Le convitate di pietra. Surrogazione transnazionale e ventriloquio europeo
di Deborah Ardilli
Sarà l’Assemblea nazionale di Parigi a ospitare, il prossimo 2 febbraio, il primo convegno internazionale per l’abolizione universale della gestazione per altri. Il patrocinio offerto dalle massime istituzioni politiche francesi all’appuntamento organizzato dal CoRP (Collectif pour le Respect de la Personne), dalla CADAC (Coordination pour le Droit à l’Avortement et à la Contraception) e dalla CLF (Coordination Lesbienne en France) merita attenzione. La cooptazione al vertice della questione dello sfruttamento procreativo, recuperata nel quadro di un’alleanza salvifica tenuta assieme dalla liturgia della sollecitudine a favore dei diritti delle donne e dei bambini, solleva in effetti una serie di interrogativi importanti intorno ai corpi che contano in questa battaglia, come pure intorno a quelli che ne rimangono esclusi. Interrogativi di segno analogo coinvolgono, evidentemente, la composizione politica delle forze in campo. Tesaurizzando frammenti sparsi di discorsività femminista, il fronte proibizionista tende in effetti a raccomandarsi come un argine particolarmente solido al dilagare dell’alienazione mercantile dei corpi delle donne e ad accusare le non allineate — cui vengono indistintamente attribuite una visione grossolanamente ottimista della libertà di scelta, come pure una concezione euforica della convertibilità universale dei desideri in diritti — di collusione con il regime di mercificazione neoliberale. È una rappresentazione attendibile del dibattito in corso? Rispettosa delle conoscenze sulle aree più esposte del mercato transazionale della surrogazione che l’inchiesta etnografica ha accumulato nell’ultimo decennio? Interessata a venire a capo delle contraddizioni in campo o a consolidare identità periclitanti? La promozione del diritto penale a strumento principe della liberazione delle oppresse si presta a un bilancio pragmatico? Si concilia con le richieste delle dirette interessate? Configura modalità di azione compatibili con le pratiche e le elaborazioni maturate nel corso di decenni di riflessione femminista intorno al rapporto produzione/riproduzione? Per provare a rispondere, vale la pena cominciare con un passo indietro nel tempo.
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Il 26 giugno 2014 la Corte europea dei diritti dell’uomo ammonisce le autorità francesi per avere rifiutato di trascrivere nel registro dello stato civile i certificati dei figli di cittadini francesi nati all’estero da gestazione surrogata, riscontrando una violazione del diritto dei minori al rispetto della vita privata e familiare. A poche settimane dalle sentenze Menesson e Labassée, orientate al riconoscimento delle conseguenze di una pratica procreativa formalmente vietata in Francia dal 1991, «Libération» pubblica una lettera aperta — primi firmatarî Jacques Delors e Lionel Jospin, seguiti a ruota da politici di diversi schieramenti parlamentari, accademici, rappresentanti delle professioni mediche e psichiatriche — indirizzata a François Hollande. Con quella petizione, un settore dell’opinione pubblica allarmato dalla breccia aperta dalle «sentenze gemelle», si attiva per richiamare il Presidente della Repubblica al dovere di non recedere dagli impegni già assunti contro ogni ipotesi di legalizzazione della gestazione per altri. Senonché, mobilitando il tema dei «diritti dei bambini» a fianco di quelli delle donne, l’appello sembra non avvedersi della contraddizione in cui cade, essendo precisamente il diritto al riconoscimento dei bambini già nati da gestazione surrogata a essere calpestato dalla linea della fermezza nazionale. Linea per altro successivamente ribadita dal primo ministro Manuel Valls, in un’intervista rilasciata «La Croix» a ridosso di una manifestazione promossa dei veilleurs francesi:
Il governo esclude totalmente di autorizzare la trascrizione automatica di atti stranieri, perché ciò equivarrebbe ad accettare e normalizzare la GPA. Aggiungo che è incoerente designare come genitori delle persone che hanno fatto ricorso a una tecnica chiaramente proibita semplicemente affermando che sono responsabili dell’educazione dei figli, cioè incaricati della trasmissione dei nostri diritti e dei nostri doveri.
