Porta Marina
di Massimo Gezzi, Adelelmo Ruggieri
Viaggio a due nelle Marche dei poeti
2008, peQuod
[ pubblicazione promossa da ITALIA NOSTRA, sezione del Fermano ]
Adelelmo Ruggieri
Il poggio
[ in Porta marina cit. ]
Monte Rosato. Verso mare, dopo la pista di motocross, inizia la selva. Non c’è anima viva. La vista sulla città è incomparabile. Ridiscendo piano. Tutto questo silenzio m’intimorisce e insieme mi porta a rallentare, quando ecco che mi taglia la strada uno scoiattolo. Di quelli grigi che si sono messi in competizione con gli scoiattoli rossi. Mi vengono in testa due versi di Zanzotto che dovrebbero fare così: «valgo l’onda minuscola / che fu tua sete scoiattolo un giorno».
Cammino verso casa, è sera tardi. In via Marchetto Morrone una voce squillante da una finestra ripete tre volte, squillando a crescere: è concettualmente allucinante, è concettualmente allucinante, è concettualmente allucinante. Chissà che è successo, forse sta guardando il TG. L’ora è quella. Ora sbucano da San Domenico due ragazzine che iniziano a correre felici. Svolto a sinistra per la ripida via Regina Amalasunta. Paolo Volponi ha scritto una pagina che racconta del suo amore per Fermo. Per molti aspetti gli sembra «la sorella carnale di Urbino». Più avanti in quella stessa pagina dice di Amalasunta che «l’aveva prescelta, incantata dai suoi balconi e dagli smalti delle marine e delle ripe».
Sta svanendo il suono della corsa in discesa delle bambine. Ora la piccola e ripida via si allarga. Una coppia decisamente spaesata mi chiede: “Dov’è via Cesare Battisti?”. Spaesato da solo più di loro in due non so che rispondere, eppure sta lì, a venti metri, e l’avrò fatta non meno di diecimila volte.
Stamattina una foschia grigia e invernale assedia la città. Nel tempio di San Francesco è tutto bruno scuro. Brillano come rocce rare le cinque vetrate dell’abside centrale. Non riesco a riconoscervi pressoché nulla. Riconosco Innocenzo III. Riconosco naturalmente Francesco che predica agli uccelletti. Quella lì dovrebbe essere la scena della morte. Francesco sta dicendo: «Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra morte corporale, / da la quale nullu homo vivente pò skappare».
Peregrino sulle creste dell’Ete. Il sole fra poco tramonterà. Ora sono sopra una collina di fronte Monte Rosato. Si chiama Lavandare il posto. Ed è come se anche qui questa parola (a leggerla sul cartello) venisse cadenzata da una gora. Ci stanno due pini marittimi e maestosi che segnano l’ingresso all’ultimo podere sul colle. Un uomo sta raccogliendo le olive. Sta tirando la stoffa dove batterle. Tre cagnoletti mansueti, e abbaianti, gli girano intorno per tutto il tempo. È soverchiante tanta umile magnificenza. Sei tu forse il primo che è nato, – o sei stato formato prima dei colli? chiede Elifaz (se non sbaglio) a Giobbe…
*
Martedì. Nel 1983 David Gascoyne scrisse la premessa a una nuova edizione dei Collected Poems di Eliot tradotti da Roberto Sanesi nel ’66. In essa ci dice di un saggio che Eliot scrisse nel ’19, «Dopo quei quattro anni che possono essere definiti fra i più angosciosi che il mondo avesse mai conosciuto».
Quel saggio si chiama: Tradition and the Individual Talent, e in esso c’è questa frase qui: «La poesia non è libero sfogo delle emozioni, ma una fuga dall’emozione, non è una un’espressione della personalità, ma una fuga dalla personalità».
Io non so come sta scritta in lingua inglese ma letta a questa maniera, in italiano, è qualcosa di enormemente complesso a decifrare. Mette insieme sfogo e fuga, emozione ed impressione.
E le mette insieme entro una cornice che ha per lati la parola «personalità»: la qualità e la condizione di un uomo-di una donna in quanto rappresenta una parte in una società.
Anche «sfogo» (inteso come espressione di affetti trattenuti) insieme ad «emozione» (intesa come turbamento dell’anima) non è che aiuti a comprendere.
(E che altro può fare un cuore che ha costipato in sé l’affettività, se non turbarsi? E così fuga ed emozione: sono turbato e dunque fuggo: anziché capire fuggo…).
