Osservazioni marginali sulla cultura europea contemporanea

di Giorgio Mascitelli

 

 

 

 

Con la morte di Jean Starobinski il marzo scorso arriva probabilmente a estinzione o quasi quella tradizione plurigenerazionale di studiosi novecenteschi, di formazione storicofilologica, in grado sia di muoversi con rigore specialistico su singoli aspetti sia di padroneggiare  una visione d’insieme dei fenomeni culturali e letterari, di cui il più autorevole esponente è stato, a parere di molti, Erich Auerbach.  Si potrebbe affermare che furono studiosi che non avevano bisogno di alcuna comparatistica non soltanto perché il loro standard era quella di conoscere a menadito quattro o cinque lingue e culture, oltre la propria, ma perché essi stessi incarnavano quella sostanziale unità della cultura europea: le opere che analizzavano dentro una specifica letteratura nazionale avevano per loro significato solo in un ambito europeo.  Non credo che la loro scomparsa dipenda dal fatto che oggi non ci sono più ingegni e possibilità di formazione di quel livello, ma dal fatto che nel sistema della cultura contemporanea non esista più uno spazio per percorsi di tal genere.

In un certo senso è sorprendente che in un’epoca globalizzata come quella attuale, in cui grazie alla rete i contatti tra culture sono sempre più immediati e diretti, a scomparire siano proprio quegli aspetti della cultura tradizionale che sono più moderni e per l’appunto più globali. D’altra parte Starobinski, Auerbach e tutti gli altri furono esponenti d’èlite della cultura di un mondo pluricentrico e plurilinguista ( fino al conflitto), in cui fatalmente i rapporti centro/periferia erano più sfumati e per così dire concentrici, mentre la globalizzazione esprime un disegno imperiale di pacificazione del mondo, monolinguistico e imperniato su una rigida divisione di ruoli tra le numerose periferie e un solo centro.

La principale ragione, tuttavia, di questa scomparsa sta nella crisi dell’umanesimo, che secondo una suggestiva formulazione di Peter Sloterdijk è da individuare nell’incapacità della cultura umanistica di svolgere una funzione, simbolica ed effettiva, di unificazione comunicativa degli abitanti di una moderna società mediatica. Le tappe della crisi dell’umanesimo coincidono con lo sviluppo tecnologico della cultura di massa, dalla fine della prima guerra mondiale con la diffusione della radio alla fine della seconda con quella della televisione per arrivare alla rete a partire dalla fine della guerra fredda. In questo modo il processo di formazione che ha al centro il libro, tipico della cultura umanistica, entra profondamente in crisi. La crisi della cultura umanistica si sviluppa lungo tutto il novecento, anche se essa diviene di dominio pubblico solo con la fine del secolo breve e l’inizio della globalizzazione.

Questa scomparsa è purtroppo una cattiva notizia per l’Europa perché l’idea non solo di un federalismo europeo, ma in generale l’idea di un’unità europea a qualsiasi titolo ha senso solo nell’umanesimo: per capirlo non serve sviluppare raffinate analisi comparative fra Il manifesto di Ventotene e il discorso tecnocratico oggi dominante nelle istituzioni dell’Unione, basta considerare lo stato di fatto che oggi in Europa, se si rispettano certi parametri economici, è poi possibile assumere qualsiasi posizione politica o intraprendere qualsiasi tipo di avventura contro qualsiasi degli altri stati membri. Esaurita l’idea umanistica che la cultura europea fosse figlia, al di là delle specificità nazionali, di una comune radice legata all’idea della civilizzazione rappresentata dalla parola scritta, è restata solo un comunanza geografica e di qualche interesse economico, a cui peraltro si contrappongono una storia irta di odi reciproci e altri interessi economici divergenti,  che si è cercato di tenere insieme tramite l’ideologia liberista ossia un’ideologia che propone come cardine della società la competizione a tutti i livelli, tra individui, tra aziende, tra stati.  Indicativa a questo proposito la vicenda della costituzione europea: essa è stata bocciata in quei paesi dove, democraticamente, aveva bisogno dell’approvazione di un referendum popolare perché era talmente intrisa di neoliberismo da risultare agli occhi delle popolazioni un deciso passo indietro rispetto alle rispettive costituzioni nazionali. Non è però il  trattato di Lisbona che ha preso il posto della costituzione europea nella pratica effettiva: l’atto costituente della nuova Unione europea è stato il caso greco e il modo in cui la Grecia è stata sanzionata dalle autorità comunitarie. La vera costituzione europea è rappresentata dalla legge dei mercati e dal sovrano che la custodisce, la Germania.  Questo atto ha segnato anche la fine dell’idea umanistica dell’Europa come comunità legata da radici comuni. Non è un caso che la scelta di questi giorni del governo greco di chiedere alla Germania il pagamento dei debiti di guerra, una scelta in realtà obbligata da quanto il paese ha subito, abbia il significato di reintrodurre nei rapporti europei ciò che era stato lasciato alle spalle alla fine della guerra in nome dell’utopia umanistica europea. La forza e il fascino della comunità europea erano stati proprio la volontà di costruire oltre i disastri della storia in un’atmosfera di speranza, cooperazione e di rottura con il passato che prevaleva comune sugli aspetti di competitività economica: gli atti di ostilità subiti dalla Grecia in questi anni ( ma lo stesso si potrebbe dire dell’azione francese in Libia nei confronti dell’Italia) riportano a un clima e a un sistema di rapporti tra paesi che ricorda oggettivamente quello tradizionale.

Mai come ora ci vorrebbe un terreno comune che può nascere solo dalla cultura, ma se pensiamo alla cultura attuale delle élite, una cultura tecnocratica intrisa di pensiero economico main stream, dobbiamo riconoscere che essa è stata efficacissima nell’alimentare il conflitto, ma quanto a sviluppare un senso di comunità nascente dalla conoscenza reciproca delle rispettive culture e storia non ha, per usare un eufemismo, raggiunto gli obiettivi auspicati. A questo proposito mi ricordo che nei giorni della crisi del 2012 il commissario europeo agli affari economici e monetari Olli Rehn, finlandese, per far capire alla stampa italiana che era un conoscitore della nostra cultura dichiarò che da ragazzo aveva letto Don Camillo. A livello di cultura popolare le cose non vanno meglio: in ogni paese esiste la propria cultura nazionale e quella statunitense egemone a livello internazionale, anzi il livello dei rapporti tra culture popolari europee è in discesa. Fino a trenta quarant’anni  fa per esempio molti cantanti che avevano successo nel proprio paese cantando nella propria lingua riuscivano a diventare noti anche in altri paesi europei, oggi non più.

In questo contesto solo l’habitus umanistico di pensare a una comunanza di civiltà sotto le differenze potrebbe consentire di gettare qualche ponte e pensare a qualche politica che non sia solo rispetto dei parametri, ma che parli alla popolazione europea. D’altronde ci è stato spiegato in tutte le salse che la cultura umanistica non serve a nulla nel mondo contemporaneo e gli unici ponti che interessano sono quelli in cemento armato.

 

 

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