Majakovskij e il violino di Picasso
di
Agnese Azzarelli
«Fra poco questo banale giocattolo a tic-tac diventerà più comico di una torcia sulla diga del Dnepr e più assurdo di un bue in automobile»[1] chiosa Ciudakov l’inventore, cercando di dissuadere Velosipedkin dall’acquistare un orologio. Ha progettato una macchina in grado di fermare il tempo e lanciarlo in qualsiasi direzione e a qualsiasi velocità. Sono passati pochi mesi dalla stesura de La cimice, ma Majakovskij torna a riflettere, ne Il bagno, su di un ipotetico futuro, epurato, non solo dalla grettezza degli uomini della NEP, ma anche dall’ottusità della burocrazia statale. La possibilità di dominare il tempo: un espediente narrativo, il parto dell’esuberante fantasia di un poeta o l’esito di profonde meditazioni? Rispondere alla domanda significherebbe incorrere nel facile rischio di non esaurirne la complessità, sia che si propenda per un’alternativa piuttosto che per un’altra. La questione della lotta contro il tempo, incarnata in questa commedia da uno degli oggetti su cui si è esercitata la creatività di ogni epoca, è tema a cui, tuttavia, Majakovskij ritorna sovente.
All’indomani della Rivoluzione d’Ottobre, il poeta non è il solo esponente dell’intelligencija radicale a spronare l’immaginazione fino ai limiti dell’umano pensiero. Immortalità, resurrezione e ringiovanimento divengono le tre parole d’ordine dei Biocosmisti, membri di un movimento politico che affonda le sue radici nell’anarchismo russo. Nel loro primo manifesto del 1922, essi rivendicano i loro diritti fondamentali – di contro a quelli espressi nella dichiarazione della rivoluzione borghese del 1789 – quali la mobilità nel tempo e nello spazio cosmico. Animate da simili speranze e dal desiderio di estendere i limiti della comunità, come del singolo individuo, si esercitano la letteratura e la scienza dell’epoca[2], ma non solo: mentre sui palcoscenici sovietici si consuma l’avventura della majakovskijana macchina del tempo, un’altra macchina sui generis compare nell’ambiente variegato dell’avanguardia sovietica: la Letatlin. Essa viene ideata da Vladimir Tatlin. Dedicatosi alla progettazione di oggetti quotidiani, l’artista approda nel 1929 alla macchina del volo, a cui lavora sino al 1932, due anni prima del Congresso degli Scrittori e degli Artisti sovietici che decreterà l’affermazione del realismo socialista, facendo di questa macchina «the last major design of the avant-garde period»[3].
Ciò che qui mi preme sottolineare è che, nel presentare il prodotto delle proprie fatiche ai visitatori della mostra al Museo Puškin di Mosca, Tatlin si serva, per descriverlo, di concetti ed espressioni che avevano caratterizzato la produzione dei primi anni venti, volta alla creazione di oggetti quali, ad esempio, tute sportive o pentole in metallo, arrivando a definirlo un oggetto di tutti i giorni.
Una macchina radicata nella mitologia di tutti i tempi e nel sognare utopico, come la macchina per volare, a dispetto della sua inefficienza, è quindi l’esito naturale di un’attenzione alla vita quotidiana. Il fatto è tanto più curioso in quanto è lo stesso Majakovskij, nel poema Il proletario volante, a celebrare l’aviazione e insieme ad auspicare l’introduzione di una simile macchina nella vita di tutti i giorni:
Verrà un anno/ zerato di zeri. / Si sarà spento il rimbombo/ delle ultime/ battaglie-tuoni. / A Mosca/ non ci sarà/ più un vicolo, / o una via, / solo aeroporti/ e case.
Un simile punto di partenza obbliga la riflessione ad arrestarsi. Che cosa si intende per oggetto di tutti i giorni? Quale portato esso racchiude e cosa spinge i maggiori esponenti dell’avanguardia sovietica a porre la loro attenzione su questo aspetto della vita ordinaria? Ciò che è certo è che un artista come Tatlin non possa aver fatto di un interesse particolaristico – esente da implicazioni politiche, sociali e ideologiche – una delle sue più attive preoccupazioni. Con lui Majakovskij, nel cui teatro l’attenzione verso le cose ha un’importanza fondamentale e la cui vicinanza al creatore della Letatlin è documentata sin dal 1922, in Sette giorni di rassegna della pittura francese. Qui Majakovskij narra di un incontro con Picasso, a cui racconta di aver rivolto la seguente domanda.
