello inestinguibile degli acuti che scivolano alti nella luce, incurvandosi, distendendosi in archi flessibili, profumati. La tristezza infinita che ci accompagna in questa mescolanza con i senza corpo è fatta di oblique consolazioni, promesse indecifrabili, garanzie liquefatte. Per quanto esprimibili in Hertz, le frequenze che disseppelliscono fibre latenti del nostro corpo, della mente, e persino dello stupore si presentano qui come non misurabili, semplici qualità. La freschezza della donna, la trasparenza del ragazzo, la permeazione dell’uomo. La scala che dal granito porta al marmo, all’alabastro, al cristallo, al niente.
Una forza diversa da quelle demolitrici, separatrici che ci hanno sfarinati nell’onda sonora è potentissimamente al lavoro, riprende filamenti che volteggiavano alla deriva, riunisce veli strappati, aderisce, riforma, traduce. Ritesse, trasforma (“qui irasceris, et propitius eris“). Permaniamo nello spavento della perdita del nostro corpo, ma inaspettatamente (o forse dopo un’attesa infinita, di cui abbiamo perso ogni ricordo) riceviamo un compenso: c’è un punto in cui trascendere è ascendere? Se c’è, è questo. Trascendenza come ascensione.
Dove, quando, come lavorano queste figure incontrollabili, l’immagine della salita, del volo verso l’alto, in questa accezione di cielo che è in su, non attorno, nemmeno a coprire, nemmeno là. Semplicemente e incontrovertibilmente su. Quali forze ultrarchimedee producono una tale esaltazione in risposta all’annichilamento (“humilitatem nostram“)? Quale conoscenza possiamo mai avere noi di una luce che cresce mentre noi saliamo dentro di lei? Eppure.
Spem in alium curva, fa una schiena larga come il mare, finisce. Il gesto che ci ha alzati, sbriciolandoci e riplasmandoci, finisce: è durato dieci minuti. Per inerzia ci affacciamo, ancora spinti, sulle cose. Dove siamo lo sappiamo, dove siamo stati no.
Analisi che condivido. Io, dopo aver letto un po’ di blog per qualche mese, sto cercando di fare un tentativo nella direzione che auspicavi tu… almeno ci provo!
Grazie per questo articolo. Non so niente di te, ma conosco bene lo Spem in alium e mi sono venuti i brividi leggendo. Sono corso a mettermi le cuffie e a riascoltare il brano. Spero di riuscire a fare un salto al Castello prima che finisca la mostra. Bello quando la scrittura sa tradurre la musica in parole. Forse non c’è complimento migliore che potrei farti.