L’abbecedario rimbaldiano di Philippe Forest
di Ornella Tajani
Un destino di felicità (2019) è il titolo con il quale Rosenberg&Sellier danno alle stampe il saggio Une fatalité de bonheur (2016) di Philippe Forest, autore di diversi romanzi pubblicati in Italia, fra i quali Piena e Tutti i bambini tranne uno (Fandango, 2018). Il volume, tradotto da Gabriella Bosco, già voce di Forest per la sua produzione romanzesca, appare nella collana «Biblioteca di Studi Francesi».
Si tratta di un abbecedario rimbaldiano, un breviario fra autobiografia, psicanalisi e critica letteraria che prende come spunto la poesia di Rimbaud: una sorta di esquisse d’auto-analyse, per riprendere il titolo bourdieusiano, in cui l’autore, ispirandosi ora alle prose poetiche, ora ai versi, esplora il proprio spazio esistenziale. Più che un saggio su Rimbaud, questo breve libro è quindi un saggio attraverso di lui, par Rimbaud.
Del resto, Forest provvede subito a far sparire qualsiasi dubbio in merito a sue eventuali pretese esegetiche, scrivendo a proposito delle Illuminations:
Senza che nessuno abbia la spudoratezza di farlo osservare ai professori, i commenti da loro pronunciati ex cathedra assumono il valore di confessioni pubbliche da parte di chi li formula. Chiunque ritiene di svelare il mistero di quelle poesie, in realtà mette in mostra i propri appetiti, le proprie ripugnanze, i propri pregiudizi. Il ritratto che ne emerge di Rimbaud ha tutta l’aria di uno specchio in cui si riflette il volto del ritrattista.
Ovviamente la cosa vale anche per me.
Ciò che colpisce sin da subito nel tono del testo è la sincerità disarmante, così libera, con la quale l’autore si esprime (ritornerò sulla sua idea di libertà).
Alla lettera D, Forest propone il termine Deuil, lutto, che è solo il rovescio della medaglia del Désir (e chi, dall’abbecedario di Deleuze in poi, potrebbe mai proporre un termine diverso da “desiderio” per la quarta lettera dell’alfabeto?). Riprendendo una definizione di Aragon, Forest spiega che Deuil e Désir formano il suo “Sistema Dd”, il suo sistema Dada. Deuil è la parola che spezza la vita in due, stabilendo un prima e un dopo; ma è anche il vuoto, la mancanza strutturante che il desiderio cerca per tutta la vita di colmare – che tale lutto sia pregresso, «anteriore alla circostanza nella quale […] si manifesta», come sostengono alcuni, o che sia un lutto vero e proprio, come quello della sua unica figlia, già in passato più volte evocata: «è lei, la piccola morta, dietro i roseti», scriveva Rimbaud.
È proprio questo lutto dalla portata così devastante ad aver permesso all’autore di provare, almeno per una volta, «la libertà libera» di cui parla il poeta in una lettera al suo insegnante Georges Izambard.
Dopo la morte di mia figlia – scrive Forest -, l’universo si è svuotato improvvisamente di ogni senso, il tempo è uscito dai cardini, mi sono sentito libero da qualunque obbligo – nei confronti del mondo, come di me stesso -, a fluttuare in una sorta di nulla in cui più niente aveva presa su di me: spaventoso e patetico agli occhi degli altri, ma libero di una “libertà libera” che, ormai lo sapevo, rappresentava per me il solo valore della vita.
Questa peculiare forma di libertà richiede una sorta di addio al mondo. Forest la ricollega al lemma immediatamente successivo nel suo abbecedario, “Moderno”, evocando in apertura il celebre falso slogan «Bisogna essere assolutamente moderni», racchiuso nella Stagione in inferno, e accennando a quanto fosse poco probabile che Rimbaud volesse proporlo ai posteri come motto da seguire; ed è proprio così. In un saggio mai tradotto in italiano [1], Henri Meschonnic ha chiarito una volta per tutte che questa frase non vuol dire ciò che si è voluto credere: non si tratta, infatti, di una «phrase-drapeau», di un «Manifeste en raccourci du modernisme», giacché il valore del termine «moderne» è per il poeta perlopiù peggiorativo, e mai elogiativo. Laddove Rimbaud parla di ciò che noi oggi designiamo in poesia come “moderno”, spiega Meschonnic, egli adotta il termine “inconnu”, meta indiscussa del poète voyant.
«Il faut absolument être moderne», inoltre, è una frase impersonale che si oppone, all’interno del discorso, al je così insistentemente rivendicato dall’autore.
Les ll faut, dans Une saison en enfer, sont, comme la grammaire élémentaire le leur reconnaît, l’expression d’une obligation impersonnelle qui contraint le sujet, le subordonne à l’impératif en question. […[ Le il faut signale que l’action se mène à partir d’un en dehors du sujet. Ici, un dehors qui écrase le sujet. [Meschonnic]
In questo testo Forest, per sua stessa ammissione, si serve di Rimbaud come si fa con l’I Ching: seleziona ventisei parole chiave usate dal poeta o intorno a lui orbitanti, compone l’alfabeto e assiste alla profezia dell’oracolo; la poesia rimbaldiana emerge come mistica verità, insinuandosi fra le pieghe dell’esistenza dell’autore.
L’alfabeto ha un suo ordine specifico che determina quello del dizionario e non è quello della vita. Ci sono parole che arrivano troppo tardi. O persino mai. Ce ne sono altre che arrivano troppo presto. E senza che si sia ancora preparati a quello che significano.
A nera, E bianca, I rossa, U verde, O blu: Rimbaud aveva già proposto un suo personalissimo commento a cinque lettere dell’alfabeto, probabilmente associando loro i colori che le caratterizzavano sull’abbecedario che usava da bambino; ma, si chiede Forest, «perché fermarsi alle vocali?».
Un destino di felicità è il racconto della relazione che il suo autore ha con i grandi temi (l’amore, la morte, l’universale), attraverso una serie di figure, come verrebbe da chiamarle barthesianamente, forse non tutte ugualmente riuscite, che forniscono però un ritratto seducente di chi scrive e offrono al lettore più di uno stimolo interessante.
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[1] Si tratta del saggio dal titolo «Il faut être absolument moderne», un slogan en moins pour la modernité, in H. Meschonnic, Modernité modernité, Paris, Gallimard, «Folio», 2005 [prima edizione: Verdier, 1988].