Da “Considerare. Migranti, forme di vita”

di Marielle Macé

traduzione di Matteo Martelli

[Pubblico con grande piacere l’estratto di un libro apparso in Francia per Verdier nel 2017, di cui io stesso scrissi qualcosa su NI (Accompagnare i minori), e che esce oggi in traduzione italiana per l’editore amico Metauro.]

 

Sgomento e considerazione

 

Bisogna pensarci in permanenza, pensare a tutto questo e a quanto vi si lega (come Baudelaire: «È a te che penso, Andromaca! […] ai prigionieri, ai vinti… ad altri, ad altri ancora!»[1]): pensare a questo accampamento in più in piena Parigi, a queste soglie demoltiplicate, a questi spazi inabitabili eppure abitati, a questi migranti che riusciamo a cogliere solo per le loro pene e perdite, che percepiamo solo come spettri. Pensare a questa impossibile vicinanza, a questa memoria difettosa, con il sentimento di sgomento che nasce da tutto ciò, e la violenza che questo sgomento quotidianamente autorizza.

Ma vorrei inoltre tentare un cammino differente, o reciproco, come direbbe Hannah Arendt. Provare a parlare delle vite che esistono e proseguono, che tentano o devono proseguire in pieno campo:  non di migranti colti solamente per la loro invisibilità e la loro distanza dalla maggior parte delle nostre vite (loro a cui capita ciò che a noi non accade o non accade più in questo modo), ma di persone alle quali ci si riferirebbe per il significato dei loro gesti, dei loro sogni, dei loro tentativi e delle loro esperienze. Parlare anche, e soprattutto, non più del sentimento di sgomento ma del moto di considerazione che dovrebbe animarci. Di considerazione, ossia d’osservazione, d’attenzione, di premura, di riguardo e di conseguenza di riapertura di un rapporto, di una prossimità, di una possibilità.

Perché cedere allo sgomento (come deve avvenire di fronte a tutto ciò che è in effetti esorbitante) significa al tempo stesso restare pietrificati, senza parole, rinchiusi in un’emozione che non è facile trasformare in azione. Significa rintanarsi in un’ipnosi, in un senso di stupefazione, all’interno un sortilegio nel quale si consuma in qualche modo la riserva di condivisione, di legami, di gesti che potrebbero nutrire la conoscenza che abbiamo di queste situazioni, ma che resta invece una sofferenza a distanza. Non che non sia niente, questa «sofferenza a distanza», come ha mostrato Boltanski[2]; ma in essa qualcosa rinchiude coloro che arrivano entro confini già prestabiliti, e noi stessi corriamo il rischio di restare su un bordo: ai margini del nostro presente, delle sue molteplicità e di ciò che tutto questo ci chiede.

Al contrario, «considerare» sarebbe andare a vedere, tenere conto dei viventi, delle vite effettive, perché è in questo modo e non in un altro che esse si aprono al presente: tenere conto delle loro pratiche, dei loro giorni, e di conseguenza aprire ciò che lo sgomento rinchiude. Non designare o etichettare delle vittime, ma descrivere tutto ciò che ognuno «mette in opera – bene o male, in maniera efficace o meno, funzionalmente o no, con delle risorse economiche, relazionali, culturali, affettive estremamente disparate – per far fronte a un momento di accresciuta vulnerabilità, o a una situazione di precarietà»[3]. Non: Eccoti, dunque, vittima, vittima sempre! Ma: E tu, come vivi, come vai avanti, come fai a vivere qui, a vivere tutto ciò, questa violenza e la tua tristezza, questa speranza, i tuoi gesti: come ti dibatti nella tua vita? – perché, naturalmente, mi ci dibatto anche io.