Rimane da dire della dissonanza fra «libero» che è moltissime cose (ma la prima delle quali è “sciolto da impedimento”) e «poesia» (che è poche cose, ma la prima delle quali è comporre: porre insieme di modo che le parti facciano un tutto), e della parentela invece fra «non libero» e «poesia» (a questa maniera qui intesa).
Sera. Sto sulla cresta di una collina… Forse l’olmo è quello lì… Ma no… Figurati… Di sicuro il fianco della piccola chiesa… i rami contro le nubi pungolate dall’inverno… Sulla didascalia logora c’è scritto che questo è un punto nevralgico della viabilità antica… luogo ideale di preghiera e pellegrinaggio… Che un punto nevralgico della viabilità antica sia luogo di preghiera uno lo capisce, ma basterebbe dire questo, il resto viene da sé…
Passammo da qui un martedì di carnevale… M*** una volta mise in testa alla sua mole di 120 chili un cappello da fatina con il fiocco che il vento lo svolazzava… aveva anche la bacchetta magica… Impassibile – esile nel gesto – bacchettava tutti quanti, e tutti si avvicinavano, ridendo, per capire che folle maschera adorabile fosse mai quella… Era il ’74…
L’altro ieri ho dovuto chiamare il termoidraulico. La caldaia è sul terrazzo. C’è una pianta fiorita di margherite gialle. A un certo punto mi fa: “i fiori sono il segreto della terra. Ogni minima mutazione di temperatura li fa scattare”. Mica male no?
Stava sistemando il vaso di espansione, e intanto riusciva a dire una cosa come questa. L’avevo chiamato alle 8.00 e alle 9.15 eccolo lì. Porta sempre l’auricolare per accontentare tutti quanti, “ma specie i vecchietti / ogni cosa l’impaurisce”. Speriamo arrivi un altro tempo che le statue nella piazze le faranno per le persone come lui.
Dopo pranzo. Un caro amico che è nato nel ’22 e che tiene a cuore la poesia mi ha dato un libretto stampato a Fermo nel 1969. Si chiama Fiuri de casa nostra. La premessa è di Gabriele Nepi. Scrive che poeti e linguisti di valore ebbero grande stima per il nostro dialetto, e fa i nomi di Giosuè Carducci, Diego Valeri – che qui a Fermo ebbe la sua prima cattedra, ci dice – e Dino Provenzal.
E questa cosa qui non gli appare casuale se alcuni fra i maggiori lessicografi vengono dalle Marche: Fernando Palazzi da Arcevia, Enrico Mestica da Apiro… Panzini, Vicoli… Gabrielli…
Mi ha reso enormemente felice questo dono. In quell’antica plaquette insieme agli amici delle Recite compaiono altri poeti di qui, dei quali leggo commosso, e per la prima volta, i nomi: Domenico Polimanti detto DO-PO di Monsampietro Morico del 1889, OttorinoProsperi di Servigliano del ’13, Nazzareno Sardellini di San Claudio di Corridonia del ’17, Raffaele Detto di Monturano del ’27.
Prosperi a pagina 42 ricorda di sé un passato remotissimo quando correva sempre e prendeva i grilli. La sera giocava a buscarella, e gli amici lo portavano a bagnà jò lu vallutu.
A leggere queste parole ho pensato a Wolfgang Sachs quando ci chiede di modificare la nostra idea di mobilità.
Le mete si sono allungate. Dobbiamo fare una quantità enorme di strada per fare tutto quanto. E per molti, inoltre, la mobilità si è drammaticamente ridotta – a parità di mete allungate.
Basta pensare ai bambini, dice, che non possono più andare a scuola da soli.
Mercoledì. Conosco poche poesie di Anna Malfaiera, nata a Fabriano nel 1926. Tre volte mi sono messo sulla strada per raggiungerla, tre volte ho desistito. Avevo in testa una sua poesia molto bella: Di sera alla rondine. Fa parte di una antologia di poeti marchigiani che si chiama Immagini della terra e appare rapidissima digitando nella rete: http://associazionebartola.univpm.it/curiosita/poesie.htm#di sera alla rondine.
Ma un conto è digitare, un conto è ricordare, un conto rimettersi in viaggio.
C’erano due posti che volevo vedere: il primo è dove il fiume incontra il torrente. L’altro è un viale che ho incontrato in una antica foto, e che dentro di me è rimasto impresso a questa maniera: una schiera di case, un filare di giovani piante e in fondo a tutto quanto un poggio, alto e scintillante.
