L.
L. / Marco Benedettelli
[brano dal romanzo Pacifico, in stesura]
Non avrei mai voluto raccontare la storia del villaggio di L., né verrò a dirvi del quando e del percome io vi sia arrivato. Sono dettagli, questi, che vi annoierebbero. Andrò subito al punto e con tutta la precisione che mi è concessa nel breve lasso di tempo innanzi a me vi spiegherò cosa ho visto a L., sebbene mi paia lontanissimo il tempo di L., anche se è solo ieri, o l’altro ieri. Volgo lo sguardo indietro e mi ricordo i giorni, i sogni che diedero corpo al mio soggiorno nel piccolo villaggio, dove venni a conoscenza di cose e fatti che mai potrò dimenticare.
La suora che guidava la nostra vettura era una donna energica, pragmatica. Correva come una folle appena la strada le dava modo di tirare il gas. Non farò il nome della suora, e nemmeno darò informazioni sull’ordine a cui lei e le sue consorelle appartenevano. Per rispetto non voglio nominarle e coinvolgerle troppo da vicino. Sono state gentili con me.
Ricordo che mentre entravamo a L. a bordo del pick up incontrammo un funerale. Sulla strada qualcuno aveva steso dei rami d’albero, la gente che passava doveva sapere che lì nei pressi c’era un morto. I pochi in bicicletta erano chiamati a scendere di sella, a proseguire a piedi zigzagando col proprio arrugginito mezzo fra i rami. Bisognava parlare piano, in segno di rispetto, bisbigliando. C’era una capanna sul bordo della strada, senza pareti, il tetto era di fogliame intrecciato, sembrava una densa nuvola e sotto alla sua mollezza uomini e donne in piedi vegliavano intorno al morto disteso sul giaciglio. Altri se ne stavano rannicchiati per terra, su un fianco, in posizione fetale, abbandonati in un sonno dolciastro. Come se nel dormiveglia potessero abbracciarsi e stringersi con chi, nella morte, era trapassato altrove. Le due giovani suore in macchina al mio fianco erano entrambe indiane, guardavano con occhi bassi, oltre il vetro del finestrino.
Il villaggio di L. era rosso, perché la terra era rossa ed erano rosse le case di mattoni fatti di terra. Erano allacciate fra loro da un reticolato di sentieri scavati nell’erba verde e gialla, erba che manteneva intatta la propria effimera consistenza sotto il martello del sole australe. Alberi disegnavano i confini del villaggio, e i tronchi vegliavano sui corpi sempre in cammino. Il più alto tra di loro, dalla corteccia violacea, incardinava il centro di L. e di sera i più giovani si radunavano intorno ad esso e parlavano fitto, e così avevano dato corpo alla loro giornata. Mi puntavano gli occhi addosso, con un rispetto che mi proiettava nella colpevolezza. E appena ci parlavo, qualsiasi cosa io proferissi, loro esplodevano in sgangherate risate. Risate che sgorgavano al cospetto della mia pelle bianca, dei peli bianchi della mia barba, che non concepivano e che ai loro occhi sembravano grottesche aberrazioni genetiche. L’orizzonte attorno a noi proseguiva verso altri villaggi, altri microcosmi tutti identici, in un sistema di moltiplicazione dell’arcaico.
I tetti delle minuscole case in mattoni di terra rossa erano fatti di fronde rinsecchite. Un giorno una suora mi ha detto: «La gente di L. potrebbe mettere dei tetti in lamiera. Sarebbero più comodi e pratici da sistemare dei tetti di fronde. E i tetti di lamiera non costano nemmeno tanto. Ma la gente di L. evita di cambiare. Dicono che chi mette i tetti di lamiera attira la malevolenza degli spiriti maligni. E sai perché? I tetti in lamiera rappresentano agli occhi della gente un segno di prosperità, di agio. Di cambiamento e di progresso. Segni che negli altri possono scatenare l’invidia. E chi muove all’invidia è colpevole, per il solo fatto di averla fatta nascere. Perché per la gente di L. l’invidia è fatta di spiriti maligni e chi li evoca finisce in rovina. Allora è meglio che tutto resti identico».
La sera le suore recitavano il rosario sulla veranda, lo sgranavano nel silenzio senza luci elettriche della notte di L.. Era dolce la loro cantilena inglese, Holly Mary, Pray for us. Holly Mary, Pray for us. Veniva voglia di unirsi a loro, per trovare una carezza, per lenire la ferita della solitudine che si allungava dentro di me in un taglio profondo e non rimarginabile.