 

 

Il verbo francese per lo sgomento, sidérer, deriva dal latino sidus, sideris, la stella: si tratta di subire l’influenza nefasta degli astri, d’essere colpiti, bloccati, dallo stupore. E bisogna associargli tutti i verbi dell’immobilizzazione nello spettacolo del terrore: pietrificare, impietrire, costernare, interdire… Il latino aveva anche assiderare, che è ancora presente in italiano: congelare, ghiacciare, intorpidire per il freddo intenso. Ma c’era ugualmente desiderare: volere intensamente, sentire una mancanza, un rimpianto o un bisogno (la mancanza di cosa? di una costellazione, di un astro: il desiderio è come la nostalgia di una stella). E, ancora, c’era considerare, che designava la contemplazione degli astri, poiché gli astri chiedono d’essere osservati con intensità, scrupolo, pazienza.

Considerare, in effetti, è guardare attentamente, avere dei riguardi, fare attenzione, tenere conto, avere cura prima di agire e per agire. È la parola per definire quanto è da «ritenere degno di stima»,  ciò a cui «fare caso», ma anche la parola del giudizio, del pensiero, della valutazione. È una parola della percezione e della giustizia, dell’attenzione e del diritto. Indica una disposizione nella quale si congiungono lo sguardo (l’esame, tramite la vista o il pensiero) e il riguardo, l’accuratezza, l’accoglienza coscienziosa di ciò che ci si deve sforzare di trattenere sotto gli occhi…

Davanti a eventi così violenti come la «crisi dei migranti», la più comune e immediata risposta è cedere allo sgomento invece che considerare. Ma il soggetto dello sgomento non è lo stesso della considerazione. Il soggetto dello sgomento vede l’esorbitante dei campi, lo ritrova, si nutre d’immagini nelle quali riconosce la relegazione, la miseria, la sofferenza che lui già si aspetta  (e in questo riconoscimento c’è la sua virtù, la sua compassione); ma qui «l’abbondanza delle rappresentazioni visuali maschera la debolezza delle informazioni, delle analisi, dei dibattiti politici»[4]. Il soggetto della considerazione dovrebbe invece guardare queste situazioni, vedere queste vite, giudicare, tentare, sfidare e lavorare per relazionarsi differentemente a coloro ai quali rivolge la sua attenzione e per le cui vite dovrebbe anche poter essere sorpreso.

Considerare, fare caso a: è forse con questo obiettivo, per esempio, che Raymond  Depardon ha aperto il documentario intitolato Afriques, comment ça va avec la douleur ? con le lente immagini di un funerale, perché si provi passo a passo (e si ha vergogna d’esserne stupiti) che anche nella condizione di un’infinita miseria il lutto è sempre il lutto di una persona: una persona assoluta, di cui si piange e, anche se anonima, proprio quella, un padre, una sorella, un’amante, visti uno alla volta. Perché sembra così difficile per lo spettatore abituato alla massa d’immagini sintetiche e disinvestite della miseria e della violenza africane – la maggior parte del tempo prese come «un flusso in cui contano solo l’intensità e il volume»[5] -, sembra così difficile scorgervi delle esistenze vissute, nella loro avventura, nella loro concretezza, nel loro quotidiano come nella loro intimità psichica.

In verità, l’obiettivo (è scioccante?) non è distinguere ogni vita perduta. È quasi il contrario: è sentirla simile, ossia anche dissimile. E sentirsi simili-dissimili. Contemporanei, interdipendenti, eguali; dovendolo essere, eguali. Se ogni vita è insostituibile (e lo è), non è esattamente perché essa sia unica (anche se evidentemente lo è), ma perché è eguale, e dovrebbe sempre essere considerata come tale.

Ora, tutto accade come se noi ricevessimo alcune vite come vite che non sarebbero in fondo veramente viventi; tutto accade come se considerassimo alcuni generi di vita, come scrive Judith Butler, «già […] come delle non-vite, o solo parzialmente viventi, o già morte e perdute, ancora prima di qualsiasi esplicita distruzione o abbandono»[6]. Ma riconoscere una vita come ciò di cui si può piangere, è anzitutto averla stimata pienamente vivente, e pienamente vissuta. È nella misura esatta in cui una vita è considerata come vissuta che può essere considerata come esposta a ferite, capace di vulnerabilità, capace d’essere persa, pianta, e di rattristare altri.