Ma di sicuro non l’avrei trovato, di sicuro non avrei potuto ripetere proprio lì, questi tre versi di Anna:
Un passo che conosco ha l’inverno,
tardi chiarori e brume agli Appennini
e pungoli di gelo.
Massimo Gezzi
Il mar da lungi. Viaggio (o vagabondaggio) nelle Marche dei poeti
[ in Porta marina cit.]
Naturalmente il mare e il porto non sono percepiti sempre e soltanto [dai poeti delle Marche] come luogo industrialmente degradato. Per altri la lunga costa marchigiana può rappresentare un’apertura storico-politica, «oltre il quieto Adriatico» (De Signoribus) e verso quei martoriati Balcani da cui fuggono uomini e donne costretti ad emigrare e destinati talvolta a ricevere l’accoglienza volgare e razzista di qualche difensore dell’Integrità e della Purezza nazionali. Per altri, invece, il mare si carica di valenze simboliche e metafisiche, come una sorta di fondale perennemente sfondato verso l’oltre, o di «altare azzurro in fondo alla scena» (D’Elia) su cui si proietta lo sguardo pensante, montalianamente incapace di appagarsi di tutte le immagini che «portano scritto ‘più in là’». D’altronde, se è vero che «ognuno», come ha sostenuto Predrag Matvejevic, «ha la sensazione di aver qualcosa da dire del mare e del suo aspetto e che si tratti di una cosa effettivamente importante», ciò sarà particolarmente vero per chi scrive versi in una regione interamente adagiata, per il lato lungo, sulla sponda adriatica; una regione in cui, con una bella intuizione di Piero Bigongiari, si avverte «sempre quel sospetto di mare all’orizzonte» […].
Per le donne e gli uomini nati e cresciuti nelle Marche, dunque, il mare costituisce uno di quegli «stampi immaginativi» che sin dall’infanzia, come sapeva bene Cesare Pavese, strutturano la percezione dello spazio e del mondo. Non stupirà, allora, che il mare spesso sia la quinta naturale su cui i poeti delle Marche proiettano le immagini del ricordo e dell’infanzia. Ecco, per esempio, tre dei più apprezzati poeti italiani contemporanei, tutti e tre marchigiani, alle prese con l’insorgenza lancinante e nostalgica del ricordo su uno sfondo marino: Eugenio De Signoribus (Cupra Marittima 1947), in questo testo tratto da Istmi e chiuse (Marsilio 1996), considera il «mare infantile» come «lo spazio che si apre e non ha margine»; la spiaggia ricoperta di sassi, mormoranti o «scroscianti» a seconda che il passo di chi la percorre sia lieve o veloce, alla fine si trasfigura, per via di associazione mnemonica, nella montagna in cui il bambino andava in cerca di «fossili ammiccanti», in seguito al comando ricevuto da un immaginario re divino che occhieggia, fiabescamente, da «una spira d’ammonite»:
lo spazio che si apre e non ha margine
è il mare infantile su una costa
che complici non ha se non i sassi
in dune parlanti ai lievi passi
o scroscianti nelle volanti corse
acclamanti screziate le conchiglie…
viene al ricordo una spira d’ammonite
fissata in una roccia d’Appennino
severa di luce come un occhio
di re divino che ordina al bambino
di ritrovare tutte le altre pietre
e riportarle a fronte dello stretto…
così che la valigia del ritorno
fu un gran sasso di fossili ammiccanti,
una montagna che andò da maometto…
Umberto Piersanti (Urbino 1941), invece, richiama alla memoria un mare lontano sia dal punto di vista spaziale-geografico (come quello leopardiano delle Ricordanze e di A Silvia) sia da quello memoriale. Piersanti, infatti, è il poeta delle Cesane, dei fossi e delle valli, è il poeta di una Urbino classicamente composta in una cerchia di colli che conserva ancora i tratti del paesaggio che fece da sfondo ai quadri di Raffaello. In questa poesia tratta da Nel tempo che precede (Einaudi 2002), invece, Piersanti richiama l’ambiente marino dell’unica vacanza («allora non usava») fatta insieme alla giovane madre. Quel ricordo conforta il poeta ormai adulto, sebbene la distanza tra quel tempo e il presente alieno sia incolmabile e immedicabile, impressa addirittura nell’aria, «così diversa» da quella di allora:
L’osteria del mare
quell’osteria, madre,
in quale vicolo persa,
laggiù, sul mare?