Nei pasti canonici del giorno, imbandivano la tavola di ogni ben di Dio. C’erano vassoi di verdure, ortaggi, legumi, di carni, pollo e pesce, piante di manduca, gigantesche banane verdi e manghi rubizzi. Mangiavamo in abbondanza per celebrare una festa, una festa perenne. La comunità di suore era piccola, erano tutte giovani e felici. Giganteggiavano avvolte dal tessuto bianco delle tuniche, nella loro pelle d’ebano. Ridevano fragorosamente ogni volta che dicevo qualcosa, qualsiasi mia osservazione fuori dall’ordinaria gestione delle azioni e degli oggetti le faceva sbellicare dal ridere e ad ogni scoppio di risa sembravano divenire sempre più gigantesche, sferiche, sembravano crescere come piante pluviali gonfiate dalla magia della pioggia. Solo che la pioggia era il loro riso. Mi guardavano, a volte, come fossi un alieno dalla faccia triangolare. Io che ero piombato nel loro mondo di sogni ad occhi sgranati, nel loro villaggio sperso nel cuore della radura, lontanissimo da ogni strada carreggiabile, dove non c’era luce né acqua, ma tutt’intorno al nostro giardino proliferavano corposi insetti dalle corazze smerigliate e iridescenti. E grandi ragni pelosi, che al primo scroscio di pioggia si moltiplicavano, come se fosse l’acqua a riprodurli. Si arrampicavano per le pareti, nel turbinio velocissimo delle loro zampette, o schizzavano sul pavimento in fughe folli. Le suore si alzavano di scatto dal tavolo e li schiacciavano a pedate, il corpo del ragno si lasciava spappolare croccante sotto le grandi ciabatte bianche.
Fu una mattina che le suore mi raccontarono dei sogni. L’argomento venne in superficie a colazione, verso le 6 o le 7, col sole già fiammeggiante nel cielo. Mi dissero che gli abitanti di L. non distinguevano ciò che vedevano la notte, ad occhi chiusi, con quel che vedevano di giorno, ad occhi aperti. I sogni per loro erano dentro la realtà, erano una scatola in una scatola dentro un’altra scatola ancora. Chiesi se gli abitanti di L. emigrassero altrove, verso le grandi città, verso altre nazioni, verso una forma di benessere oltre la miseria premoderna del villaggio. Allora la suora iniziò a raccontarmi una storia inverosimile. C’era un sogno collettivo ad L.: le persone sognavano di volare verso un’unica meta, che era il Sud Africa, perché per tutti quella era la terra più ricca e prosperosa oltre l’orizzonte. Ma qualcuno nel volo ogni tanto cadeva a terra e si rompeva le gambe. E tutti dicevano che gli zoppi del villaggio erano diventati tali cadendo nel loro volo verso il Sud Africa. La conversazione però quella mattina si spinse ancora avanti, e le suore tornarono a ribadirmi che il sogno del volo era solo un esempio dentro un grande vorticare di sogni e che ad L. l’onirico era così intrecciato alla veglia da costituirne un unico ceppo di pensieri.
Una suora volle raccontarmi un aneddoto. Mi disse che pochi giorni prima il capo villaggio si era presentato da lei e aveva raccontato di aver salvato la missione da un treno. Un treno a tutta velocità, carico di bambini che salutavano. Lui si era messo in mezzo ai binari e aveva fatto deviare il treno che altrimenti avrebbe travolto la missione. Ma a L. non c’erano binari e tantomeno grandi treni veloci. E poiché il capo villaggio, al di là di qualche piccola stranezza, non aveva mai avuto smaccati atteggiamenti da folle né era di colpo impazzito, la suora riteneva che quella visione fosse stata un prodotto onirico e che il capo villaggio l’avesse annoverata, di giorno, fra i fatti reali della sua esistenza. Senza discernere il surreale dal reale ma mescolando tutto in un unico quadro.
Il pomeriggio mi aggiravo per il mercato, dove uomini e donne venivano a vendere frutti e ortaggi o pesci secchi. Tutti mi guardavano e i bambini mi salutavano gridandomi «Azungu!»Bianco! Quel pomeriggio vidi un uomo aggirarsi in stampella. Era molto affaticato, macilento, con una giacca fuori misura rispetto alle sue gracili spalle e ai suoi zigomi ossuti. Quell’uomo era stato un uomo volante, caduto volando verso il Sud Africa. A quel punto una piccola verità si è affacciata nella mia coscienza: che non esista davvero un confine fra reale e onirico. Tutto converge verso un luogo molto più profondo, sopra il quale noi abbiamo edificato città stratificate di cui sopravvivrà solo il canto.