E di seguito, a puntellare la promessa governativa di una grande iniziativa internazionale per la proibizione della gestazione per altri:
Credo che, in questi momenti di crisi di identità, la famiglia sia un punto di riferimento, un polo di stabilità. Essa si è evoluta, certo, e il nostro compito è di accompagnarla. Ma al tempo stesso la famiglia, la filiazione e l’interesse del bambino devono rimanere dei punti di riferimento fondamentali.
Di lì a poco è il quotidiano «Le Figaro» a offrire una tribuna a due membri particolarmente in vista dell’internazionale proibizionista, pubblicando un documento aperto da una cupa rievocazione dei lutti familiari provocati dalla Prima guerra mondiale. A firmarlo sono gli arcivescovi di Milano e di Vienna, Angelo Scola e Christian Schönborn, a giudizio dei quali la «stessa domanda sul valore della vita umana» si ripropone oggi in relazione alla gestazione per altri. Ma, beninteso, non mancano le ragioni per continuare a sperare in una risposta all’altezza della sfida:
Se ci si preoccupa della decisione recente della Corte europea dei diritti dell’uomo di istituire le filiazioni fittizie, bisogna salutare su tale questione la reazione tonica, creativa, giovane e continua della Francia. La Francia ha avuto il coraggio di dire no e lo stesso presidente si è impegnato contro la surrogazione di maternità. La Manif pour tous, oggi ben conosciuta in tutta Europa, aveva avvertito che cambiando la natura del matrimonio sarebbero venute altre rivendicazioni, che avrebbero snaturato l’adozione e che avrebbero organizzato la fabbricazione degli esseri umani.
L’occasione per esprimere sostegno al «movimento francese» è propizia agli arcivescovi anche per celebrare la riconciliazione della Chiesa romana con il lessico moderno dei diritti, coniugato con i requisiti genealogici fondativi dell’«umanità». Il dispositivo di protezione invocato contro la maternità surrogata configurerebbe infatti, secondo le gerarchie cattoliche, un «prolungamento logico della Dichiarazione dei diritti dell’uomo», necessaria a garantire «il diritto del bambino a conoscere le sue origini e a crescere per quanto possibile con padre e madre, escludendo tutte le forme di contratto, finanziario o no, che lo privano di uno dei due genitori».
Il passaggio è degno di nota. Con il riferimento ai «diritti umani», intesi quale attributo inalienabile della «persona», si entra nel campo delle rappresentazioni normative ritenute autoevidenti e, per questo motivo, capaci di cementare quello che la tradizione liberale definisce un «consenso per intersezione» intorno a minimi comuni denominatori di giustizia. La saldatura ideologica tra umanità e diritto ha, tuttavia, qualcosa di singolare. Di certo, la sistemazione dei diritti nel campo della religione civile più diffusamente evocata nelle società a capitalismo avanzato tradisce una caduta verticale di attenzione critica nei confronti di un dispositivo di soggettivazione di cui, proprio a ridosso della Dichiarazione universale del 1948, una testimone intempestiva — e non delle meno avvedute — diagnosticava impietosamente il fallimento. «La concezione dei diritti umani», scriveva Hannah Arendt nella seconda sezione dello studio sul totalitarismo,
è naufragata nel momento in cui sono comparsi individui che avevano perso tutte le altre qualità e relazioni specifiche, tranne la loro qualità umana. Il mondo non ha trovato nulla di sacro nell’astratta nudità dell’essere-uomo. E, date le condizioni politiche oggettive, è difficile dire come le idee di uomo su cui sono basati i diritti umani – e che lo vogliono creato a immagine di Dio (nella formula americana), o rappresentante dell’umanità, o portatore delle sacre esigenze della legge naturale (nella formula francese) – avrebbero potuto contribuire alla soluzione del problema.
