Della serie: Black Mirror
Black Mirror, o della memoria
di
Paolo Valoppi
Ho cominciato a vedere Black Mirror con due anni di ritardo. In Inghilterra era stato trasmesso per la prima volta il 4 dicembre 2011, in Italia il 10 ottobre 2012. Io l’ho scoperto nel 2013, lo stesso anno in cui Robert Downey Jr opzionava uno degli episodi della serie – The entire history of you – per produrne un thriller di fantascienza.
Ogni puntata di Black Mirror ha un cast, una storia e uno scenario diversi, e The entire history of you (in italiano banalmente ridotta a Ricordi pericolosi) ha come tema centrale la digitalizzazione della memoria: gli uomini, mediante un chip applicato dietro l’orecchio, registrano tutto quello che fanno, vedono e sentono; ogni ricordo della loro vita può essere rivissuto istantaneamente, proiettato su un monitor oculare che ricorda – in versione avanzata e soprattutto molto più efficiente – lo schermo e la tecnologia dei google glass.
Senza entrare nei dettagli della trama (un giovane avvocato sposato con una bella moglie scopre, con l’aiuto del chip della memoria, che lei lo ha tradito con un suo ex fidanzato e va fuori di testa), l’idea che dà vita a questo episodio esamina da vicino il rapporto tra uomo e tempo, tra irreversibilità del vissuto e riproducibilità dei ricordi, immaginando, nelle sue conseguenze più estreme, che l’intera esistenza di una persona possa essere rivissuta, o meglio rivista, in ogni suo singolo frame, in ogni suo ricordo più remoto (“Tutti noi passiamo in rassegna i chip alla ricerca dei momenti migliori per rivedere qualche oscenità ogni tanto”). La memoria umana, nella sua fallibilità e approssimazione, viene ridotta a “strumento” obsoleto e imperfetto: in una scena dell’episodio, durante una cena, una ragazza rivela di non avere il chip della memoria e tutti i commensali rimangono sbalorditi (“La tua è una scelta politica?” “Il punto è che dopo qualche giorno dall’estrazione, vivere senza chip mi è piaciuto”). La portata di questa potenziale innovazione, di questa ennesima rivoluzione/evoluzione tecnologica, è immensa. A questo proposito, è interessante riprendere le parole con cui Walter Benjamin affronta il discorso della memoria volontaria e involontaria in Proust:
«Lo stesso vale per il nostro passato. Vanamente cerchiamo di rievocarlo; tutti gli sforzi del nostro intelletto sono inutili». Per cui Proust non esita ad affermare, in conclusione, che il passato è «al di fuori del suo potere e della sua portata, in qualche oggetto materiale (o nella sensazione che questo oggetto provoca in noi), che ignoriamo quale possa essere». […] È affidato, secondo Proust, al caso che il singolo acquisti un’immagine di se stesso, che diventi signore della propria esperienza.[1]
In The entire history of you l’uomo diviene “signore della propria esperienza”, il passato non è più “al di fuori del suo potere e della sua portata” e ogni ricordo può essere costantemente rievocato. Dal momento che il processo di riproduzione dei ricordi è affidato ad un chip elettronico e non più al cervello umano, a uscirne demolita è la memoria cerebrale intesa come capacità psichica di riprodurre nella mente l’esperienza passata. Come se il Marcel de La strada di Swan, nel portare alle labbra la “sorsata mescolata alle briciole della madeleine” e nel rievocare improvvisamente le mattine domenicali a Combray quando la zia Leonia gli offriva il dolce inzuppato nel tè, potesse disporre di una videoriproduzione esatta di quell’episodio della sua infanzia e riviverlo infinite volte grazie a un minuscolo chip. Non ci sarebbe stata nessuna memoria involontaria. Non ci sarebbe stata nessuna Recherche.
A tale riguardo, a ricordarci di come l’uomo non possa memorizzare tutto – pena il rischio di essere schiacciato dal peso dei propri ricordi – è un racconto di Borges contenuto in Finzioni, dal titolo Funes, o della memoria, in cui si dà sostanza a una riflessione sulle incertezze e i limiti della memoria umana. Ireneo Funes, “precursore dei superuomini”, in seguito a una caduta da cavallo e alla conseguente paralisi, costretto a trascorre molte delle sue giornate nell’oscurità della sua stanza, sviluppa una percezione e una memoria infallibili: “Poteva ricostruire tutti i sogni dei suoi sonni, tutte le immagini dei suoi dormiveglia. Due o tre volte aveva ricostruito una giornata intera; non aveva mai esitato, ma ogni ricostruzione aveva chiesto un’intera giornata. Mi disse: – Ho più ricordi io da solo, di quanti non ne avranno avuti tutti gli uomini insieme.” Le portentose capacità mnemoniche di Funes lo rendono un “Zarathustra selvatico e vernacolare”, ma ogni suo ricordo sottende uno sforzo doloroso poiché: “Funes discerneva continuamente il calmo progredire della corruzione, della carie, della fatica. Notava i progressi della morte, dell’umidità. Era il solitario e lucido spettatore d’un mondo multiforme, istantaneo e quasi intollerabilmente preciso.”
