Diario parigino 6. Su islamofobia e bigottismo (a margine del costumone).
Di Andrea Inglese
Questo intervento ha un obiettivo specifico. Voglio cercare di mostrare che combattere l’islamofobia, o forme di razzismo esplicito antiarabo, che prosperano nell’opinione pubblica occidentale, non implica disconoscere o mettere in sordina la battaglia per la laicità, che considero sia, ovunque nel mondo, attraverso espressioni che possono avere storie e forme diverse da cultura a cultura, una precondizione indispensabile per una visione radicalmente democratica della società.
Potrebbe sembrare che sfondi una porta aperta, almeno presso dei lettori che si definiscono di sinistra. E me lo auguro. Seguendo però pezzi di dibattito, sviluppatosi in ordine sparso su stampa, blog e facebook, intorno alla questione del burkini sulle spiagge estive e sulla necessità o meno di proibirlo, mi sono sentito un po’ a disagio, leggendo alcuni interventi antiproibizionisti. Dico subito che i sindaci di destra che hanno deciso di legiferare a livello municipale, per vietare a un numero irrilevante di bigotte di entrare nell’acqua con il costumone copri-tutto, sedicente islamico, lo hanno fatto per ragioni di pura propaganda islamofobica. Quindi trovo condannabile tale decisione e trovo fuorviante che, in nome del femminismo o della laicità, si voglia accreditare la ragionevolezza di una tale norma municipale. Il nerbo dell’argomentazione, in questo caso, mi sembra essere questo: come è possibile giustificare in modo umanamente intelligibile che un costumone bigotto, sia esso indossato in spiaggia per motivi religiosi, idiosincratici, o semplicemente modaioli, possa costituire una minaccia all’ordine pubblico, all’igiene, o alla decenza dei comportamenti? Un’analisi non particolarmente accademica o specialistica dovrebbe mostrare a sufficienza come a monte di tale polemica e decisione politica vi sia una giustificazione di tipo islamofobico e stigmatizzante. Trovo quindi bizzarro che la giusta reazione antirazzista finisca in alcuni casi per concentrarsi sul diritto a infilarsi il costumone bigotto, attitudine che è interpretata come una forma di libera espressione contro ogni discriminazione e maschilismo, finendo in alcuni casi per divenire persino l’avanguardia di uno spirito anticapitalistico e anticonsumistico. Nessuno ha paura che un costumone turbi l’ordine pubblico, e nessuno può crede veramente che quattro tipe supercostumate abbiano questi magici poteri. Da qui a concludere che le critiche rivolte alla donna che si scopre sono equivalenti a quelle rivolte alla donna che si copre, ossia sempre illegittime, maschiliste, se fatte da uomini, e razziste, se fatte da donne, mi sembra un passo non necessario. Come non mi convince chi considera illegittima una valutazione del costumone, a meno che non passi, in qualche modo, per il vaglio dei soggetti che lo portano e che quindi sembrerebbero in ultima analisi gli unici depositari del suo significato sociale e pubblico.
Per contrastare questi sindaci sceriffi, come tanti ne abbiamo avuti noi in Italia, leghisti o meno, che legiferavano sul mangiare nei parchi o sullo sdraiarsi nell’erba, parrebbe sia necessario mostrare la rispettabilità, anzi l’auspicabilità dei costumoni coprenti, cercando di trovare nelle intenzioni di chi li indossa delle possibili virtù emancipatrici e magari pure anticapitalistiche. Magari è meglio di no. E soprattutto non ce n’è bisogno. Non c’è bisogno d’incoraggiare i rigoristi religiosi per denunciare degli atteggiamenti islamofobici e razzisti.