Circostanza, questa, che induceva la pensatrice ebrea non già a rivalutare, ma a trovare amaramente confermata dai fatti la «solidità pragmatica» dell’argomentazione, riconducibile a Burke, secondo cui «è molto più saggio contare su un’eredità tradizionale di diritti trasmessi di padre in figlio come la vita e rivendicarli come i ‘diritti di un inglese’ anziché come gli inalienabili diritti dell’uomo». Formulata nel quadro di una precisa costellazione storica, caratterizzata dalla riconversione nazionalistica degli Stati europei e dalla messa in circuito di masse sempre più vaste di apolidi, la diagnosi arendtiana individua al centro del discorso dei diritti un’aporia che non ha perso pertinenza. Proprio nel momento in cui la «formula francese» dovrebbe farsi universalmente valere e includere la vita umana a prescindere da ogni altro attributo, si scopre che una vita non è mai abbastanza per poter aspirare al riconoscimento. Se una vita non basta, è perché i quadri socialmente egemoni del riconoscimento esigono una genealogia autenticata dal «contratto eterosessuale» che fonda il corpo della nazione: un principio che, secondo gli esponenti del fronte abolizionista, non può essere rimesso in questione né dalla Corte di Strasburgo né dal pronunciamento con cui, un anno dopo le «sentenze gemelle», la Corte di Cassazione francese ha disposto la validazione dell’iscrizione allo stato civile dei bambini nati all’estero da gestazione surrogata.
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È il caso di domandarsi se le contraddizioni lasciate aperte dalla «formula francese», particolarmente aspre nei riguardi dei bambini, si sciolgano invece quando vengono in primo piano le donne. Secondo Sylviane Agacinski, intellettuale di area socialista e voce fra le più ascoltate all’interno del campo abolizionista, le ragioni per unirsi all’alleanza salvifica risplendono alla luce di un’evidenza che, sola, dovrebbe fare giustizia di ogni perplessità e persuadere gli esitanti a rompere gli indugi: «nulla è più banale di un uomo che acconsente al proprio asservimento, cioè al proprio degrado, sotto il dominio del bisogno o anche di un interesse finanziario. Questo è il motivo per cui il rispetto della dignità di ciascuno deve essere garantito dalla legge».
Preso alla lettera, l’argomento consegnato dalla filosofa francese a Corps en miettes si presterebbe altrettanto bene a motivare la richiesta di annullare tutti i contratti di lavoro sottoscritti in regime di produzione capitalistica, così come i contratti matrimoniali siglati in regime di produzione domestica, dal momento che in entrambi i casi una delle parti contraenti si assoggetta volontariamente a un rapporto coincidente — è tornata di recente a sottolinearlo con vigore Christine Delphy — con la «definizione stessa dello sfruttamento». Senonché, ostile a conclusioni fondate su premesse analitiche pericolosamente sovversive, ma pur sempre persuasa della centralità del diritto penale per «difendere la società», Agacinski si dispone a inibire un’interpretazione estesa del criterio aureo della dignità precisando che «la crisi che attraversa la nostra civiltà non deriva dall’esistenza di una sfera di mercato, con le sue leggi proprie, ma dall’estensione assoluta, senza resto, di una mentalità capitalista che si è impadronita degli spiriti e del mondo».
Ma come identificare il «resto», la norma di contenimento in grado di stabilire ciò che appartiene di diritto alla sfera di mercato e ciò che invece deve rimanerne escluso? Stando al ragionamento proposto dalla filosofa, operando sulla base di una scansione logica articolata in due momenti: presupporre la piena funzionalità di un circuito virtuoso della produzione e degli scambi da cui isolare, in seconda battuta, un complesso di attività catalogabili come usurarie, nell’accezione larga (sedimentata nel corso secoli di codificazone cristiana dei criteri di legittimazione economica degli appartententi alla comunità della salvezza, prima di essere variamente ripresa dalle critiche al capitalismo di segno conservatore) di intrinsecamente devianti, fonte di guadagni illeciti, in quanto praticate da soggetti delegittimati ad agire all’interno di un universo contrattuale cementato dalla fede comune in principi etici ed economici fatti coincidere con l’utilità collettiva.