Il Funes di Borges prova a fare, contando solo sulle sue capacità di memorizzazione, quello in cui Liam Foxwell – il protagonista di The entire history of you – riesce grazie all’ausilio di un dispositivo elettronico. Ma così facendo egli forza la natura e i suoi limiti ed in tal senso l’immobilità fisica di Funes, dopo l’incidente, si trasforma in immobilità di pensiero: “Aveva imparato l’inglese, il francese, il portoghese, il latino. Sospetto, tuttavia, che non fosse molto capace di pensare. Nel mondo sovraccarico di Funes, non c’erano che dettagli, quasi immediati […] Questi, non dimentichiamolo, era quasi incapace di idee generali, platoniche.” Il controllo di ogni singolo dettaglio del suo passato e le infinite possibilità della memoria, condannano Funes alla totale incomunicabilità verso il prossimo, alla generale incomprensione del senso della vita.
In molte delle puntate di Black Mirror il rapporto tra uomo e tecnologia decreta il dominio schiacciante di quest’ultima sulla società moderna; in una sorta di dittatura dello spettacolo, di ascesa del virtuale, di ipertrofico controllo della propria immagine e dei propri ricordi, è come se il racconto di Borges ci ricordasse come una memoria sconfinata, una memoria artificiale (e così anche l’efficientissimo chip di Black Mirror), impedisca all’uomo di stabilire un rapporto con il proprio tempo e il proprio spazio, con la finitezza della propria esistenza; quella finitezza che lo stesso Borges, in una splendida poesia intitolata appunto Limiti, rievoca in tutta la sua sfuggevolezza e ineludibilità:
Di queste strade che scavano il tramonto,
una ci sarà (non so quale) che ho percorso
già per l’ultima volta, indifferente
e senza indovinarlo, sottomesso
a Colui che prefigge onnipotenti norme
e una segreta e rigida misura
alle ombre, ai sogni e alle forme
che intessono e che stessono questa vita.
Se per tutto c’è termine e punto fermo
e ultima volta e mai più e oblio,
chi ci dirà a chi, in questa casa,
senza saperlo abbiamo detto addio?
Dietro il vetro ormai grigio la notte cessa,
e in quel mucchio di libri che una tronca
ombra dilata sulla vaga tavola
qualcuno ce n’è che non leggeremo mai.
C’è verso Sud più di un cancello logoro
con i suoi vasi di cemento e sabbia
e fichidindia, che al mio passo è vietato
come se fosse una litografia.
Per sempre hai richiuso qualche porta
e c’è uno specchio che ti attende invano;
il crocevia ti sembra aperto
e lo vigila il quadrifronte Giano.
Fra tutti i tuoi ricordi ce n’è uno
che si è perduto irreparabilmente;
non ti vedranno scendere a quella fonte
né il bianco sole né la gialla luna.
Non tornerà la tua voce a quel che il persiano
disse nella sua lingua di uccelli e di rose,
quando al tramonto, davanti alla luce sparsa,
vorrai dire cose indimenticabili.
E l’incessante Rodano e il lago,
tutto quello ieri sul quale oggi m’inchino?
Perduto sarà ormai come Cartagine,
che a fuoco e sale cancellò il latino.
Credo nell’alba di udire un operoso
tramestio di folle che si allontanano:
tutti quelli che mi hanno amato e dimenticato;
già spazio e tempo e Borges mi abbandonano.
da Limiti (L’altro lo stesso, 1964, Poesia ’23-’76, Rizzoli, traduzione Livio Bacchi Wilcock)
[1] Walter Benjamin, Angelus Novus – Saggi e frammenti, Milano, Einaudi, 1982, pp. 91-92 (ed. or. Frankfurt 1955).
IL testo è molto bello, complimenti all’autore. Tuttavia, nell’articolo come nella serie, mi pare che il conflitto natura vs. cultura/tecnica sia presentato con filtri fin troppo “vintage”, fin troppo “umanistici” ecco. Mi viene in mente un passaggio di Richard Dawkins ne “Il fenotipo esteso”, in cui (cito a memoria e forse storpio) nell’ambito della polemica sull’intelligenza artificiale, lo scienziato dice: “ma come, vi sorprendete e vi preoccupate per gli sviluppi della ricerca sull’intelligenza artificiale – eppure un neonato lo avete già visto, mi pare”.