Per altro, prendere troppo sul serio le supercostumate con atteggiamento multiculturale aggiornato, finisce per fare sia il gioco della destra, da un lato, sia dei rigoristi più ottusi, dall’altro. Cosa fa la destra, in Francia, ma anche in altre parti dell’Europa, venendo spesso accompagnata, se non anticipata da partiti e governi di sinistra? Prende quattro gatte che girano in spiaggia con il burkini, e dice: “Guardate a che orrore di sopraffazione e barbarie nei confronti della donna conduce la religione musulmana”. Prende, insomma, un’attitudine di una piccola minoranza di persone nel grande calderone dei popoli di religione musulmana, e la erge a espressione di una tendenza profonda, se non addirittura dell’essenza di un cosiddetto islam, che si ripeterebbe identico dalle regioni africane subsahariane fino all’Indonesia. (Quando la destra propone un discorso più accorto, circoscrive questa essenza all’islam praticato nel mondo arabo.) Coloro che, per combattere questo razzismo, difendono il diritto delle donne musulmane a mettersi il burkini, prendono insomma per buona l’indebita e perniciosa generalizzazione iniziale. In questo modo, finiscono per confermare l’equivalenza burkini e islam autentico, dimenticando che c’è una marea di donne arabe o donne semplicemente musulmane che non hanno niente a che vedere con il burkini, siano esse praticanti o meno. E questa equivalenza va benissimo a coloro che, in occidente e nel mondo arabo (o in paesi di religione musulmana), credono nello scontro di civiltà, e nell’idea di una incompatibilità tra “noi” e “loro”.
Chi non ci crede a questa equivalenza, invece, considera che ogni cultura, e ogni religione, deve fare i conti con le proprie forme di bigottismo, che certo non si possono eradicare, perché in qualche modo connaturate con la cultura e la religione stessa, ma dalle quali bisogna sapersi difendere, spesso con l’arma “dolce” dell’umorismo e della derisione. Ancora una volta, c’è una bella differenza tra demonizzare e assecondare. Si può essere contrari a indebite demonizzazioni, senza per questo abbassare la guardia. Anche perché il rigorismo religioso su una spiaggia davvero può fare ben pochi danni, ma quando si sposta sul terreno della politica può essere pericolosissimo, come il caso del crescente peso del messianismo ebraico nella politica di Israele dimostra o quello del fondamentalismo cristiano durante i mandati di George Bush, per citare paesi occidentali considerati campioni di “democrazia”.
interessante intervento, caro Andrea, su una questione che, se non precisata accuratamente, ha dei confini un po’ sfumati. Quando dico “precisata” intendo questo: per me la differenza fondamentale è tra costumone che copre anche il viso e quello che invece lo lascia libero.
Ora io voglio ragionare del tutto indipendentemente dalle più o meno false ragioni che ispirano i vari sindaci a fare quello che fanno.
Su qualsiasi abbigliamento che lascia visibile il viso io non vedo francamente cosa ci sia da obiettare: non più tardi di un’ottantina di anni fa le donne italiane andavano al mare e facevano il bagno tutte vestite: tuttora le nostre suore in spiaggia fanno così, per non parlare di quelli che intendono mettersi una muta perché l’acqua è troppo fredda o perché contano di restarci a lungo.
Invece, spiaggia o non spiaggia, io sono contrario a qualsiasi indumento che copra abbastanza completamente anche il viso, perché credo che la riconoscibilità sia comunque un valore da rispettare, per ragioni giuridiche ma non solo.
Segnalo anche questo interessante post e il relativo dibattito sull’argomento: https://lapoesiaelospirito.wordpress.com/2016/08/19/la-liberta-e-unaltra-cosa/
Caro Sparz, sono del tutto d’accordo. Non vedo come un costume bigotto messo da sparuti gruppi di persone possano costituire un problema, una minaccia, un alcunché che debba mobilitare norme specifiche o leggi. Mi premeva sottolineare che l’idiozia dei vari islamofobi non lo rende pero’ un costume meno bigotto, né particolarmente significativo per comprendere cosa sia l’islam “in generale” (visto che tale entità non esiste). Grazie della segnalazione, andro ‘ a leggere.
Per me non è religione. Ma ancora una maniera di chiudere il corpo della donna. Impedire uno slancio di sensualità con il mondo. Fare della donna un’ombra.
Nuotare è sensualità nel abbraccio del mare,nella leggereza. Una felicità.
Non mi piace que le donne sianno il campo di battiglia. Come sempre.
Provo solo un disaggio, quando vedo una donna prigioniera, quando il mare aspetta da noi la nostra libertà.
