Buongiorno mezzanotte. Sull’ultimo libro di Lisa Ginzburg
di Ornella Tajani
È difficile descrivere una voce, circoscriverne il raggio e le modalità d’azione. Leggendo gli scritti di Lisa Ginzburg – che si tratti di romanzo, racconto o dei suoi numerosi articoli e recensioni – non si può far a meno di riconoscere, nell’andamento della narrazione, in un giro di frase o nel costrutto di un’immagine, un medesimo timbro.
Con l’ultimo Buongiorno mezzanotte, torno a casa (Italosvevo, 2018), il cui titolo riprende nella prima parte un verso di Emily Dickinson, Ginzburg propone una esplorazione del vocabolario dell’esilio: distanza, déplacement, transito, esitazione, non ritorno sono alcuni dei lemmi a partire dai quali l’autrice indaga la nostalgia nervosa del dispatrio, un sentimento quasi speculare a quello racchiuso nel titolo del romanzo di Kundera L’ignorance, evocativo della sofferenza che sta nel non sapere cosa accade a ciò che si è lasciato. Qui il tormento nasce invece dall’incessante rovello sulla eventuale opportunità del ritorno: quello narrato è un esilio volontario, non mosso da ragioni concretamente drammatiche, ma tipico di molte vite plasmate sulla mobilità del XXI secolo, che mai esclude la possibilità del rientro in Italia – il paese più amato, continua ossessione di chi scrive.
In modo efficace Ginzburg associa l’idea del déplacement allo strabismo, spiegando come il disturbo ottico non sia una pulsione a guardare in direzioni opposte, bensì un’ostinata fissità che ostacola il cambio di prospettiva; così il termine francese viene a indicare «un dislocarsi fisico, senza che tuttavia al pensiero riesca di stare al passo con la transizione geografica». E, ancora, si legge: «Lontana dall’Italia, continuo a pensare all’Italia», lungi però dall’idea di concretizzare il ritorno.
Come si configura allora il rapporto con la terra ospitante, in questo caso la Francia? Il primo commento riguarda il polemico rapporto con la lingua: «Non mi sforzo di parlar bene al punto da mimetizzarmi e non lasciar trasparire il mio essere italiana. Mi esprimo al contrario con deliberata sciatteria, in segreto rallegrandomi con me stessa della mia imprecisione». In una città come Parigi, un atteggiamento di questo tipo rappresenta il supremo atto di resistenza a una forma di integrazione che la città pretende senza complimenti: restare significa inquadrarsi, anche linguisticamente, altrimenti la patina di straniero resterà il primo elemento identificante. Ginzburg – che è attratta dall’ossimoro perfetto, l’idea del transito duraturo, l’ebbrezza delle molteplici possibilità – si sottrae al gioco dell’incasellamento con la volontà di cogliere, invece, le occasioni creative che la libertà del vivere all’estero offre, nel momento in cui diventa possibile reinventarsi incessantemente e offrire così nuova linfa alla scrittura.
Nella prima metà di questo piccolo libro tutto sembra convergere verso l’idea che il ritorno resti incompiuto soltanto per la voglia di riservarsi tale possibilità per il futuro, suggerendo dunque che la nostalgia non sia altro che una raffinata forma di desiderio: finché non si torna, ci si può sempre gingillare con il pensiero del rientro; quale altrove immaginario resta invece a chi rimpatria?
Nella seconda parte, tuttavia, le carte si rimescolano. «A cosa servono le radici se non puoi prenderle con te?» diceva Gertrude Stein, citata da Susan Sontag, che commentava quanto un simile concetto fosse «very Jewish». Il nodo delle radici ebraiche è esplicitamente affrontato dall’autrice, che ad esse ascrive «l’ossessiva divagazione su distanza, nostalgia, autoascolto versus inventività quando lontana da “casa”»: ecco che il piano del discorso si sposta nettamente sulla creazione letteraria; compagni d’esilio dell’autrice diventano Ortese, Gogol, Joyce, Rhys. Quest’ultima scriveva: «non sarei mai appartenuta a nessun luogo, e lo sapevo, e sarebbe stato così per tutta la vita, cercare di appartenere, e non riuscirci». Attraverso il pensiero dei quattro autori, intervallato da suggestioni suscitate ora da una citazione, ora da una canzone, Ginzburg mette in luce il modo in cui la distanza «funziona come “fecondo tormento”», quando l’esilio – che è anche latitanza da sé stessi, e parziale vaccino al narcisismo – rovescia l’io al di fuori di sé, rendendolo più ricettivo ai sensori esterni, più attento e dunque più ispirato.
Al di là del legame tra creazione e nostalgia, l’altrove è diventato un’utopia condivisa, come l’autrice non manca di rilevare nelle ultime pagine, compiendo quel salto dal dato biografico alla descrizione di una condizione collettiva, lo slancio sempre necessario dal particolare all’universale. L’inquietudine geografica nasconde in realtà una difficoltà storica: è il proprio tempo che è difficile abitare e questo poco ha a che vedere con la città che scorre sullo sfondo. Abitare il proprio tempo: una sfida che Ginzburg sembra vincere entrando nella dimensione del racconto, seguendo il movimento della parola, trovando infine casa proprio all’interno della voce citata in apertura.