madre, giovane madre,
fu la nostra vacanza,
la sola forse,
allora non usava,
e quei fischioni rossi
con foglie verdi
mai ne ho trovato altri
così perfetti
e l’azzurro d’intorno
ci cerchiava,
ci ubriacava la luce
sulla panca
sono sceso alla costa
l’ho cercata,
ma il tempo muta
e le strade e le case,
cambia perfino l’aria
era l’aria allora
così diversa
io la solcavo
stretto alla tua mano,
la tua veste leggera che risplende
contro l’Ardizio
verde come il fosso
dove fatica la gente
del mio sangue
io quei giorni
me li porto dentro,
il cammino mi fanno
più leggero.
Se Piersanti dipinge la madre sullo sfondo azzurro e infantile del mare, Gianni D’Elia (Pesaro 1953) su una quinta simile proietta la figura del padre. Siamo a Pesaro, sono quasi le sette di sera, e chi scrive compie un improvviso flash-back ricordando le passeggiate in bici che faceva insieme al genitore, «dal centro al lungomare» fino al «molo del porto-/ canale». L’immagine di quella figura cara viene poi amplificata dalla ricomparsa improvvisa del profumo «degli spiedini alla brace, sulla rola / che una signora girava». Il ricordo dell’affettuosa complicità tra il figlio e il padre che gli comprava le seppioline arrosto all’insaputa della madre fa «svenire di rimpianto» il poeta ormai adulto. Ecco il XLVII “canto”, in terzine, di Bassa stagione (Einaudi 2002):
XLVII
«Era quasi questa, l’ora, verso le sette
di sera, della passeggiata con te, papà…
in bici, piano, dal centro al lungomare,
si costeggiava la ressa dei pedoni
davanti agli hotel, là, con gli stranieri
seduti agli aperitivi, prima di cena…
a volte, anche più tardi, dopo avere
annaffiato l’orto e le aiuole di stagione,
si prendeva, affiancati, la via del mare,
fino alla meta, che era il molo del porto-
canale; ma tu non volevi, per prudenza,
che ti stessi a fianco, e insistevi nella
pretesa che ti seguissi a ruota… oh, il lampo
di questa sera in cui ogni sera ha scampo
di quelle che vivemmo pedalando allora
io e te, tanto più grande e più alto…
ma quel che mi fa svenire di rimpianto
è l’odore che sul molo si spandeva – ricordi? –
degli spiedini alla brace, sulla rola
che una signora girava, col ventaglio
che rendeva il tizzone rossobianco
per l’afrore di seppioline da sballo…
e a volte me le prendevi, ed era segreto o vanto
con la mamma, quell’antecena, che ora canto…».
[Dall’intervista a Massimo Raffaeli, in appendice al volume]:
Gezzi: So che sei piuttosto allergico – e io condivido la tua stessa malattia – alla retorica dell’Identità, anche in chiave regionalistica. Perché? Quali sono i rischi che questo tipo di discorso può comportare, per la realtà politica e anche per quella letteraria?
Raffaeli: Sì, “identità” è per me una parola impronunciabile, perché evoca immediatamente la retorica del sangue e del suolo: è sinonimo di reclusione o di vincolo ad alcuni elementi più o meno primordiali. Sappiamo invece che qualsiasi “identità” è costruita, frutto di uno sviluppo e insieme di un continuo negoziato; essa nasconde, cioè, un processo storico nello stesso momento in cui proclama un dato ab origine e per così dire naturale. Ogni retorica dell’identità non solo è dogmatica ma, potenzialmente, xenofoba; trasforma dei semplici aggettivi qualificativi (cristiano, musulmano, ebreo, ma anche rumeno, italiano, americano e persino lombardo e marchigiano) in temibili sostantivi: insiste cioè su differenze da ritenersi esclusive, mai inclusive, fissa dei confini solo per chiuderli e tramutarli in frontiere. Considero la retorica identitaria come la peste intellettuale del secolo, qui come altrove: se ne alimentano le attuali “guerre di civiltà”, il disprezzo per tutto quanto sappia di illuminismo nonché i diffusi rigurgiti medievali. A proposito di identità, un saggista di cui ho grande stima, Stefano Levi Della Torre, ha scritto di recente in Zone di turbolenza (Feltrinelli 2003): «Nella sua forma elementare, l’identità è un far tutt’uno di se stessi e del proprio gruppo di appartenenza.[…] È una neotribalizzazione delle società postindustriali. È la versione etnologica del corporativismo che rivendica territori sociali e diritti esclusivi. […] La cultura, intesa come attitudine critica per il superamento delle inerzie e dei condizionamenti sociali, si volge a un altro significato, cultura in senso antropologico, cioè conferma e conservazione di mentalità sedimentate, di usi e costumi». Non c’è altro da aggiungere. E in che cosa consisterebbe, poi, l’attuale “identità” dei marchigiani? Nel santino di Leopardi o nelle lasagne di Rossini, o magari nelle scarpe di Diego della Valle da opporre alle camicie verdi e alle ampolle con l’acqua del Po? Lasciamo perdere, per favore.
