Cento passi, uno indietro
di Helena Janeczek
Forse sto contravvenendo agli statuti della tribù (non ci si loda e imbroda gli uni con gli altri), ma il pezzo di Roberto Saviano in memoria della madre di Peppino Impastato mi ha commosso. Commosso letteralmente, mossa dentro: con i suoi refusi, la sua foto di una vecchia secca occhialuta di nome Felicia, con la sua retorica frettolosa da prosa a servizio della testimonianza, cioè di approssimazione alla verità.
I cento passi li ho visti di recente, su un canale a pagamento. Li ho guardati fino in fondo perché dietro a Luigi lo Cascio, c’era un uomo dilaniato per davvero, innocente anche del fatto che le migliori intenzioni civili finiscano in fiction. Eppure – come ricorda Roberto – questo film che banalizza nelle sue scelte rappresentative la vita e la morte di suo figlio nonché la sua, ha reso la vita e la morte più facile a Felicia Bartolotta. Grazie al film Peppino era uscito da Cinisi, era andato nei cinema, in televisione, sulle reti nazionali, persino oltre: questo era il fatto. Visto dal paese, visto dagli occhi di una madre sopravvissuta: che cosa gliene fregava a lei se artisticamente era bello o brutto?
Credo che questo valga come monito, proprio perché per noi che ci occupiamo di cinema, letteratura, teatro ecc. non può valere: neanche il fine più virtuoso giustifica l’inadeguatezza estetica dei mezzi. Confezionare l’uccisione di uno che è stato trucidato veramente col sottofondo, a manetta, di A whiter shade of pale è fare uso di tutt’altra retorica. Non c’è più fretta, urgenza, ingenuità che tenga. Se è con quella che si riesce a fare “presa emotiva sul pubblico”, sarebbe preferibile di no.
“Robberto, sono la signora Impastato”. Ricordarsi di non essere indegni di chi ricerca e cerca di dire “soltanto” la verità giornalistica: questo è quanto dice a me quella telefonata.