Non lontano dal villaggio abitava lo stregone, aveva un lungo telo bianco appeso nel cortile della capanna e vi erano disegnati dei sortilegi. Un pentolone dove bolliva la pozione magica, una donna con un ramoscello in mano, un uomo rannicchiato sul letto che tremava. Vi siamo passati un giorno accanto a bordo del pick up, durante i nostri giri per le strade di terra e buche. L’uomo si proponeva alle persone della zona per scacciare il male. Oppure lo lasciava semplicemente entrare nel cuore, lo spingeva nelle ossa umane, affinché ne germogliassero piante che obbedivano ai richiami del cielo. Lo stregone uscì dalla capanna. Era vestito da uomo qualsiasi, era magro e molto alto, dal profilo tagliente, affilato come un coltello. Ci ha seguito con gli occhi. Forse mi stava comunicando qualcosa, un messaggio, mi stava parlando del mio futuro.
L’iniziazione delle bambine avveniva in una capanna nel bosco, costruita appositamente. Nella capanna erano mandate tutte le ragazzine del villaggio, lì attendevano che entrasse un uomo e quando egli entrava le sverginava a una a una. Al termine dell’iniziazione, le ragazzine, le bambine, erano pronte a divenire spose. Il rito per essere completato poteva estendersi anche qualche giorno. Le suore tentavano di opporsi ad esso proponendo alle famiglie un rituale alternativo, molto più casto e pudico. In chiesa organizzavano piccoli incontri fatti di canti e giochi. Ne approfondii gli incomprensibili dettagli grazie a un libro stampato da una casa editrice cattolica, dal titolo Christian Initiation Girls che la suora cavò fuori dalla libreria della missione. Vi si parlava, in pochi accenni, della baracca nel bosco, e poi si dettagliava sul rituale alternativo da coltivare nelle parrocchie, sui dei canti e sui dei giochi attraverso i quali le bambine si preparavano a divenire spose, senza essere violentate dall’uomo dell’iniziazione.
Sono rimasto molto turbato da quella storia. Più di quanto mi avesse stupito sapere che gli uomini di L. credevano di volare, la notte. L’iniziazione era, ai miei occhi, un rito sacrificale, uno stupro, un routinario omicidio e si consumava sulla stessa terra che io calpestavo. Ho continuato a fare domande alle suore sull’iniziazione. All’inizio mi rispondevano con affabile pazienza, poi di fronte alla mia insistenza, si sono fatte sempre più recalcitranti e omertose. Finché una suora un giorno è arrivata a raccontarmi d’un villaggio non lontano da L.. Nel luogo, al funerale del capo villaggio accade ancora oggi qualcosa che non saprei se definire mostruoso o indecifrabile. Appena la salma del capo villaggio è tumulata sotto terra, gli uomini si gettano sulle donne e si accoppiano con esse. La suora, piena di pudore, mi ha fatto intendere che l’accoppiamento sia strappato con la violenza. Morto il re, scomparso sotto terra, nell’interregno senza totem esplodono i tabù. È una ellissi, poi arriva il nuovo capo villaggio a prendere il potere, e tutto torna a scorrere nella ciclicità dei giorni.
È nel cimitero di L. che ho gli ultimi ricordi vivi del mio soggiorno fra quelle case e quegli alberi. Era pomeriggio, ero solo. Era stata una suora a indicarmi l’ubicazione delle tombe: «Nella radura, fra gli alberi sottili, ci sono i morti». Così ero andato, avevo imboccato un sentiero ed ero arrivato fra le tombe, non c’erano né lapidi né croci, ma piccole piramidi di mattoni rossi accatastati, anzi sembravano più delle ziggurat schiacciate e assediate dall’erba giallastra. Mi sono ricordato delle parole di una suora: a L. si dice che gli spiriti dei morti si trasformino in animali, in leoni o altri felini aggressivi. Così, fra gli alberi sottili, i mattoni rossi e porosi delle tombe, io avevo paura dei leoni. Li vedevo emergere dalle tombe, pronti a squarciare la membrana fra me e loro e a inghiottirmi fra le fauci. Ho abbandonato la radura di alberi sottili, ho risalito il sentiero fino ad arrivare sotto l’albero dalla corteccia viola. A quel punto mi si è fatta incontro una vecchia, era arrabbiata come una furia, urlava, ma gli occhi però le ridevano. Aveva uno scintillio di pioggia dorata e sottile che gli sprizzava dalle pupille. Vorrei sapere cosa mi avesse urlato, qual era il messaggio che mi stava comunicando. La cosa è andata avanti per degli interminabili secondi, finché non è arrivata una donna e la vecchia si è calmata e a smesso di urlarmi addosso. Ma nei suoi occhi quella risata sepolta in forma di luccichio non si è spenta
Ho da poco letto un racconto che pare raccontare dello stesso “sogno collettivo”, ma visto dall’altra parte, quella di chi sogna.
Anche le immagini sono entrambe del monte Uluru… curiosa la coincidenza.
Qui il PDF: https://distorieraccolteblog.files.wordpress.com/2017/04/dsr-il-monte-dei-tamburi.pdf
Complimenti, proprio bello