Andrea, scrivi:
“… per vietare a un numero irrilevante di bigotte di entrare nell’acqua”
“… come è possibile giustificare in modo umanamente intelligibile che un costumone bigotto, sia esso indossato in spiaggia per motivi religiosi, idiosincratici, o semplicemente modaioli, possa costituire una minaccia all’ordine pubblico, all’igiene, o alla decenza dei comportamenti?”
Per come scrivi, mi pare, il lettore non dovrebbe porsi queste due domande: perché quel costume è bigotto? perché chi lo indossa è bigotto?
Sono domande retoricamente protette ponendole nel cono d’ombra – ripeto così pare a me – dell’ovvio.
Io invece mi pongo quelle due domande, quindi chiedo a te la risposta: perché?
Hai perfettamente ragione. Do’ per scontato che, nella nostra cultura almeno, non sia difficile riconoscere un atteggiamento bigotto. Naturalmente ho aperto anche alla possibilità d’interpretazioni del burkini di tipo “idiosincratico” (ho una fobia della nudità, per esempio)e “modaiolo” (lo porto perché mi piace distinguermi dalle donne in bikini e perché coprirmi spalle e gambe quando vado in acqua lo ritengo di miglior gusto). Non prendo in considerazioni questi due interpretazioni perché sono ancora meno pertinenti, in una discussione sul divieto. E anche perché, in questo caso, la religione (e quindi l’islam) non c’entrerebbe proprio nulla.
Partiamo da: l’abito di una monaca è eccessivo? Nella religione cattolica, il clero si considera diverso dal resto delle persone, in quanto svolge un ruolo di mediazione tra Dio e l’umanità, ben codificato dall’istituzione ecclesiastica. Quindi se chiedi a me ateo, trovi eccessivo come si vestono le monache, il voto di castità, e tante altre belle cose. Risposta: si, generalmente trovo tutto cio’ eccessivo e da questo punto di vista trovo più emancipatrice la religione protestante che ha fatto saltare questo ruolo privilegiato e eccezionale di mediazione. Ma vediamo le cose dall’interno di una morale religiosa. Tu compari “malamente” un abito sacerdotale (velo delle monache) con un abito civile (burkini). E’ bigotta una cattolica “laica” che vestisse come una suora? Secondo me si. Ora lanciati pure – ma a te l’onere della prova – nella dimostrazione che invece solo le cattoliche (laiche) che si vestono come le suore hanno fede autentica o in ogni caso maggiore di quelle altre cattoliche, che si mettono a braccia nude.
(Punto importante: perché il costumone sia bigotto [e non semplicemente stravagante], bisogna che se ne dia una giustificazione religiosa.)
@ Andrea Inglese
Per facilitare la risposta riporto il significato di “bigotto” del dizionario dell’uso De Mauro:
“chi dimostra una religiosità eccessiva e puramente esteriore”
se la condividi, spiegami che cosa si può considerare ‘eccessivo’ di un indumento (per esempio l’abito di una monaca o di un sacerdote è ‘eccessivo’?), e perché indossare un indumento che copre il corpo corrisponde a una religiosità ‘esteriore’ (non potrebbe essere espressione autentica di un sentimento religioso profondo?).
@ Sparz
Scrivi: “Invece, spiaggia o non spiaggia, io sono contrario a qualsiasi indumento che copra abbastanza completamente anche il viso, perché credo che la riconoscibilità sia comunque un valore da rispettare, per ragioni giuridiche ma non solo.”
Per il Consiglio di Stato (2008) non esistono “ragioni giuridiche” nell’ordinamento italiano per vietare in modo assoluto l’uso del burqa.
Qui è la sentenza:
http://www.stranieriinitalia.it/consiglio-di-stato/archivio-giuridico-sentenze/consiglio-di-stato/consiglio-di-stato-sentenza-19-giugno-2008-illegittimo-vietare-luso-del-burqa-tradizione-culturale.html
Qui una parte del testo:
“Con riferimento al ‘velo che copre il volto’, o in particolare al burqa, si tratta di un utilizzo che generalmente non è diretto ad evitare il riconoscimento, ma costituisce attuazione di una tradizione di determinate popolazioni e culture.
Ciò che rileva sotto il profilo giuridico è che non si è in presenza di un mezzo finalizzato a impedire senza giustificato motivo il riconoscimento.