***
in LICENZE POETICHE
(festival internazionale di letteratura aggiornata)
Insieme a Renata Morresi, Luigi Socci e Giampaolo Vincenzi,
Massimo Gezzi e Adelelmo Ruggieri,
autori di
“Porta marina. Viaggio a due nelle Marche dei poeti”
(peQuod 2008)
saranno presenti a Macerata
sabato 24 maggio
alle ore 10,30
alla Biblioteca Statale
in occasione della Tavola Rotonda
“L’onda marchigiana – ipotesi su una linea poetica marchigiana?”.
Molto bello. Complimenti a entrambi.
una critica (e) poetica piena di grazia quella di ruggieri: belle antenne, complimenti.
È che a un certo punto – quando si è abbastanza in là con gli anni, come nel mio caso – uno impara che le parole hanno anche un compito: devono sostenerti quando non va, per fare un esempio, e i libri come si diceva un tempo devono essere (anche) insegnanti di vita – pardon: si diceva maestri, però insegnanti è meglio, contiene maestre e maestri -: un po’ quello che Ponocrate diceva a Gargantua, pare… Un abbraccio. Grazie Nadia. Grazie Pantagruel. Grazie Orsola. Adelelmo
sono contento che gli indiani possano leggere la prosa del mio amico adelemo. ci sono pochi scrittori in italiani che hanno tanto rispetto delle parole.
complimenti anche al “socio”.
Grazie a Massimo Gezzi e ad Adelelmo Ruggieri di questa “anteprima”.
Dall’occhio chiaro di Adelelmo e dalla ilare delicatezza sua:
Ieri, al mercato del sabato
ho visto una donna con un cappello
in quel giorno assolato di novembre e perfetto
a forma di riccio
solamente che gli aculei erano morbidi
filamenti sintetici brevi
L’ho guardata negli occhi per dirle
Che accidenti porti sulla testa?
e lei m’ha risposto
sorridendo nei miei
Due ragazzi cinesi
appoggiati a una ringhiera
vendevano frivolezze
In una gabbietta a forma di pagoda
ci stava un animaletto di plastica
dalle penne malamente colorate
Una molla teneva in alto la gabbietta
e ritrovando la sua lunghezza la molla
cantava l’animaletto
da Vieni presto domani, peQuod 2006
,\\’
Grazie a Orsola Puecher e a tutti i lettori di questo post. E grazie al “socio” Adelelmo Ruggieri, che ha percorso realmente tutti i luoghi di cui ha scritto, con dedizione e meraviglia autentiche. Senza di lui questo libro non sarebbe mai esistito.
bravi e signori.
r
Ancona, di notte, s’apre, ha scenari
luminosi, se ti inerpichi o se sali
a San Ciriaco, come a volte in estate
in attesa di salpare per i mari
slavi o per la Grecia, e c’è vita, ai fari
ai moli, ai lampioni, ai riverberi
che accendono le acque scaglie a scaglie
– tu sorridi, su Profili Letterari –
(a Franco Scataglini,2006).
il vostro libro sarà particolarmente caro a chi,come chi scrive,altro non è che un marchigiano della diaspora(almeno così avrebbe detto Franco).Un saluto caro e complimenti vivissimi.m.c.
Grazie a Franco Arminio, a Manuel Cohen, e a Renata Morresi.
Ciao Massimo
Adelelmo
[…] https://www.nazioneindiana.com/2008/05/21/porta-marina/#comments (un ampio estratto da Porta Marina) […]
[…] Qui un’anticipazione su Nazione Indiana, postata da Orsola Puecher, con alcuni estratti. […]