Il cosmo di Dante e il caos di Gombrowicz

 

[Il saggio “Su Dante” di Witold Gombrowicz (trad. di Roberto Landau), tratto dai suoi diari, apparso per la prima volta in Francia e già edito da Sugar (Milano) nel 1969, è riproposto oggi da Dante & Descartes (Napoli). Pubblico la prefazione di Vittorio Celotto, ringraziando il curatore e l’editore. ot]

di Vittorio Celotto

Nei primi capitoli di Ferdydurke (1939), il protagonista, trasformato in bambino dal professore Pimko, viene trascinato a forza in una bizzarra scuola, dove le lezioni sono formule sclerotizzate ripetute fino alla nausea, e gli allievi sono letteralmente costretti a provare ammirazione per un certo poeta nazionale, per la semplice ragione che “era un grande poeta”. Quando uno studente osa confessare di far fatica a leggere anche solo due strofe dei suoi poemi, perché “quella roba non piace a nessuno”, Pimko, allarmato, infligge alla classe la pubblica declamazione della sua opera completa, concludendo che “la grande poesia, in quanto grande e in quanto poesia, non può non suscitare ammirazione, e quindi la suscita”.
L’opuscolo Su Dante, pubblicato nel 1966, si può immaginare come la replica ideale che Gombrowicz, a trent’anni di distanza da quel suo primo romanzo, rivolge a quel professore. Si tratta di un pamphlet polemico più che di un saggio di critica letteraria, lettura compromessa e deformante, gravida di memoria e personale ostinazione, che probabilmente ci parla di Gombrowicz più di quanto non ci aiuti a capire la Commedia. Ma pochi libri, come questo, obbligano a liberarsi della retorica ossequiosa che infetta ogni discorso su Dante, per riflettere sulla sua lunga durata nel canone delle nostre letture. Il tono corrosivo di queste pagine, la disarticolata architettura dei pensieri, rivelano l’applicazione ossessiva di chi ha rovistato nelle stesse maglie della poesia dantesca, e non altrove, per cercarne le ragioni della bellezza. Gombrowicz resiste a ogni tentazione apologetica, che anzi è il suo primo bersaglio polemico, e non elude, ma aggredisce frontalmente il dubbio che era stato anche dello scolaro di Ferdydurke: che cosa la Commedia, questo lungo poema in versi intriso di mentalità medievale, abbia ancora da dire al lettore del Novecento.
Dante viene sottoposto al tribunale del presente con uno spirito di provocazione e una carica eversiva del tutto inediti. La sua poesia viene rivoltata e scomposta attraverso molteplici punti di osservazione, perché sia essa stessa a fornire i mezzi per farsi comprendere e apprezzare. Si alternano così giudizi contrastanti, la cui apparente perentorietà è costantemente contraddetta da nuovi livelli di analisi, che partoriscono nuovi giudizi, denunciando una continua esitazione tra attrazione e rifiuto. Non è un caso che nessuna delle aporie sollevate dal libro venga risolta definitivamente e che la conclusione coincida con una serie di domande destinate a rimanere senza risposta. A Gombrowicz importa decisamente meno sostenere una tesi a forza di argomentazioni che esibire provocatoriamente il rovello della sua ricerca delle verità che la letteratura di ogni tempo è chiamata a esprimere.
È chiaro che queste pagine, al pari delle molte altre sparse nei suoi diari contro i poeti e contro la poesia, vanno riportate dentro il dibattito culturale in atto nel secondo dopoguerra in Europa. Vanno cioè lette come reazione ai miti letterari in auge in quegli anni, primo fra tutti quello della poesia pura e dell’estetismo borghese che dietro la sacralità del lirismo maschera la sua rinuncia a guardare agli orrori e alle bassezze della realtà. Gombrowicz passa tutta la vita a opporsi alla classe intellettuale europea (e non solo), che considera ridicolmente arroccata nell’autoreferenzialità e nell’autocelebrazione, riparata dietro vuote posture ideologiche, incapace di abbracciare la magmatica vitalità delle cose. L’opuscolo dantesco è perciò anche una critica al culto aristocratico del vate e, più in generale, alle impalcature fintamente oggettive imposte dalla recente critica strutturalista, tanto più sterili e inefficaci quanto più chiuse nella loro pretesa di imparzialità.
Osservate da questa prospettiva, queste pagine, apparentemente contro Dante, sono in realtà lo sforzo di instaurare un dialogo vivo con Dante, di recuperare l’uomo dietro e attraverso l’opera: sono un organo di resistenza al rischio che una tale personalità poetica finisca mummificata e convertita in puro nome, che di lui non sia più possibile dire o sapere altro che il nome.