E’ consentito nel nostro ordinamento (ai sensi dell’art. 5 della legge n. 152/1975) che una persona indossi il velo per motivi religiosi o culturali; le esigenze di pubblica sicurezza sono soddisfatte dal divieto di utilizzo in occasione di manifestazioni e dall’obbligo per tali persone di sottoporsi all’identificazione e alla rimozione del velo, ove necessario a tal fine. Resta fermo che tale interpretazione non esclude che in determinati luoghi o da parte di specifici ordinamenti possano essere previste, anche in via amministrativa, regole comportamentali diverse incompatibili con il suddetto utilizzo, purché ovviamente trovino una ragionevole e legittima giustificazione sulla base di specifiche e settoriali esigenze.”
Caro Sparz,
ho letto il post di Monica Mazzitelli. Io sono più severo sui moventi islamofobici dei politici francesi e del dibattito che ne è nato. Ma c’è una cosa importantissima che Monica dice molto bene, che si riferisce senz’altro al burkini, ma anche ad altre forme di eccessiva pudicizia unilaterale che spetterebbe alla donna, nei vestiti e negli atteggiamenti. Ecco il passo:
“una donna che – si pensi bene! – va nascosta non per “contenere” se stessa, ma per ciò che la sua contemplazione può generare in un altro, al quale si toglie ogni responsabilità personale. La donna colpevole perché possibile oggetto di desiderio. La punizione della donna per ciò che forse suscita.”
le religioni non sono del tutto irrazionali, soprattutto quando non si parla del divino, ma del quotidiano, conoscendo il periodo in cui si sono sviluppate.
grazie @Andrea b per la citazione della legge italiana. Io cercavo di mettermi da un punto di vista il più laico possibile, così: se io, cittadino qualunque, vedo in spiaggia o per la strada una persona che è tutta velata tranne il viso, mi agito e mi spavento? No certo, al massimo posso pensare che se si butta in acqua con tutti i vestiti addosso starà scomoda, ma lo farà, mi immaginerei, per qualche suo privato motivo.
Se invece vedo qualcuno, in qualsiasi luogo, tutto velato viso compreso, allora provo un senso di insicurezza che non mi piace; già i motociclisti col casco integrale mi piacciono poco, per quel valore della riconoscibilità che dicevo. Capisco la sentenza del consiglio di stato, che peraltro prevede l’obbligo di mostrare il viso a richiesta delle autorità, ma in questo caso io sarei più restrittivo.
Caro Inglès, l’islamofobia, come ben sai, si annida in strati profondi e sottili e fa parte, credo, di un sentimento più generale, l’atavica paura del diverso, che rappresenta comunque un pericolo per la nostra incolumità: siamo primati, nel fondo, non dimentichiamolo; fortunatamente la convivenza civile — civile, da cives, appartenente a una comunità — ci ha insegnato a superare questa paura, per quel che è possibile.
@ Andrea Inglese
Non ho idea di come si possa ‘misurare’ la religiosità, mi sembra anche senza senso pensare di farlo. E’ un sentimento, non è una cosa che tocco, che peso, non ho un test psicometrico o roba del genere. Per me, per la nostra cultura giuridica il sentimento religioso non è un diritto qualsiasi: è un diritto umano.
Siccome non è un mio sentimento e non sono cresciuto secondo norme religiose (non sono nemmeno battezzato), davanti a una persona religiosa penso semplicemente che è una vita diversa dalla mia. Se per la sua vita è importante chiudere il corpo in un involucro, renderlo invisibile nell’interazione quotidiana, perché questo rende il corpo congruo al suo sentimento religioso, non ho il potere di vietare, nemmeno in quel modo più blando che è descriverl* utilizzando la cosiddetta ‘sanzione del ridicolo’.
Io non ho questo “innocente” atteggiamento nei confronti delle credenze religiose che hai tu. Quello che ho letto sui libri di storia mi ha tolto del tutto questo candore. Ma non m’interessa discutere su questo. Quanto alla sanzione del “ridicolo”, spiega in quale modo “vieterebbe blandamente”, o che cosa voglia dire un “veto blando”, connesso con le armi dell’umorismo.
Più che altro nel caso del burka, non stiamo alla volontà di chiudersi in un involucro, quanto alla volontà di chiudere in un involucro, e si può vietare eccome, come qualsiasi atto violento può essere vietato.