Usuraria e deviante in radice è anzitutto, agli occhi di Agacinski, la possibilità stessa di ipotizzare, prima ancora che di remunerare, una qualsiasi impiegabilità del corpo riproduttivo e dunque anche solo di pensare a una sua iscrizione, quale che ne sia il segno, nel campo della dialettica sociale. Ecco perché, impostata su basi schiettamente commerciali o integrata a un’economia del dono, la gestazione per altri costituisce per Agacinski una pratica in ogni caso condannabile. La ragione addotta suona, più che come una difesa intransigente del principio di autodeterminazione femminile, come un colpo di spugna su decenni di riflessione, ad opera dei femminismi di orientamento materialista, intorno al significato economico del «lavoro d’amore» nelle sue differenti articolazioni. Secondo la filosofa, infatti, «la gravidanza non implica nessun lavoro»: per essere più precisi, essa «non è affatto un’attività», in quanto «la gestante lascia che si compia in lei un processo biologico». Conclusione obbligata: «la gestazione sfugge alle categorie che si applicano abitualmente ai beni materiali (avere o fare)».
Per effetto della riduzione del gestare all’ordine immoto dell’essere, Agacinski ottiene il risultato di incasellare la gravidanza all’interno di una descrizione carica di pretese immediatamente normative. Ma, sbattendo la porta in faccia a esperienze che non si accordano con la supposta norma naturale, rinuncia a una qualsisasi strumentazione idonea a misurarsi con le questioni sollevate dallo sviluppo di un’industria transnazionale della surrogazione. È appena il caso di sottolineare che il lamento agacinskiano sulla corruzione degli spiriti per effetto della venalità universale non spiega a quali condizioni si genera un’offerta di corpi femminili a basso costo da immettere nella filiera del «lavoro clinico», per usare la definizione recentemente proposta da Melissa Cooper e Catherine Waldby. Tanto meno chiarisce, sul versante di una domanda che non accenna a calare, il fitto intreccio che connette il ricorso alle opportunità biotecnologiche disponibili sul mercato al complesso culturale che orienta comportamenti sociali non solo accettati, ma caldamente raccomandati. In fondo è la stessa Agacinski, nella sua Politique des sexes, a farsi interprete fedele del messaggio eteronormativo proclamando che «se non si stabilisce alcun legame sociale, come il matrimonio o la filiazione, la differenza tra gli uomini e le donne non ha pressoché più senso e l’identità sessuale delle persone diventa a sua volta priva di grande importanza». Meraviglia davvero che, pur di sfuggire al destino di ungrievable life preconizzato dalla filosofa come meritata condanna per i reprobi, qualcuno prenda alla lettera l’ingiunzione parentale e, aggirando le legislazioni più restrittive, sfrutti ogni occasione possibile per non disattenderla? Val quanto dire, per usare una formula efficace di Arjun Appadurai, che «il flusso delle merci è un instabile compromesso tra sentieri socialmente regolati e deviazioni ispirate dalla competizione». La candidatura di un bene a merce non emerge come reazione meccanica alla disponibilità di denaro per acquistarlo, ma si definisce in funzione di registri normativi pre-esistenti, in questo caso registri normativi che associano la legittimazione della parentela alla formazione di strutture riconoscibilmente familiari, e tali da valorizzare la presenza di legami genetici tra genitori e figli: gli stessi che Agacinski non è disponibile a mettere in discussione, salvo nel caso in cui siano coppie lesbiche o coppie gay ad avanzare la richiesta di occupare posizioni parentali.
