Gli Scomparsi
di Maria Grazia Calandrone
I muschi pavimentano le primavere
Era buio, quella sera – un buio
molto lento e tranquillo – dal quale apparve
la vecchia con lo scialle e la lunga gonna
nera. Disse se vuoi salvare
la tua bambina, lasciala digiuna
tutto il giorno, e la notte le devi
solamente parlare
della grande distanza del paradiso.
Di lei mi resta
il lapsus sulla lingua tra figlia e vita mia.
***
Lo spiegamento di forze all’apparire del chiaro
Gli alberi occupano l’aurora della famiglia. L’animale
è una massa di attenzione, musica che sale
dai gomiti appoggiati alla terra. La campagna, quel grumo essenziale
di rondoni e polvere serena, è ora tavola, macero
e orinatoio, principio attivo dell’anima.
Lei trasformata
dalla scoperta che l’amore vibrava come un timpano d’acqua dalla base del tempo. Lo rivelano
le tracce ritrovate successivamente in mare – sulla città di pietra degli scogli
e l’impronta caucasica della scomparsa.
Mamma – mi sento come se volassi – davanti
a queste statue che ti somigliano. Indagine
della sbordatura plantare, la luce – poco incline – sulla spalla:
rosa vinosa
d’alba fiorentina. Non mi hanno ridato l’impermeabile
che avevo offerto
per coprire il suo eccesso di opacità.
Domando cosa non l’abbia fatta risplendere: il mio corpo da latte
era carico di misericordia. Sovrastate – restituite
allo stato di cose, le sue ossa dolevano grandiosamente, mute
come respira muto dalle origini il neutro.
17 febbraio 2004
***
Vendemmia delle spade
Lui veniva attraverso il tramonto con le coperte militari e il corpo di ragazzo
frastornato – ma io l’ho visto dritto sulle scale
come una spanna di salute, spasmo
di calore nel lago bianco del vento
elettrico, pronto alle piogge e ad assecondare
le bolle d’erba del terreno. Diceva appena: io ricordo tutto
della fonderia – tutti i camion, che invece sono
cose solide, cose alle quali si deve prestare attenzione come a un flusso autodisciplinato del pensiero.
Mamma, tutti i malati – tutti
i moribondi – ciò che era vivente perché respirava e ora soffre e ancora
resta unito – o durante
la severa scissione della morte:
tutti quelli che parlano ancora, la loro ultima
parola in vita è
quella – e io
la sento, la schiena china sul lavatoio dei corpi per debolezza, non più
per amore.
Io dichiaro di non riconoscere. Avevo
la fabbrica chimica della sua voce fortemente infusa
nel pensiero
nella clausura dove si parla a gesti
come per una distratta evoluzione che fa chiudere gli occhi
come per una grande stanchezza sul pavimento della terra
che ci ha sostenuti e mette un sentimento
che tende alla lentezza ed è dotato come un’ala di strutture leggere
nel raccoglierci: adesso, dopo la vendemmia che le spade hanno consumato per calare sull’erba
il vuoto verde dei cieli.
13 ottobre 2004
***
L’altare della specie
Era facile amarla ma era destinata
ad andarsene frettolosamente e insieme ad aderire
a certi preparativi che gli indizi rivelano
meticolosi. Di pomeriggio si prendeva cura del giardino
in silenzio. Non capivamo quello che pensasse, era
tranquilla. Oppure
trafficava su un notes. Tutte le notti – rivestitosi
l’ultimo cliente – comprava un dolce per la colazione della madre.
Nell’acqua viaggiano i rifiuti e vengono
trattenuti a intervalli regolari dalla grata sepolta
nel buio e nel silenzio che si formano molti metri sotto
l’aspetto superficialmente aereo dell’acqua
che dipende dall’attardarsi del sole alla sommità come una lacca
democratica, un getto straripante di ottimismo
anche nelle orticaie disossate dall’urto delle fabbriche.
Si chiama strada del canapificio e porta
in una mescolanza di fanghiglia e zolla
resistente all’imprimersi del cascame animale alla centrale
idroelettrica – è un sentimento interrotto, una deriva dei continenti e dei relativi disastri sommersi
nell’isola del corpo che finisce
alla porta del grande casamento: c’è soltanto un custode e controlla
l’andirivieni tra le due parti d’acqua e fiamma serpentina o forse
trasmigrazione.
La trovammo in uno strano abbandono
come se tutti scissi i legamenti:
quasi niente dell’acqua del canale
nessun cattivo pensiero
nessuna ironia
non una goccia d’acqua nei polmoni, neppure
diatomee – il corpo sostenuto da una luce critica
oltre il proprio abbandono – pulsava al sole come in preda a un’estasi.
25 ottobre 2004
***
Non avrai che la vita
Le scarpe non vennero ritrovate.
Ma la luce batteva coitale sul corpo della ragazza
cristallizzato nella testimonianza.
Tra gli occhi e il ventre
tracce di lavatoio – un percorso a ritroso per stabilire gli alibi.
Il portone risultò chiuso con molte mandate.
Ardeva come un’ostia nella materia
lacrimale del tardo pomeriggio – con il capo impigliato tra gli arbusti
e la pervicace ripetizione dei giri. Per cause sconosciute
non ha potuto compiere i suoi anni
qualsiasi funzione avessero singolarmente ma un immobile
addio alla bellezza del mondo
riscaldava la fibra che resiste
grido di gioia del corpo senza dolore.
***
Deposto il nome
Diceva sempre
ditele che la amo
e ditele che ho fatto tanta strada
per amarla.
Ditele che se uscivano
angeli e diavoli dalla sua bocca,
io vedevo soltanto la sua bocca.
Ditele che mi abita
per sempre.
Diteglielo, vi prego. Diceva sempre.
30 aprile 2016
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Testi tratti da Maria Grazia Calandrone, Gli scomparsi, Lietocolle-pordenonelegge, 2016