Il problema è soltanto la coercizione; invece è arbitrario ridurre il velo islamico alla coercizione. Quando le norme di divieto sono arrivate nei tribunali erano donne islamiche a impugnarle. Quindi: o si ammette che non c’è sempre coercizione; o si delegittimano quelle donne come incompetenti mentali.
che non ci sia sempre coercizione penso siamo tutti d’accordo.
E’ chiaro: si vieta un comportamento sanzionandolo.
“Il riso – come diceva già Bergson è la sanzione con cui si colpisce il distratto, l’isolato, l’insocievole. L’effetto comico è la risposta della collettività a una imperdonabile mancanza commessa nei suoi confronti; il ridicolo è in questo senso una vera e propria sanzione, una forma di controllo sociale che non viene demandata a organi e funzionari ad hoc, ma che è la società in generale a esercitare.
L’effetto e l’intenzione sanzionatori sono dunque comuni al comico e alla
legge.” (“Il comico e la legge”, Marchesiello)
La sanzione del ridicolo non è violenta come un cherem, ma comunque costituisce un soggetto inadeguato, così per esempio vedendo apparire questa immagine:
http://ep01.epimg.net/ccaa/imagenes/2013/06/22/catalunya/1371920257_460547_1371926767_noticia_normal.jpg
si penserà che è una ridicola bigotta. Invece è Teresa Forcades che di bigotto non ha un bel nulla.
Oppure vedendo questo video, saremo portati a pensare che sia una ragazza un po’ folle, magari andando a finire su qualche spiegazione psicoanalitica, qualcosa che le è mancato durante l’infanzia.
http://www.internazionale.it/video/2015/07/15/il-mio-velo-e-femminista
Puoi spezzare il capello in 24 parti, equiparare – facendo una lettura “letterale” di un classico della filosofia, perdendone tutto lo spirito – la sanzione sociale del riso con quella della polizia mossa da decreto comunale; puoi confondere discussione sul velo e quella sul burkini, oppure confondere il velo “sacerdotale” di una suora e un abito di una persona laica che copre in modo inabituale il corpo. Non ti seguiro’ in questa discussione sterile. Il bigottismo per me esiste. E come tale esiste modo di difendersene. Quello che sta avvenendo vergognosamente in Francia è tutt’altra faccenda, come riconosco subito e chiaramente all’inizio del mio pezzo.
Duole vedere come un pezzo cosi chiaro equilibrato e condivisibile non si salvi dal clima grottesco che si e’ creato a sinistra su questo tema, affrontato fin dall’inizio dalla prospettiva sbagliata questione di genere tout court. Se il divieto di esibire costumi identitari ‘sfidanti ‘ (e’ che e partito da nizza, citta’ in lutto da meno di due mesi, circostanza che si continua a sottovalutare anche crudelmente, secondo me)ricade solo.sulle.donne e’ solo perche sono le donne a indossarli. Ma questo non dipende dai sindaci ottusi. Dipende da una concezione religioso culturale oltranzista.
Oggi il 26 luglio, il Consiglio di Stato francese (il giudice di ultimo grado per i ricorsi mossi contro le decisioni prese da un’autorità pubblica) ha annullato le decisioni del tribunale amministrativo di Nizza e ha invalidato l’ordinanza municipale di Villeneuve-Loubet contro il permesso d’indossare abiti religiosi (burkini) in spiaggia.
Come precisa “Le monde”, la decisione del Consiglio di Stato funge ora da riferimento, per rendere nulle, in caso di ricorso, tutte le altre ordinanze municipali dello stesso tenore, che sono state adottate in 30 altri comuni francesi.
Nel testo che motiva la sua decisione, il Consiglio di Stato afferma: che l’ordinanza contestata (quella anti-burkini) “ha costituito un danno grave e palesemente illegale alle libertà fondamentali che sono la libertà di andare e venire, la libertà di coscienza e la libertà personale”.
Faccio notare qualcosa.