È inutile allora evocare l’idea, sconvolgente, di una «vita nuda» per parlare delle vite che lottano (e che spesso si devastano) sui nostri bordi. Ci si confronta sempre e soltanto con delle «vite». Perché non ci sono delle vite nude, non ci sono delle vite senza qualità: in queste circostanze non ci sono che vite spogliate e screditate (denudate per qualche episodio di violenza, squalificate per qualche assenza di considerazione, ossia in primo luogo di diritti – si pensi ad Adama Traoré[7] –, trascurate o tenute per poco conto da alcuni o da qualche cosa che ne porta la responsabilità).

«Questa non è vita»; sì, ma no: ne è sempre una, e anche per sentire che non è vivibile bisogna sempre sentire che è assolutamente vissuta. Le vite vissute in una condizione d’immensa spoliazione, d’immensa distruzione, d’immensa precarietà sono, in queste condizioni d’immensa spoliazione, d’immensa distruzione, d’immensa precarietà, vive e da viversi, e ognuna è attraversata in prima persona, e tutte devono trovare le risorse e le possibilità di riformare il proprio quotidiano: preservare, provare, sollevare, migliorare, tentare, piangere, sognare fino a un quotidiano: questa vita, questo vivente che rischia se stesso nella situazione politica che gli è consentita.

 

 

 

[1] C. Baudelaire, I fiori del male, in Id., Opere, a cura di G. Raboni e G. Montesano, Milano, Mondadori, 1996, pp. 175-179.

[2] L. Boltanski, Lo spettacolo del dolore: morale umanitaria, media e politica, trad. it. B. Bianconi, Milano, Raffaello Cortina, 2000.

[3] M. Naepels, Dans la détresse. Une anthropologie de la vulnérabilité, Paris, Éditions EHESS, 2019, p. 18.

[4] M. Agier, Un monde de camps, Paris, La Découverte, 2014, p. 13.

[5] P. Vasset, La légende, Paris, Fayard, 2016, p. 152.

[6] J. Butler, A chi spetta una buona vita?, trad. it. N. Perugini, Milano, Nottetempo, 2013, p. 10.

[7] L’autrice si riferisce al caso di morte violenta d’Adama Traoré sopravvenuta durante un fermo di polizia nella gendarmeria di Persan (Île-de-France) nel 2016, e all’intenso e controverso dibattito, anche giudiziario, sulle responsabilità dell’accaduto (NdT).

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Andrea Inglese (1967) originario di Milano, vive nei pressi di Parigi. È uno scrittore e traduttore. È stato docente di filosofia al liceo e ha insegnato per alcuni anni letteratura e lingua italiana all’Università di Paris III. Ha pubblicato uno studio di teoria del romanzo L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo (2003) e la raccolta di saggi La confusione è ancella della menzogna per l’editore digitale Quintadicopertina (2012). Ha scritto saggi di teoria e critica letteraria, due libri di prose per La Camera Verde (Prati / Pelouses, 2007 e Quando Kubrick inventò la fantascienza, 2011) e sette libri di poesia, l’ultimo dei quali, Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato, è apparso in edizione italiana (Italic Pequod, 2013), francese (NOUS, 2013) e inglese (Patrician Press, 2017). Nel 2016, ha pubblicato per Ponte alle Grazie il suo primo romanzo, Parigi è un desiderio (Premio Bridge 2017). Nella collana “Autoriale”, curata da Biagio Cepollaro, è uscita Un’autoantologia Poesie e prose 1998-2016 (Dot.Com Press, 2017). Ha curato l’antologia del poeta francese Jean-Jacques Viton, Il commento definitivo. Poesie 1984-2008 (Metauro, 2009). È uno dei membri fondatori del blog letterario Nazione Indiana. È nel comitato di redazione di alfabeta2. È il curatore del progetto Descrizione del mondo (www.descrizionedelmondo.it), per un’installazione collettiva di testi, suoni & immagini.