Aggirando tali questioni, Madame Jospin riesce nell’obiettivo che sembra starle veramente a cuore: livellare le dialettiche sociali (di genere, di classe, di ‘razza’) che interessano la pratica della surrogazione, per estrarne una potente icona di banalità da restituire — a titolo di archetipo negativo — alla coscienza turbata in cerca di una norma di contenimento in grado di fissare in una sistemazione prospettica il limite tra economia e cultura, tra produzione e riproduzione, tra legittimità e illegittimità delle scelte compiute da chi, per sopravvivere, deve vendersi. Poiché il livello estremo della banalità, per Agacinski, coincide con il «diventare una ‘operaia di bambini’ alla stessa maniera in cui altre sono chiamate ‘operaie del sesso’», è chiaro che la condanna morale di una pratica si risolve tutta intera nello stigma gettato su uno dei soggetti che vi partecipano. Le parole non sono innocenti, meno che mai se usate con l’ambizione di sistematizzare in termini teorici, ancorché facilmente divulgabili, le ragioni di una battaglia politica. E dal momento che, dopo Arendt, è impossibile evitare di collegare l’aggettivo «banale» a un’atrofia della capacità di giudizio dai risvolti atroci, vale la pena esplorare più da vicino le implicazioni di tale associazione.
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Senza classe, senza storia, senza nome, la surrogata si presenta agli occhi della militante abolizionista anzitutto come un esempio eclatante di abiezione da servitù volontaria. Ma poiché, come si è visto, non tutti i casi catalogabili alla voce «servitù volontaria» documentano uno stato di minorità tale da sollecitare un’interdizione giuridica, occorre specificare una circostanza aggravante che isoli la surrogata dalla collettività dei partecipanti ai giochi di mercato e metta in rilievo la flagrante devianza comportamentale che scaturisce da una valutazione economica errata. Tale circostanza è definita, per Agacinski, prima ancora che dalla mercificazione del corpo in quanto tale, dalla rinuncia della surrogata ai diritti sul bambino: «l’autorità parentale non è un bene che si possa cedere». E ancora: «una gravidanza non può essere alienata, vale a dire ‘donata’ o ‘venduta’, senza alienare la persona stessa». Che pensare, allora, di quante vi si prestano? A maggior ragione, che cosa pensare di chi ammette senza riserve di farlo per denaro? Come resistere alla tentazione di diagnosticare una irrimediabile patologia del giudizio e di ipotizzare una banalità dovuta all’incapacità di intendere la differenza infinita tra prezzo e Valore, all’abbaglio che scambia l’utilità immediatamente tangibile con quella di lungo periodo? Vendere per una somma risibile il Figlio, il bene «infinitamente desiderabile», «la via che ci fa scavalcare l’esistenza per vedere più lontano», il «ricominciamento», lo «sguardo nuovo»: che mediocrità, che povertà di spirito. Come Giuda.
È possibile avanzare, per questa retorica del disprezzo che sfuma impercettibilmente nel discorso della salvezza, una spiegazione puramente psicologica? Evidentemente no. Le risonanze religiose di cui Agacinski, da laica, carica il significato della filiazione trovano una contropartita perfettamente speculare nell’immagine sottesa alla rappresentazione della surrogata. Non è sorprendente, né dovuto a contingenze dell’ultima ora, il fatto che la battaglia abolizionista incontri il favore della Chiesa di Roma: il punto di intersezione essendo costituito non soltanto da una visione comune del materno e del suo ruolo fondativo, ma anche dalla possibilità di codificare — tramite un paradigma di malafede facilmente iterabile — la defezione dalla norma che sancisce l’inaffidabilità sociale delle subalterne come un’azione economica aberrante in cui si manifesta la faccia triviale e quotidiana dell’incapacità di comprendere la verità.
La cancellazione delle surrogate dal rango dei discorsi problematici e la loro riduzione a figura retorica idonea a sintetizzare la forma di un autospossessamento perverso sono tanto più vistose e singolari nell’ambito di una civiltà che ha fatto del mercato uno specchio della socialità, associando la rispettabilità delle persone alla loro capacità di effettuare scelte economiche riconosciute come sensate. Invalidare come «banali» quelle compiute dalle surrogate, specie se in contesti caratterizzati dalla carenza di opzioni alternative, equivale non solo a mettere tra pudiche parentesi le circostanze oggettive della scelta, ma pure a respingere nell’ombra il giudizio che si esprime tramite un comportamento.
