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Felicia

di Roberto Saviano

Felicia Bartolotta.jpg E’ morta a 88 anni Felicia Bartolotta. E’ morta a Cinisi. Sino alla fine è rimasta a Cinisi. La terribile Cinisi di Gaetano Badalamenti. La Cinisi di suo figlio, Peppino Impastato.

Per vent’anni. Per vent’anni che è un tempo che se si chiudono gli occhi non si riesce neanche lontanamente a delineare. Per vent’anni Felicia ha cercato di lottare affinchè la memoria di suo figlio non fosse finita in un gorgo senza ricordo, in una assente sentenza di condanna verso un ragazzo la cui vita rischiava di esser passata troppo lievemente rispetto a quanto aveva fatto e tentato di fare. Peppino è stato per anni definito da certa stampa e da certi politi nient’altro che un mezzo terrorista morto mentre stava mettendo una bomba su un binario. La messinscena che i mafiosi di Badalementi architettarono per non aver problemi proprio nel loro paese riuscì per ventiquattro lunghissimi anni.

La fragile Felicia ogni giorno continuava assieme a suo figlio Giovanni a guardare in volto le persone di Cinisi, i carabinieri, gli uomini di Cosa Nostra. Per vent’anni ha atteso che emergesse un frammento di verità e che Tano Badalamenti il boss di Cosa Nostra che aveva ucciso suo figlio fosse finalmente condannato. Felicia Bartolotta ha vissuto per vent’anni con l’assassino di suo figlio che padroneggiava a Cinisi di ritorno dai suoi viaggi in USA, con Badalamenti che prima di venir sconfitto dai Corleonesi di Riina e Provenzano era l’incontrastato sovrano degli affari di Cosa Nostra.

In una bella intervista di quache anno fa, vevano fatto a Felicia una solita domanda. Una domanda che fanno sempre ai meridionali. Una domanda screanzata ma ormai considerata normale quando si interloquisce con un uomo o una donna del sud. “Perché non si trasferisce?” Lei aveva risposto con il suo solito resistere apparentemente ingenuo: “Io non mi posso trasferire in un altro paese: prima di tutto perché ho tutto qua: la casa qua, mio figlio ha il lavoro qua e poi devo difendere mio figlio.”

E l’ha difeso davvero. All’udienza in Tribunale la piccola Felicia puntò il dito contro Badalamenti lo fissò negli occhi e lo accusò di essere l’assassino di suo figlio, di averlo non solo ucciso ma dilaniato, di essere stato non solo un mafioso ma una belva. Badalamenti restò immobile, a lui che neanche Andreotti osò mai imporgli parola sembrava impossibile essere accusato da quella vecchietta.

Felicia se l’è portato dentro quel figlio sino a quando dopo ventiquattro anni finalmente una sentenza ed un film di successo, I Cento passi , hanno dato memoria e verità ad un ragazzo che non andò via dal paese e che volle schierarsi contro Cosa Nostra svelando le sue dinamiche attraverso la voce della sua piccola Radio Aut e i pochi fogli ciclostilati. Una battaglia continua e solitaria da fare immediatamente “prima di non accorgersi più di niente“.

Inviavo a Felicia gli articoli sulla camorra che scrivevo, così, come per una sorta di filo che sentivo da lontano legarmi alla battaglia di Peppino Impastato. Un pomeriggio, in pieno agosto mi arrivò una telefonata: “Robberto? Sono la signora Impastato!”
A stento risposi ero imbarazzatissimo, ma lei continuò: “Non dobbiamo dirci niente, dico solo due cose una da madre ed una da donna. Quella da madre è stai attento, quella da donna è stai attento e continua.”

Molti ragazzi oggi si sono radunati fuori la casa di Felicia ad omaggiare questa signora che sino alla fine ha combattuto con un fuoco perenne contro ogni certezza di sconfitta. Ma Cinisi è assente, niente sindaco, niente Presidente della Regione, niente di niente. Meglio così. I sorrisi dei ragazzi venuti da tutte le parti della Sicilia sono assai migliori. I padroni di sempre però sono tornati e continuano a comandare.

Ma lei è lì. Il suo corpo è sereno. La verità è emersa, i ragazzi conoscono Peppino, sanno chi è stato, conoscono la strada che lui ha tracciato. La possono seguire. Ora poteva morire tranquilla.

Addio Felicia.

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