Possibile che vi procuri soddisfazione scomporre per la millesima volta un violino, concludere con un violino fatto di latta, sul quale non si può suonare, che non viene acquistato e il cui scopo è di rimanere appeso alla parete per deliziare lo sguardo dell’artista?[4]
Mostrando diffidenza in quella che, a suo dire, rischia di tramutarsi in una pratica piccolo-borghese, pratica contrapposta, da Majakovskij, al lavoro di Tatlin, volto «a dare una vera forma a questo ferro»[5].
L’attenzione che il poeta, polemista e drammaturgo rivolge alla cose è, dunque, tutt’altro che insignificante e, insieme, ben diversa da quell’attaccamento gretto e materiale che popola l’esistenza dei pingui borghesi e dei tronfi burocrati. L’autore, ne Il bagno, irride, infatti, il goffo tentativo di Pobiedonosikov, che intende portare con sé, attraverso il tempo, incartamenti legali, cappelliere, borse, fucili da caccia, un intero baule armadio. «Compagno, e che sono i grandi magazzini?»[6], sbotta la Donna fosforescente, invitando il capo ufficio per il coordinamento e il collegamento a lasciarne almeno una parte nel presente. Ma a nulla valgono tali avvertimenti: Pobiedonosikov verrà scaraventato al di fuori della macchina del tempo e con lui l’amante, il segretario, il ritrattista personale. Il futuro socialista rimane appannaggio degli Impuri. Riuscirà questo ipotetico avvenire a farsi carico delle profonde istanze e aspirazioni del Majakovskij poeta e quale complesso di determinazioni materiali sarà degno di accompagnare il passo degli Impuri?
2.
Bottoni e bambole, mele e paralumi, palloncini, aringhe e reggipetti imbottiti… Una pletora di merci affolla il primo atto della commedia fantastica in nove quadri La cimice, scritta nell’autunno del 1928, ma il cui soggetto è concepito assai prima e sicuramente sin dal 1927, anno di stesura della sceneggiatura cinematografica Dimentica il caminetto. Passano pochi mesi e la commedia è messa in scena con la regia di Vsevolod Mejerchol’d, scene di Aleksandr Rodčenko e musiche di Dmitrij Šostakovič. Corre l’anno 1929 e un’altra opera fa la sua apparizione dinnanzi al pubblico sovietico: L’uomo con la macchina da presa di Dziga Vertov, dove, in modo affatto singolare, la giornata di un cineoperatore si apre all’insegna di vetrine d’esposizione e venditori ambulanti.
Cose triviali, in apparenza ovvie sfilano dunque dinnanzi allo spettatore teatrale, come a quello cinematografico, documentando l’attenzione che in questi anni l’intelligencija va prestando alle cose e il tentativo da parte della stessa di criticare e mettere al bando le rimanenze della Nuova Politica Economica. Vertov e Majakovskij riflettono su quel feticismo della merce a cui Marx aveva dedicato parte della sua opera più imponente; il primo, ampliando il discorso che aveva inaugurato con Kinoglaz, dove l’intento era appunto quello di «mettere a nudo l’origine delle cose, a cominciare dal pane»[7]; il secondo, mettendo in scena sia una gran quantità di merci che il loro rapporto con un protagonista d’eccezione: Prisypkin o Pierre Skripkin. Questi fa la sua entrata in scena in modo paragonabile a quella di un Augusto[8]. Goffo e maldestro, tragicomico, improvvisato musicista e ballerino, egli incarna uno dei personaggi contro cui sovente si scaglia Majakovskij. Egli è il «nuovo ricco», il filisteus vulgaris, il prodotto di un sistema economico viziato come quello della NEP.
Sua la seguente battuta: «Compagno Bajan, in cambio del mio denaro esigo un matrimonio rosso e senza dei di nessun genere!»[9], alla quale non tarderà a rispondere l’adulatore, proponendo prontamente a Prisypkin un matrimonio in rosso con tanto di fidanzata rossa, bottiglie dal tappo rosso e una gran quantità di prosciutto rosso. L’intento di salvaguardare l’appartenenza alla piattaforma sovietica accompagna l’antieroe protagonista della commedia, similmente a quanto accade ad altri personaggi scaturiti dalla prodiga penna di Majakovskij. Il tema non è infatti nuovo, ma fa la sua comparsa sin dall’inizio degli anni venti, come documentato dalla prima delle tre brevi commedie di propaganda scritte per lo Studio sperimentale del Teatro della satira di Mosca sotto il titolo di E che ne direste se?… dove il primo maggio del borghese Ivan Ivanovic trascorre tra sogni e preoccupazioni, non da ultima quella di dover rendere conto a terzi in merito alla propria adesione alla causa sovietica:
Accidenti!
Arriva qualcuno.