Andrea Inglese scrive nel topic che monica il 26 agosto 2016 alle 13:00 trova “un pezzo cosi chiaro equilibrato e condivisibile”:
“Quindi trovo condannabile tale decisione e trovo fuorviante che, in nome del femminismo o della laicità, si voglia accreditare la ragionevolezza di una tale norma municipale. Il nerbo dell’argomentazione, in questo caso, mi sembra essere questo: come è possibile giustificare in modo umanamente intelligibile che un costumone bigotto, sia esso indossato in spiaggia per motivi religiosi, idiosincratici, o semplicemente modaioli, possa costituire una minaccia all’ordine pubblico, all’igiene, o alla decenza dei comportamenti?”
Questo testo da un lato sostiene che il fondamento del divieto non è l’ordine pubblico. Questo è ovvio a tutt*, la decisione di censura delle ordinanze da parte del Consiglio di Stato era altrettanto ovvia, ma questo lo sapevano anche i sindaci.
Bene, ora chiediamoci dall’altro lato che cosa “fa” il testo di Andrea Inglese, perché le parole hanno una dimensione pragmatica di azione nel mondo. Il suo testo dà per scontato che 1) il “burkini” sia bigotto, 2) che sia indossato da donne islamiche bigotte.
Produce insomma un soggetto: la donna islamica bigotta col costumone bigotto. Allora ho chesto di darmi conto del perché dovrei identificare le donne islamiche in burkini come bigotte con addosso un “costumone” bigotto, dato che per me non è affatto ovvio – ritengo infatti che tutto ciò che accade sia molto più complesso della costituzione soggettiva di Andrea, costituzione soggettiva che è oltretutto contraria ad alcuni diritti fondamentali della persona come sottolineato dalla corte francese e come avevo già sottolineato io “per me, per la nostra cultura giuridica il sentimento religioso non è un diritto qualsiasi: è un diritto umano” (la corte francese scrive libertà di coscienza per libertà religiosa).
La produzione del soggetto donna islamica bigotta con costumone bigotto, retoricamente si aggrappa alla forza del ridicolo. Ridicolizzando rende oneroso un comportamento: ridicolizzando vieta. E’la cosiddetta sanzione del ridicolo.
Andrea non ha spiegato nulla, ha soltanto ribadito che il bigottismo sarebbe “ovvio”.
Ecco, questo è il pezzo che secondo Monica sarebbe “chiaro equilibrato e condivisibile”.
La mia posizione invece, che poi è quella che appartiene, ripeto, alla nostra cultura giuridica, ai valori costituzionali fondanti e antifascisti, è di rispetto per la religiosità delle donne islamiche, rispetto che implica non etichettarle come “bigotte” perché indossano un costume che copre il corpo. Possono circolare così, andare in spiaggia o dovunque vogliano, mantenendo lo stesso rispetto di tutte le altre persone vestite diversamente.
scusa, ma a me pare che stai esagerando, tirando in ballo la cultura giuridica, che non c’entra un accidente. Intanto, il sentimento religioso non è un diritto umano, i diritti umani non esistono in natura. Poi, se tutti vogliamo metterci d’accordo e crederci è un altro conto, ma i fatti quelli restano. E vale lo stesso per il rispetto. Si contratta, non lo stabilisce una norma. Allora un conto è non ridicolizzare una che si mette il burkini, per rispetto, e un conto è pretendere che uno non pensi nulla di fronte a un comportamento del genere. Se una si mette un costume per fede, è bigotta. Non è una criminale, non è pericolosa, non è tutto quello che ti pare, ma è bigotta, sta facendo una cosa del tutto irrazionale, per seguire una fede imbecille, come tutte le fedi. E non mi puoi venire a dire che pensare che le fedi sono imbecilli sia mancanza di rispetto. Poi, io per rispetto queste cose non le direi mai a un credente, perché rispetto le persone, non le idee.
“Ogni individuo ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare religione o credo, e la libertà di manifestare, isolatamente o in comune, e sia in pubblico che in privato, la propria religione o il proprio credo nell’insegnamento, nelle pratiche, nel culto e nell’osservanza dei riti.”
Nazioni Unite, 1948, Dichiarazione universale dei diritti umani, art 18.
grazie per avermi fatto scoprire questo articolo, e le Nazioni Unite
Andrea B,
Cercare la sfumatura nella discussione fa passare su una riva immaginaria.