Ci si può chiedere perché proprio Dante. Perché, tra i suoi tanti idoli polemici, Gombrowicz abbia scelto di approfondire la sua critica proprio su Dante. Non c’è dubbio che lo abbia letto fin dagli anni della sua formazione. Lo dimostrano ancora le prime pagine di Ferdydurke, dove sono citati i primi versi dell’Inferno, seppure per via di manipolazione: “nel mezzo del cammin della mia vita mi ritrovai per una selva oscura. E il guaio era che si trattava di una selva verde“. Il cammino del protagonista non ha, non può avere più nulla dell’allegorico pellegrinaggio dantesco, ne è piuttosto la versione degradata: la selva è verde, tutta terrestre, il male ha tinte non più così facilmente riconoscibili, la guida è un pedante ciarlatano, la strada è intricata e non condurrà a nessuna salvezza.
Ma forse più ancora che nel primo romanzo, la chiave per comprendere il rapporto con Dante è in Cosmo (1965). Il titolo allude all’immagine, di matrice classico-cristiana, dell’armonia del mondo: cioè a un sistema di corrispondenze tra microcosmo mondano e macrocosmo trascendentale, che fa dell’universo lo specchio della perfezione e della bontà divine. Gombrowicz stesso lo definisce “un tentativo di organizzare il caos”, e si può credere senza troppe forzature che l’ordine metafisico rappresentato nella Commedia sia stato per lui un punto di riferimento. Ma l’ossessiva investigazione dei due protagonisti del romanzo non è che la ratifica definitiva della caduta di quell’ideale di armonia. I segni sono indecifrabili, le cose tragicamente irrelate, e il bisogno di trovare delle corrispondenze non porta ad altro che a confondere una banale crepa nel muro con una freccia che non porta da nessuna parte.
È un tema ricorrente nella narrativa di Gombrowicz. Ogni individuo è imprigionato in forme precostituite, nelle quali non può identificarsi perché ne limitano libertà ed espressione, costringendolo a una vita inautentica. Allo stesso tempo però non può fare a meno di ricercare spasmodicamente quelle stesse forme, che sono l’unico mezzo di cui dispone per comprendere sé stesso e la realtà circostante. Il bisogno di affermare, di supporre nelle cose un ordine maggiore, è contraddetto puntualmente da una realtà che si nega a ogni definizione, destinando ogni sforzo all’inanità.
Si capisce allora che la Commedia rappresenta per Gombrowicz proprio questo sforzo, sempre insufficiente eppure insopprimibile, che risiede nell’uomo quasi più come una condanna che come una possibilità conoscitiva. Da dentro l’insensatezza invalicabile e prepotente delle parole e delle cose, resta una qualche nostalgia di un tramontato ordine archetipico, di quando era possibile affidarsi a una divina architettura. Ma Gombrowicz non si accontenta di facili risarcimenti. Pretende da Dante una risposta sul presente, e questo spiega il suo atteggiamento agonistico, che lo spinge persino al paradosso di correggere e riscrivere i versi danteschi, come per scuoterli, scrostarli delle impurità accumulate in secoli di concilianti interpretazioni, e cavarci finalmente una via d’uscita: “spiegaci, o Pellegrino, come dobbiamo fare per giungere a te?”.
T.S. Eliot scriveva che per comprendere e apprezzare la Commedia non è necessario credere nelle idee filosofiche e teologiche in cui credeva Dante, bensì è sufficiente conoscerle. Che sia possibile giudicare ogni aspetto della realtà entro un disegno provvidenzialmente disposto, è per Dante una verità incontrovertibile. Gombrowicz non può più credere in questa verità, ma nel contempo non gli basta semplicemente conoscerla. Sa che il cosmo si polverizza inesorabilmente nel caos, l’ordine è compromesso dall’inferno dell’esistere, non lo spiega. Il suo Dante è la traccia rabbiosa di questo conflitto, la ferita inferta dal tragico compito di ammettere di essere nati per viver come bruti.

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Ornella Tajani insegna Lingua e traduzione francese all'Università per Stranieri di Siena. Si occupa di studi di traduzione e di letteratura francese del XX e XXI secolo. È autrice del saggio "Tradurre il pastiche" (Mucchi, 2018). Per Marchese editore ha tradotto e curato L'aquila a due teste di Jean Cocteau (premio di traduzione Monselice "Leone Traverso" 2012) e Tiresia di Marcel Jouhandeau (2013). Ha scritto una tesi di dottorato in Letterature comparate sul Kitsch e il romanzo contemporaneo ed è uno dei membri fondatori del collettivo italo-francese di traduttrici meridiem. Suoi articoli e recensioni sono apparsi anche su Alfabeta, L'indice dei libri del mese, Le parole e le cose. Seguendo questo link, la lista completa dei suoi post: https://www.nazioneindiana.com/tag/ornella-tajani/ - Cliccando su "View all posts", una lista parziale