Di sicuro gli auguri di primo maggio.
(inquieto)
Scarmigliarsi i capelli!
Con l’Internazionale in mano!
Tutto nella debita forma.
Tutto come si addice
a chi si tiene ben saldo
sulla piattaforma sovietica.
Prisypkin e Ivan Ivanovic sono i contraltari di Majakovskij, che all’ordinario dedicherà gran parte della sua attenzione, ma con diversi intenti ed esiti. Scrive il poeta in Tirate fuori il futuro, poesia del 1925:
Il comunismo / non è soltanto /sui campi, / nel sudore delle fabbriche. / È nella tua casa, anche, / a tavolino, / nei rapporti con gli altri, / nella famiglia, / nel costume.[10]
L’esigenza di Majakovski relativa al costume è ben lontana dalla domanda di Prisypkin di un matrimonio rosso o dai capelli scarmigliati di Ivan Ivanovic. Essa non ha nulla a che fare con l’apparenza e con il riconoscimento di uno status sociale, come d’altronde documentato dal suo rifiuto di eleggere la moda ad arbitro delle scelte nel campo dei consumi. «Scordate la moda! / Al diavolo la balorda!»[11] è l’imperativo pronunciato dal poeta nel 1929, in una poesia intitolata L’ultimo grido, e ribadito, solo un anno più tardi, in Vestiti per la gioventù, dove si legge: «Tenete / a freno / la moda!»[12]. L’autore si fa, in tale modo, il portavoce di un conflitto che va consumandosi sul piano della produzione materiale, tra una parte della popolazione, sensibile al richiamo e agli stilemi d’Occidente, così come alle abitudini di una vita borghese, e un’ala dell’intelligencija di sinistra, in seno alla quale erano nati il movimento costruttivista e il gruppo produttivista. Si assiste, infatti, in questi anni, al «tentativo di rimuovere la nozione di moda»[13]. Ma per quale motivo? Una possibile risposta alla domanda può forse essere ricavata dal tentativo di dare della moda una definizione quanto più accurata possibile. Su questo terreno non sarà inopportuno riportare alla memoria le considerazioni di George Simmel, per il quale:
La moda è imitazione di un modello dato e appaga il bisogno di appoggio sociale, conduce il singolo sulla via che tutti percorrono, dà un universale che fa del comportamento di ogni singolo un mero esempio. Nondimeno appaga il bisogno di diversità, la tendenza alla differenziazione, al cambiamento, al distinguersi.[14]
Terreno di scontro/incontro ideale tra due forze di segno opposto le mode sono, ancora secondo Simmel, sempre mode di classe, in quanto quelle della classe elevata «si distinguono da quelle della classe inferiore e vengono abbandonate nel momento in cui quest’ultima comincia a farle proprie.»[15] Alla luce di quest’ultima considerazione può risultare più perspicua la ragione per la quale Majakovskij può aver stigmatizzato la moda quale retaggio della cultura borghese, sostituendo alle sue istanze quelle della funzionalità. Emblematiche di tale impresa le parole che il poeta riserva all’abito, indicando nel Moskvošvej, ente addetto all’abbigliamento, il luogo presso il quale le cittadine sovietiche potranno trovare indumenti semplici, leggeri e ampi, ma, soprattutto, ottimi per il lavoro.
3.
Sbaglierebbe chi volesse leggere l’introduzione de La cimice e gli interventi di Majakovskij relativi agli indumenti come il frutto di un’attenzione episodica al complesso delle determinazioni materiali di cui è intessuta la vita del cittadino sovietico. Ad accompagnare gli oggetti già incontrati in apertura della commedia si trovano infatti, rileggendo l’intera opera del poeta, le cose più ovvie, come i cosmetici o le confezioni delle caramelle. Durante un intervento in occasione della presentazione della mostra «Venti anni di lavoro», Majakovskij evidenzia un dettaglio apparentemente marginale che, ritengo, valga la pena di riportare per intero:
Oggi, durante la relazione, la compagna Koltsova, che presiede l’assemblea, mi ha offerto una caramella. Sulla carta c’era scritto Mosselprom, e in alto si vedeva la stessa Venere! Vuol dire che le cose contro cui si lotta e si è lottato per vent’anni penetrano ancor oggi nella vita! La stessa decrepita e contorta bellezza si diffonde tra le masse, persino sulle caramelle, avvelena di nuovo il nostro cervello e snatura la nostra concezione dell’arte.[16]
L’intervento si inserisce pienamente all’interno del programma del LEF (Fronte di Sinistra delle Arti), la cui parola d’ordine e conquista «consiste nella lotta per desestetizzare le arti applicate»[17], secondo le parole dello stesso Majakovskij che al Mossel’prom, agenzia commerciale sovietica, dedicherà, insieme al compagno Rodčenko, il proprio impegno, non da ultimo realizzando il celebre slogan «In nessun luogo come al Mossel’prom».