Si pensi soltanto alle ricerche effettuate in India, uno dei poli in crescita dell’industria transnazionale della surrogazione, interessante per più aspetti, non ultima l’impossibilità di scindere il tema dello sfruttamento riproduttivo da quello della riorganizzazione globale dei mercati del lavoro. Produzione e riproduzione si intrecciano qui in maniera inestricabile, ed è questa intersezione a plasmare tanto il regime disciplinare del biolavoro riproduttivo, quanto le strategie di negoziazione messe in atto dalle donne nei giochi economici minuti dell’esistenza quotidiana. Dall’inchiesta svolta nel 2011 da Sharmila Rudrappa tra le surrogate indiane di Bangalore risulta, per esempio, che «l’industria della riproduzione offre a donne come Indirani», un’operaia di trent’anni con famiglia carico, «la possibilità di estrarre un valore maggiore dai loro corpi una volta che sono state giudicate lavoratrici improduttive dall’industria tessile. Per via del suo carattere affermativo di vita, Indirani e la altre vedono la surrogazione, per quanto caratterizzata dallo sfruttamento, come un’opzione più creativa e significativa del lavoro in fabbrica». Si possono affiancare testimonianze come queste a quelle raccolte da Amrita Pande e Varada Madge nel Gujarat. Sottrarsi alle condizioni infernali del lavoro di fabbrica, aggravato dalle cure familiari; far fronte a una situazione debitoria senza ricorrere alla famiglia; garantirsi un livello di stabilità finanziaria necessario a ottenere la custodia di un figlio in caso di separazione; far fronte a spese mediche impreviste; integrare un reddito familiare insufficiente a coprire le spese per la scolarizzazione dei figli; tentare di volgere a proprio vantaggio una fertilità che, nel contesto postcoloniale indiano, caratterizzato da politiche antanataliste orientate a colpire le fasce sociali più basse e dove la sterilizzazione resta il metodo contraccettivo più popolare, è sempre stata stigmatizzata come causa di povertà: sono queste le «banalità» che, contrariamente a quanto crede l’impeto moralizzatore abolizionista che nulla ha da eccepire alle condizioni «ordinarie» dello sfruttamento produttivo e riproduttivo, rendono significativi i comportamenti delle surrogate. È precisamente con queste «banalità» che occorre tornare a misurarsi per cogliere i livelli reali della dominazione fronteggiati dalle donne reclutate dall’industria della surrogazione: per rendersi conto, per esempio, che non è l’alterazione biotecnologica della funzione materna, ma la sua «naturalizzazione» ad abbassare il valore della forza-lavoro di questi soggetti e a rendere complessivamente fragile la loro posizione contrattuale; che è la tendenza a dipingerle come vittime bisognose in attesa di salvezza, non l’attenzione ai livelli di soggettivazione, a puntellare la mentalità neocoloniale e a legittimare l’idea che ricorrere a una surrogata del sud globale equivalga a finanziare meritoriamente una causa umanitaria; che non è l’accettazione, bensì la stigmatizzazione sociale del lavoro riproduttivo remunerato a permettere alle istanze intermediarie (reclutatori, medici) di sorvegliarlo e disciplinarlo, finalizzandolo alle esigenze soverchianti della clientela occidentale; che non è dalle campagne proibizioniste internazionali che queste donne si aspettano la salvezza, ma da un maggiore controllo sulle condizioni del proprio lavoro e della propria vita.
Riferimenti
Agacinski, Sylviane
1998 Politique des sexes, Seuil, Paris; trad. it. La politica dei sessi, Ponte delle Grazie, Milano 1998.
2013 Corps en miettes, Flammarion, Paris (prima ed. 2009).
Appadurai, Arjun
2013 The Future as Cultural Fact. Essays on Global Condition, Verso, London-New York; trad. it. Il futuro come fatto culturale. Saggi sulla condizione globale, Raffaello Cortina, Milano 2014.