Poco reale.
Ragazze con la pressione della famiglia si velano il corpo. Chi puo sostenere che sia atto di libertà?
Si sentono voci di uomini.Sempre. Per scrivere sul corpo delle donne.
Chi puo sostenere che nuotare nel mare sia ancora un piacere, quando siamo vestiti come per andare nelle strade?
Certo, preferisco vedere donne alla spiaggia, anche in burkini.
Non sono d’accordo per vietare e fare pagare donne che non sono colpevoli di niente.
In realità sono colpevoli di essere donne…
Ho sempre sentito l’ingustizia fatta alle donne.
Il burkini rappresenta una forma d’ineguaglianza.
Nella dibattito politico in Francia ho trovato isteria nel campo degli oppositori al burkini, e grande ipocrisia per chi difende il burkini in nomine della libertà.
Finalmente un dibattito noioso.
Perché se vedo una donna con un burkini alla spiaggia, non la guarderó con ostilità.
Non faró attenzione.
Si, un dibattito noioso. Il problema del burkini si attenuerá da se. E cosí i fondamentalismi che convincono i ragazzini a indossare cinture esplosive e a portare con sé all’altro mondo gli infedeli o giú di li. Dirimere con dei distinguo lascia il tempo che trova.Peró….
Il problema della polemica sul burkini è l’assenza di visibilità delle donne che lottano per liberarsi. Donne che lottano con coraggio in Francia, in Tunisia, in Egypta. ..
Penso che ‘bigotto’ in questo.pezzo fosse una scatola , un contenitore di significati che il.testo chiariva. Le argomentazioni a difesa della persona , della molteplicita’ dei vissuti, sono gia’ implicite nel considerare un errore quel divieto, un errore che il consiglio di Stato ha annullato con la.sua pronuncia. Ma il consiglio di stato non puo’ stabilire l’effetto che una donna coperta fa a me. Non puo’ decidere che debba piacermi o vederci una forma di liberta’ e progresso. D’altronde, se i divieti di nudo che abbiamo accettato supinamente finora fossero rimossi con la stessa ratio, io.personalmente ne sarei lieta, ma non potrei pretendere che lo fossero tutti.
Monica, “bigotto” sarà anche un contenitore di significati, ma non ce n’è uno che non sminuisca la persona, e non vedo come creando un’etichetta stigmatizzante una classe di persone, si possa difendere la persona e la molteplicità dei vissuti.
Se il problema è la reazione di avversione, di disgusto, nei confronti del corpo femminile coperto dal burkini, bisogna ammetterlo e ragionarci sopra provando a superare questa reazione a pelle. Tra l’altro nessuno obbliga a vederci una forma di progresso, sopra ho parlato semplicemente di accettare una vita diversa dalla nostra, questo implica soltanto lasciare in pace quelle persone.
Lasciare in pace le donne,si. Ma non lasciare la piazza a chi vede il corpo della donna come una prigione.
Non dimenticare la lotta negli anni 70.
Dove sono gli uomini defensori delle donne che oggi lottano per vivere libere nel mondo?
Lasciate il corpo delle donne in pace. Senza volere fare da lui un corpo di battiglia o un corpo vergognoso.
Che significa vita diversa? Un corpo prigioniero ? Una bocca silenziosa?
Una mano che non scrive, crea ?
Una donna in cucina tra muri?
La dominazione del padre e del fratello?
Véronique aggiunge un nuovo tassello alla stigmatizzazione delle donne islamiche con il corpo coperto: “Una mano che non scrive, crea?”
Allora pubblico qui una bellissima foto:
http://images.mentalfloss.com/sites/default/files/styles/article_640x430/public/7n0a6534_sm.jpg
Da un lato della stanza, seduta al tavolo, vestita come nella tradizione islamica, Tahereh Mafi scrive uno dei suoi libri. Dall’altro lato, sulla poltrona, suo marito Ransom Riggs, anche lui scrittore, vestito come nella tradizione occidentale, sta leggendo un libro.
Riconosco che ho sbagliato parlando della scrittura e della creazione artistica.
Per il burkini, continuo di pensare che è un segno di discriminazione per le donne.
vietare il burkini significa aiutare queste (pochissime tra l’altro) donne?