Il disappunto dinnanzi ad una Venere sulla confezione di una caramella non è quindi il moto di sdegno di un intellettuale, forse anche interessato alle cose; esso nasce da un impegno in prima persona diretto ad informare la promozione e il confezionamento delle stesse. Fanno eco a questo impegno i numerosi interventi, nei quali talvolta fanno la loro comparsa brusche invettive e salde prese di posizione, come in Ai compagni che danno forma alla vita:
Cosiddetti registi!
Quando dunque vi deciderete a lasciare, voi e i topi, il palcoscenico?
Organizzate la vita reale![18]
Ritorna il violino di Picasso, o almeno ritorna la percezione che il poeta aveva dello stesso, ma, insieme, ritorna l’esigenza, espressa in queste poche righe, di scuotere, animare la quotidianità. Di qui l’attenzione verso le cose, grette e materiali, che tanta parte avevano già avuto nella prima produzione majakovskiana.
Note
[1]V. Majakovskij, Il bagno, in Opere, a cura di I. Ambrogio, tr. It, Editori Riuniti, Roma 1972, vol. 7, pp. 9-104, qui p. 11-12.
[2] Cfr. R. Stites, Revolutionary Dreams: Utopian Vision and Experimental Life in the Russian Revolution, Oxford University Press, Oxford 1988.
[3] M. Tsantsanoglou, “The Soviet Icarus: From the Dream of Free Flight to the Nightmare of Free Fall”, in Utopian Reality: Reconstructing Culture in Revolutionary Russia and Beyond, ed. da Christina Lodder, Maria Kokkori, Maria Mileeva, BRILL, 2013, pp. 43-56, qui p. 45.
[4] V. Majakovskij, Sette giorni di rassegna della pittura francese, in Opere, cit., vol. 8, pp. 9-28, qui p. 21.
[5] Ibidem.
[6] V. Majakovskij, Il bagno, in Opere, cit., vol. 7, pp. 9-104, qui p. 96.
[7] D. Vertov, Il film Kinoglaz, in L’occhio della rivoluzione, a cura di P. Montani, tr. it., Mimesis, Milano 2011, p. 67. È ipotesi di chi scrive che ne L’uomo con la macchina da presa Vertov porti a compimento un discorso riguardante la produzione. Si istituisce infatti un legame tra i lavoratori e i kinoki, mediante l’alternanza di immagini che li ritraggono. Il film è, forse, un invito ad informare la produzione delle cose; quelle stesse cose che in Kinoglaz Dziga Vertov mirava a spogliare delle loro «qualità sovrasensibili», mettendone a nudo il carattere di prodotti del lavoro umano.
[8] Il paragone lo devo a F. Ferraresi, il cui saggio è volto a documentare i debiti del dettato teatrale majakovskijano nei confronti del circo. Cfr. F. Ferraresi, «La circhizzazione del teatro. Le apoteosi di Majakovskij», in Il Circo oltre il Circo. Dai funamboli di Marco Aurelio agli eredi di Fellini, a cura di A. Serena, Mimesis, Edizioni, Milano 2011, pp. 197-235, qui p. 212.
[9] V. Majakovskij, La cimice, in Opere, cit., vol. 6, pp. 323-404, qui p. 334.
[10] V. Majakovskij, Tirate fuori il futuro, in Opere, cit., vol. 2, pp. 237-238, qui p. 237.
[11] V. Majakovskij, L’ultimo grido, in Opere, cit., vol. 4, pp. 447-449, qui p. 448.
[12] V. Majakovskij, Vestiti per la gioventù, in Opere, cit., vol. 4, pp. 455-457, qui p. 456.
[13] M. Zalambani, L’arte nella produzione. Avanguardia e rivoluzione nella Russia sovietica degli anni ’20, Longo Editore, Ravenna 1998, p. 158.
[14] G. Simmel, La moda, a cura di L. Perucchi, Mondadori, Milano 2013, p. 15.
[15] Ivi, p. 16.
[16] V. Majakovskij, «Venti anni di lavoro», in Opere, cit., vol. 8, pp. 386-398, qui p. 387.
[17] V. Majakovskij, Io stesso, in Opere, cit., vol. 1, pp. LXXXIX-CIX, qui p. CVI.
[18] V. Majakovskij, Ai compagni che danno forma alla vita, in Opere, cit., vol. 8, pp. 54-55, qui p. 54.