Arendt, Hannah
1951 The Origins of Totalitarianism, Harcourt, Brace and Co., New York; trad. it. Le origini del totalitarismo, Edizioni di Comunità, Torino 1999.
Bacchetta, Paola; Fantone, Laura (a cura di)
2015 Femmminismi queer postcoloniali. Critiche transnazionali all’omofobia, all’islamofobia e all’omonazionalismo, ombre corte, Verona.
Cooper, Melissa; Waldby, Catherine
2014 Clinical Labor. Tissue Donors and Research Subjects in the Global Bioeconomy, Duke University Press, Durham; trad. it. Biolavoro globale. Corpi e nuova manodopera, DeriveApprodi, Roma 2015.
Dasgupta, Sayantani; Das Dasgupta, Shamita (a cura di)
2014 Globalization and Transnational Surrogacy in India, Lexington Books, Lanham.
Pande, Amrita
2014 Wombs in Labor. Transnational Commercial Surrogacy in India, Columbia University Press, New York.
Rudrappa, Sharmila
2015 Discounted Life. The Price of Global Surrogacy in India, New York University Press, New York-London.
SAMA GROUP – Resource Group for Women and Health
2012 Birthing a Market. A Study on Commercial Surrogacy, Impulsive Creations, New Delhi.
Todeschini, Giacomo
2011 Come Giuda. La gente comune e i giochi dell’economia all’inizio dell’epoca moderna, il Mulino, Bologna.
GPA: Monsieur le président de la République…, «Libération», 14.07.2014, www.liberation.fr
Manuel Valls: «La France entend promovoir une initiative internationale sur la GPA», «La Croix», 2.10.2014, <www.la-croix.com>
Les évêques européens s’opposent à la gestation pour autrui, «La Croix», 24.02.2015 www.la-croix.com.
Mah! Questo articolo mi sembra soltanto confermare l’inadeguatezza degli strumenti forniti dal femminismo teorico.
ma quando mi hanno detto “identità periclitanti” non ci ho più visto ….
Confesso che non ce l’ho fatta a leggerlo tutto (ho letto a sbalzi). Il tema m’interessa e m’interessa anche il punto di vista dell’autrice, ma mi sono chiesto spesso per chi è stato scritto questo intervento, scegliendo il linguaggio che usa. L’altra questione che mi lascia perplesso è la scelta, in un intervento cosi articolato, di sacrificare una parte documentaria più esplicita, ad esempio sulla situazione indiana. Mi sembra che troppe cose sono date per scontate ed acquisite, quando anche sul piano fattuale non mi sembra che ci sia questo sapere cosi ampiamente condiviso.
C’è una parola che a me viene in mente, e che esito un po’ a scrivere per come tu, Andrea, l’hai discussa nel suo utilizzo nei confronti della poesia: autoreferenzialità.
Da un lato l’accusa di autoreferenzialità nei confronti di questo testo è ingenerosa: Se Ardilli è una femminista accademica è naturale che i testi che scrive siano indirizzati ad altri accademici. Voglio dire, non mi stupisco quando i ricercatori di un qualsiasi campo scientifico o medico scrivono per altri ricercatori, perché dovrei stupirmi quando una femminista teorica scrive per altre femministe teoriche?
Dall’altro lato Nazione Indiana non è un sito di ricerca accademica: se Sparzani è in grado di scrivere di fisica in maniera comprensibile pur rivolgendosi a profani come la sottoscritta, perché non dovrebbe analogamente riuscirci Ardilli?
Tutto ciò a prescindere dal fatto che, mentre gli articoli di ricerca medica, ad esempio, finiscono per influenzare la pratica della medicina, ho l’impressione che il campo d’influenza del femminismo teorico sia limitato al femminismo teorico stesso, e questo più per via dell’inadeguatezza dei suoi strumenti, come già avevo accennato, che per cause esterne.